Direzione didattica di Pavone Canavese

Le Istituzioni scolastiche nel contesto delle autonomie


18.07.2011

Il pettine e i nodi
di Franco De Anna

 

I “modelli”, si sa, hanno una loro forza intrinseca che proviene dalla coerenza assennata e prevista tra le parti che li compongono, le economie interne che si realizzano nel loro equilibrio, la possibilità reale di agirne le variabili costitutive con buona “predittvità” dei risultati.

Sono, ovviamente, “descrizioni approssimate” della realtà, dunque anche la loro “forza interna” non elimina la persistente aleatorietà della realtà, la variabilità che richiede l’intervento mirato, insomma il loro “governo”.

Dunque non basta definire i modelli, ma occorre sempre sviluppare sulle loro coerenze e forze interne la esplicita capacità di “guida” e “decisione”, semmai di ”correzione” permanente della loro dinamica reale (il “governo” appunto: tenere la barra con correzioni successive e misurate).

Ciò che non si può fare è “mescolare” diversi modelli e le loro logiche, sperando che si sommino le loro intrinseche forze. In realtà, così facendo se ne sommano le approssimazioni e gli inevitabili difetti.

L’autonomia scolastica, nel suo impianto prefigurava una diversa “modellizzazione” del sistema scolastico: ad un “produttore unico” del servizio di istruzione, che rimetteva il suo comando operativo dal centro (il “superiore” Ministero) alla periferia, attraverso la struttura tradizionale “prefettizia” (i Provveditorati), si sostituiva una “pluralità di produttori” autonomi; e al “comando” distribuito lungo l’algoritmo amministrativo avrebbe dovuto sostituirsi “la regolazione” attraverso funzione di “service” che tenessero conto, in termini isomorfi, del parallelo processo che (per sintetizzare impropriamente) prese l’etichetta ambigua del “Federalismo”. (In realtà revisione della distribuzione territoriale dei poteri, deconcentrazione, decentramento, devoluzione.. processi affrontati in tutti i paesi europei, compresa l’accentratrice Francia, ma da noi riassunti in modo bastardo e dunque inefficace nel termine di federalismo).
 

Un “servizio alla cittadinanza”, necessariamente “molecolarizzato” sul territorio, come non può non essere l’istruzione,  se affronta tale rimodellizzazione, “deve”, preliminarmente, interrogarsi sulle “economie di scala” che rendano agibile e “forte” il modello stesso.

Non l’abbiamo fatto se non con le iniziali proposte di dimensionamento del Regolamento dell’autonomia, del tutto insoddisfacenti, sotto il profilo delle “economie di scala” (più soddisfacenti sotto quello di altre variabili di cui sarebbe bello tacere come il numero di “presidenze”…).

Ne scaturì un modello “piccolo è bello” particolarmente “diseconomico” (e politicamente debole nel confronto tra “poteri”), sia per la distribuzione dei costi, sia, soprattutto, per lo sviluppo delle potenzialità interne.

Per esempio sotto il profilo dello sviluppo della “autonomia di ricerca e sviluppo” che pure rappresenta(erebbe) un elemento di forza della autonomia scolastica.

Ha ragione Stefanel: la ricerca ha bisogno di economie di scale.

Quali risultati si possono mai chiedere sul piano della ricerca e della sperimentazione a Collegi dei docenti di cinquanta persone? Un buon lavoro e degnissimo per l’impegno che esplicita, non è “ricerca”.

La ricerca, per definizione, ha bisogno di massa critica di risorse per potersi sviluppare (del resto è analogo il ragionamento che si fa per i modelli di Piccola e Media Impresa: efficaci e flessibili nella realizzazione concreta, ma insufficienti a produrre autonomamente know how innovativo).

Questo nodo viene al pettine, ora, e nel modo peggiore.

Non in  nome della necessità di rinforzare la composizione interna delle economie e delle risorse (tutte) delle scuole autonome, diretta a potenziarne l’efficacia e dunque l’autonomia stessa; ma in nome della composizione dei “costi esterni” nella stagione della necessità dei tagli. Dunque come limitazione alla autonomia e “riconcentrazione” del comando economico.

Giuste le proteste, ma occorre che ricordiamo tutti, autocriticamente, ciò che non abbiamo fatto ( e spesso delle ragioni è bello tacere) negli oltre dieci anni di avvio e poi consolidamento dell’esperienza dell’autonomia. Non hanno proceduto le scuole, non le Regioni e gli Enti locali, non l’amministrazione, non la politica scolastica….

Si può recuperare? Credo di si, a patto che la reazione di fronte alla novità non sia ancora una volta la mera preoccupazione conservativa… Occorrerebbe “rilanciare”, sparigliare le carte, per esempio scambiando razionalizzazione dei costi (attraverso il dimensionamento)  con aumento dell’autonomia, attraverso una “diversa alleanza” con le Regioni, ecc… se ne potrebbe discutere, se ci fosse, o fosse rintracciabile una qualche “politica scolastica”. Altrimenti ci si limita  resistere riottosi e scontenti, e ad ogni inevitabile arretramento, sempre più frustrati…    

Il secondo “nodo” che viene al pettine è la sconnessione con il disegno di rimodellizzazione territoriale del governo del sistema che era coerente con l’autonomia (rileggere la Bassanini di cui essa è figlia…).

