Direzione didattica di Pavone Canavese

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LAVAGNA SULLO SCHERMO
a cura di Paola Tarino


non UNO di MENO

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Regia di ZHANG YIMOU (Cina) 1999

Il maestro GAO della scuola elementare Shuiquan deve assentarsi per un mese per assistere la madre malata.
Il capovillaggio, passa al setaggio l'intera zona rurale, per trovare qualcuno disposto a supplire il maestro.
La sua scelta ricade sulla giovanissima WEI MINZHI, di soli tredici anni, a cui viene affidato il compito di sorvegliare la classe e scrivere ogni giorno un testo alla lavagna (badando a non sciupare i pochi e preziosi gessetti), che gli allievi dovranno ricopiare sul proprio quaderno.
Prima di andarsene il maestro Gao ammonisce la maestrina: "Nessun allievo si dovrà ritirare dalla scuola durante la mia assenza: la classe era composta all'inizio dell'anno da quaranta alunni, ma presto il numero è sceso a ventotto. Se riuscirai in questo compito, oltre a 50 yuan che ti darà il capovillaggio, te ne darò io altri 10".
Ogni giorno WEI MINZHI fa diligentemente l'appello, tracopia il testo alla lavagna, ma non si preoccupa che gli allievi imparino qualcosa,  tanto che trascorre il suo tempo a fare la guardia seduta sui gradini della porta dell'aula.
Un giorno lo scolaro ZHANG HUIKE, un bambino intelligente, ma dispettoso, che le aveva già fatto perdere la pazienza in diverse occasioni, non si presenta a scuola, in quanto costretto dalla famiglia, gravemente indebitata, ad andare in città per cercare un lavoro.
Con le parole del maestro che le risuonano in testa e senza una vaga idea di dove potrebbe trovarsi il piccolo Zhang, Minzhi si mette in marcia per la città, disposta a trovare il bambino a tutti i costi.

 

Zhang Yimou è nato a Xian, in Cina nel 1950. Quando nel 1966 scoppiò la rivoluzione culturale il regista era ancora al liceo. Nel 1978 partecipò al concorso nazionale tenuto dall’Accademia Cinematografica di Pechino passando a pieni voti, ma non venne comunque ammesso perché aveva già ventisette anni, cinque più del limite anagrafico consentito. Dopo due inutili viaggi a Pechino per appellarsi alla decisione, Zhang Yimou scrisse al Direttore del Ministero della Cultura, spiegando che aveva perso dieci anni della sua vita a causa della rivoluzione culturale. Due mesi dopo venne ammesso ai corsi del dipartimento di cinematografia dell’Accademia. Dopo essersi laureato nel 1982, ha iniziato a lavorare presso gli studi cinematografici Guangxi. Nel 1985 è passato agli studi cinematografici Xian.
Zhang Yimou ha esordito alla regia nel 1987 con Sorgo rosso, interpretato da Gong Li, al suo debutto cinematografico.
Il regista ha quindi diretto Gong Li in alcuni altri film tra cui Ju Dou (1990), Lanterne Rosse (1991), La storia di Qiu Ju (1992), Vivere! (1994), Shangai Triad – La triade di Shangai (1995) e Keep Cool (1997).

Il regista e la giovane Wei Minzhi

Si era parlato nel settembre scorso di questo film per complimentarsi con la scelta della giuria della Biennale di Venezia di attribuire il Leone d'Oro all'ultima opera del regista cinese, che ne aveva già conseguito uno nel 1992 con La storia di Qui Ju. Non a caso un'altra opera centrata su un ritratto femminile forte, quello di una donna determinata, ostinata, pronta a combattere la burocrazia ottusa del suo paese pur di ottenere giustizia. I due film presentano molte affinità e si direbbe facciano parte di un medesimo progetto culturale, quello di mostrare, con un realismo pittoresco, figurativo e di "maniera" nell'attenzione ai particolari sociologici, l'estrema povertà della campagna, l'aspirazione al benessere della città, la maniacale ossessione per il denaro, l'individualismo sfrenato con conseguente perdita di valori collettivi cari alle tradizioni maoiste, la funzione consolatoria incarnata dalla presenza televisiva, impegnata stavolta in una missione "Arcobaleno della vita", che smuove la generosità dei telespettatori, per consegnar loro (e anche a noi) un finalino edificante, un happy end, dal quale si esce comunque con l'amara sensazione che "il non uno di meno" è in realtà un io molteplice, una piaga diffusa in tutto il mondo.
L'abbandono scolastico raggiunge cifre da capogiro, non solo in Cina dove la stima parla di un milione circa di bambini all'anno. Allora non è poi così ottimistico un film che ne affida l'eventuale recupero solo grazie all'iniziativa e all'intraprendenza del singolo (ma è già qualcosa, anche se il recupero scatta dietro il miraggio di un lauto guadagno), anziché immaginare altre forme, magari istituzionali, di difesa del diritto all'istruzione negato ai più deboli. Se avesse scelto questa seconda strada il regista avrebbe compiuto una mistificazione ancor più beffarda, forse per questo gli si perdona l'emozionalità melensa dell'epilogo con la troupe televisiva che arriva trionfalmente a portare le donazioni dei telespettatori e le scatole dei gessetti che vengono aperte per consentire a ogni bambino di scrivere finalmente un ideogramma colorato alla lavagna. Il fervorino finale sembra diventare maniera, visto che già Keep Cool terminava con un altro epilogo giustapposto e incoerente con il resto del film (anche tecnicamente distaccato dal resto dell'opera), quasi che il bisogno di tacitare la censura abbia fatto diventare Yimou attento a confezionare tirate moralisticheggianti finali che potrebbero anche diventare repertori ironici e sottolineare ulteriormente il feroce egoismo del resto del film, negandolo in una gara di solidarietà falsa, come soltanto la televisione riesce ad essere.