Rimane invece la struttura prefettizia dei Provveditorati (cambiamo pure i nomi: ma le strutture, l’assetto dirigenziale, alcune competenze chiave come gli organici, rimangono le medesime…). Le strutture delle direzioni regionali sono sostanzialmente appendici territoriali del Ministero, sconnesse dalla ripartizione e deconcentrazione dei poteri e dalla regionalizzazione dello Stato…

I protocolli messi a punto dalla Conferenza Stato Regioni sull’assetto del sistema di istruzione in oltre quindici anni dalla Bassanini e a più di dieci dalla riforma costituzionale, sono, sotto il profilo delle realizzazioni pratiche, ancora al palo…. Con buna pace degli slogan federali…

Nessuno ha elaborato una assennata ipotesi di “costi standard” per il servizio di istruzione, ne tanto meno di un sistema di definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione che rendano fondati e giustificati i costi standard (altrimenti essi sono solo rielaborazione delle medie dei costi storici…).

Siamo, appunto, alla sovrapposizione di due modelli: quello che si vorrebbe “nuovo” e la persistenza di quello precedente. Dunque alla somma dei difetti di entrambi

Infine il terzo nodo al pettine è quello delle strutture dirigenziali.
Come ovvio il problema è “isomorfo” a quello della definizione delle “economie di scala”. Una “piccola impresa” non ha la struttura di gestione di una grande impresa… Ben vengano le esercitazioni “di scuola” sulla “leadership educativa” (mi piacerebbe che alle etichette corrispondessero contenuti effettivi e semantiche certe “di che cosa stiamo parlando”).

Ma non possiamo sganciarle da quel primo livello di discussione: che tipo di organizzazione è la scuola autonoma, quali dimensioni ha, che “economie” e composizione dei costi e risorse interni realizza (non solo di tipo economico)?

Altrimenti si tratta di esercitazioni di riflessioni preziose, ma senza esito. Anzi con sovrapposizioni semantiche curiose: se non è del tutto chiaro che cosa sia la “leadership educativa” lo è ancora meno sul che cosa sia la “leadership manageriale”.

Management e Leadership sono costrutti e concetti diversi e per qualche verso opposti. A quale opacità si perviene miscelandoli?

Il manager “sa fare le cose”; il leader “sa cosa va fatto”. Il primo sa tenere il timone, il secondo decide la direzione. Guidare l’equipaggio e stare materialmente al timone possono essere attività svolte dalla medesima persona se si tratta di una barca (e di piccole dimensioni), ma se si ha a che fare con una flotta…

Abbiamo a suo tempo fatta la scelta di far coincidere funzioni di  management e leadership nella medesima persona con la definizione dei Dirigenti scolastici. Una scelta discutibile (connessa alle altre iniziali dell’autonomia) ma probabilmente inevitabile nella fase di avvio.

Anche se, pure in tale caso, caricata da equivoci: un obiettivo corretto come quello individuare livelli retributivi pertinenti, perché si è espresso attraverso le “equivalenze” indicizzate con i dirigenti della Pubblica Amministrazione, invece che attraverso una franca ed aperta contrattazione sindacale? Le responsabilità sono più che individuabili, hanno nomi e cognomi. Derive da pubblico impiego…

Come è noto e ricordato da altri interlocutori, in altri Paesi si è scelto di distinguere le figure tra le responsabilità della guida educativa e quella della responsabilità gestionale. O comunque attraverso un articolazione della funzione dirigenziale interna alla scuola, parallela alla “complessificazione” qualitativa e quantitativa delle strutture autonome..

Pur considerando in parte inevitabile, in fase iniziale dell’autonomia, quella scelta di unica figura dirigenziale, in questi oltre dieci anni avrebbe pure potuto essere esplorato il campo della correzione, della sperimentazione, della complessificazione, se l’insieme delle “variabili del modello” autonomia fosse stato affrontato all’insegna della preoccupazione fondamentale di rafforzarne la “filosofia” e l’operatività interna (le coerenze e la governabilità della variabili).

A tutto ciò si aggiunga che la revisione del “modello di governance” interno alla scuola, è questione anch’essa ancora al palo: le scuole hanno il medesimo modello di governance definito con i Decreti Delegati del 1974. Se trentacinque anni vi sembran pochi…

I nodi (ma sono solo quelli essenziali) non affrontati e risolti in questo decennio, sono oggi sotto il pettine (fitto) delle esigenze del bilancio pubblico e dei suoi ancora più stretti vincoli.

E si sa, in questi frangenti, e con questa direzione politica  si tagliano risorse con la medesima approssimazione e assenza di valutazione con la quale, in altri anni, si sono spese.

Il rimpianto di Tommaso Padoa Schioppa e delle sue ipotesi di sviluppo della spending review è più che fondato, di fronte alle strettoie della “veduta corta”.

Se fossi più ottimista di quanto mi sento, oserei dire che potremmo ancora avere la possibilità di riaprire oggi quei capitoli di intervento lasciati dormienti per oltre dieci anni.

Ma le condizioni riposano interamente sulla possibilità di una “politica scolastica” che sappia “riunificare” il suo “popolo”, al di la degli slogan accomodanti, delle derive conservative, delle indignazioni tanto facili quanto passeggere e senza sbocco.

E quando dico “politica scolastica” non mi riferisco né tanto, né solo, alle “forze politiche” in quanto tali, ma, anche e soprattutto, alle forme di autonomia organizzativa del “popolo della scuola”, dal sindacalismo all’associazionismo culturale e professionale.

E’ possibile procedere, nel rispetto di tutte le competenze, le ispirazioni culturali, le vocazioni associative, procedere ad una “convenzione” che tracci una “piattaforma comune” capace di superare antichi e inutili costrutti e categorie puramente difensive, e riproporre i paradigmi fondanti del “modello” dell’autonomia nella attuali condizione  dopo una storia decennale da porre al vaglio anche spietato della critica e autocritica?

Se sì, allora c’è speranza….

 

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