Lo scolaro Zhang Huike, i compagni e altri interpreti

Yimou non racconta una fiaba, ambientata in una scuola fatiscente e degradata di un villaggio di campagna sottosviluppato e misero, anche se alcuni ingredienti potrebbero far pensare che si tratti solo di una storiellina (l'idea è stata tratta da un romanzo di Shi Xiangsheng); mette invece la sua macchina da presa ad indagare i volti di personaggi reali, per confezionare un'opera di condanna e critica sociale, capace di parlare a tutti, non uno di meno, con semplicità e al contempo con estrema naturalezza nelle scelte registiche.
"Cinema verità", girato all'aperto, con attori non professionisti. Ogni personaggio è recitato da chi nella vita ha lo stesso ruolo e lo stesso nome: il maestro è davvero l'insegnante di quella classe, i bambini sono i suoi allievi, le offerte pubbliche hanno veramente contribuito ad aiutare quella scuola.
Solo Wei Minzhi nella realtà non è supplente, bensì una studentessa tredicenne che sta completando il suo ciclo di studi. Per questo viene affidato solo a lei il compito più arduo, quello di tentare di cambiare il destino scolastico dei bambini che le sono stati affidati nella finzione filmica per un mese soltanto. E sarà proprio lei a crescere e a trasformarsi in un'ostinata guardia rossa irriducibile nell'epoca della dittatura del denaro, nonostante abbia la memoria corta (non ricorda più nemmeno le parole di una famosa canzone maoista, così come di fronte alla parodia del rito dell'alzabandiera con tanto di inno nazionale cantato dai bambini dimentica di far issare il vessillo di stato), attenda solo che la luce del sole illumini il chiodo conficcato nel muro ad indicare il termine delle lezioni o all'inizio sia spinta dall'idea di potersi guadagnare lo stipendio. Il che non è riprovevole: l'insicurezza del suo lavoro l'accomuna a tutti i docenti precari, compresi quelli italiani, molti dei quali stanno ancora aspettando lo stipendio dal settembre scorso.
La sua metamorfosi comincia quando il capovillaggio tenta di convincerla a lasciare che una sua allieva possa trasferirsi in città per iniziare una carriera atletica: le istituzioni hanno fiutato che c'è da sfruttare un talento olimpionico e da bravi rapaci non mollano la presa. Ma anche la maestrina "sa correre veloce", ribellarsi, conquistare la simpatia dei suoi allievi, che, a partire da quell'episodio, imparano a conoscerla, abbandonano il clima sospettoso, per diventare solidali e complici, capaci persino di smuovere una montagna di 1000 mattoni, per consentirle di racimolare i soldi per il viaggio e per l'acquisto di due lattine light (Mao e la Coca Cola possono andare a braccetto per queste generazioni), quando si decide a recarsi in città per riprendere l'allievo Zhang Huike. Non si arrende all'idea di tracciare ancora un meno su quel registro che annovera già troppe croci.

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Cosa la spinge a comportarsi così? I soldi, l'istinto, la sua caparbietà, un innato spirito combattivo, l'improvvisa nascita di una consapevolezza del proprio ruolo didattico?
Il film non lo esplicita direttamente, ma lo lascia intuire attraverso l'analisi del suo comportamento: resta per giorni in strada ad attendere che il direttore di una rete televisiva possa riceverla e consentirle di diramare il suo accorato appello, non si lascia sedurre dalla popolarità dell'audience, non risponde ai demenziali interrogativi strappalacrime della conduttrice del programma "Arcobaleno della vita", la solita trasmissione nazional-popolare. Sgorga solo ad un certo punto improvviso e naturale un suo pianto a dirotto, un suo parlare a tu per tu con il bambino, che dall'altra parte dello schermo (immerso in una realtà caritatevole, ma ambigua e pelosa, come quella della proprietaria del ristorante, che gli ha dato da mangiare a patto che non disturbasse i clienti per poi fargli lavare i piatti) risponde con le lacrime a quelle parole, che gli svelano che è uno e solo uno tra i tanti destinati a lasciare la scuola, ma in quanto tale è importante, unico e prezioso, e pertanto va reclamato il suo diritto a riprendersi l'istruzione che gli stanno scippando.
"Che cosa ti è rimasto impresso dell'esperienza in città?", chiederà la conduttrice del talk show al bambino sul pulmino carico di doni che lo sta riportando al villaggio in compagnia della sua maestrina combattiva. "Che dovevo chiedere da mangiare", risponde Zhang Huike. Elemosinare il cibo, fare la carità: sono esperienze più umilianti dell'essere analfabeti? Il paragone non tiene, forse Huike, terminati gli studi, tornerà in città e si ritroverà al punto di partenza, sottoccupato, precario, mendicante per necessità. Diamogli il tempo di crescere, perché in questo tempo la sua infanzia sia tutelata da siffatte umiliazioni, possa sognare, divertirsi, immaginare destini diversi, anche quelli nascosti dietro al suo piacere di scrivere alla lavagna con un gessetto azzurro (non nero come il lavoro minorile) il nome della sua maestra.
Questo Wei lo ha capito, questo è anche il messaggio del regista quando dice: "Il mio film andrebbe semplicemente guardato, invece di buttare tutto in politica. Anche perché Non uno di meno è bello da guardare e da ascoltare. É un film sui bambini e i bambini si possono solo osservare con amore ed ottimismo".

Il rito dell'alzabandiera con il canto dell'inno          

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La ventitreesima puntata ha preso in rassegna il film di Samira Makhmalbaf
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