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Democrazia WEB e ragazzi

“La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” G. Gaber

(13.12.2013)


Classi 2.0. Intervista all’Ispettore tecnico De Anna,
autore del monitoraggio qualitativo sul progetto
a cura di R. Marchisio

 

1-      Molto schematicamente qual era l’ipotesi di sperimentazione del Progetto classi 2.0 e quali i principali difetti di questa ipotesi?

Come ricordo spesso una “politica pubblica” va esaminata e valutata su cinque livelli: a) a quali bisogni si intende rispondere con essa; b) quale “teoria” si assume per interpretare tali bisogni e determinare le misure per rispondervi; c) il progetto operativo e la sua implementazione; d) impatto ed effetti della realizzazione; e) l’efficacia e l’efficienza nella realizzazione.
A prescindere dal giudizio sull’orientamento delle scelte politiche, da un punto di vista tecnico e di policy, una valutazione corretta di una politica pubblica andrebbe esplicitata sull’insieme di tali questioni, tenendo conto dell’avvertenza fondamentale che per ciascuno dei cinque livelli indicati si utilizzano metodologie e protocolli di valutazione diversi e  specifici, ma ciascun livello trova “ragioni” valutative esaurienti solo riferendosi al livello immediatamente precedente, in una sorta di “gerarchia di ragioni” che è anche “gerarchia di responsabilità”. Non a caso quella più strettamente “politica” è posta in capo ai cinque livelli.
Il progetto classi 2.0, utilizzando il criterio su indicato, si iscrive in una politica pubblica dell’istruzione caratterizzata dalla priorità assegnata alla problematica della valutazione dei risultati dei processi di apprendimento. Su tale priorità si sono intrecciate, coerentemente, categorizzazioni come il “merito”, le “eccellenze”, la “premialità”, la “qualità”.
Ovviamente ciascuna di tali categorie disegna una sua autonoma semantica e un proprio “campo di valore”. Collegate e intrecciate (in modo più o meno scientificamente fondato) hanno però caratterizzato una intera fase di politica scolastica, alimentando in modo isomorfo diverse progettualità, dal VSQ, al “valutazione e merito”, caratterizzate dall’ipotesi (la teoria, appunto..) di un legame positivo tra qualità dei risultati e delle prestazioni (volta a volta: della scuola, dei docenti, dei dirigenti, degli studenti, variamente misurati) e incentivazione economica. A prescindere da ogni giudizio politico va sottolineato che tale ispirazione rappresenta una effettiva dislocazione rispetto ad una tradizione di politica scolastica contrassegnata da categorie come la “promozionalità”, la “inclusione”, la “eguaglianza”. Una dislocazione culturale prima ancora che politica, le cui fratture accompagnano anche impropriamente lo stesso dibattito politico e, soprattutto, la coerenza e la compattezza tecnico scientifica della stessa valutazione della politica pubblica implementata.
Classi 2.0 sta pienamente entro tale stagione, e muove dalla “teoria” che l’uso delle TIC in classe, nel lavoro quotidiano, e saturando la didattica (non dunque il più tradizionale laboratorio) “produca” il miglioramento “misurabile” delle prestazioni di apprendimento degli studenti.
Sulla base di tale ipotesi si costruisce un progetto cha ha come elementi essenziali: a) un significativo investimento da dedicare esclusivamente a strumentazione TIC; b) la scelta (almeno ipotetica) di scuole già sperimentate, e dunque con docenti preparati, ambienti adeguati, cioè non necessitanti di investimenti di “accompagnamento” (formazione dei docenti, modifiche strutturali, ecc..); c)l’identificazione di una e una sola classe di applicazione del progetto; d) utilizzo di un approccio controfattuale per valutare i risultati del progetto: dunque identificazione di una “classe di controllo”, con le medesime caratteristiche di quella di somministrazione,  in modo da “isolare” la variabile “uso delle TIC”  e da correlarla con gli esiti di apprendimento.; e) La misura dei livelli di apprendimento viene effettuata con strumentazioni standard isomorfe a quelle utilizzate nelle rilevazioni INVALSI; f) definizione di un “sistema” di accompagnamento e supporto dell’esperienza da parte sia dell’INDIRE, sia delle Università; g) compiti di monitoraggio e valutazione affidati alle fondazioni Agnelli e San Paolo per la scuola.
Sono stato coinvolto nel progetto solo nella sua parte finale (la valutazione) e solo nell’ultimo anno. Posso esprimere un parere sull’impianto generale e qualche considerazione che è emersa nel lavoro di valutazione sul campo nel quale sono stato coinvolto. In sintesi estrema:

a.       Sono in generale convinto che la metodologia contraffattale, il principio della “variabile indipendente”, la condizione “ceteris paribs”, non sia applicabile in generale alla ricerca sociale o comunque laddove si abbia a che fare con sistemi complessi caratterizzati da interrelazioni multiple di variabili non pienamente controllabili e sulla cui dinamica il “fattore tempo” ha spesso una funzione fondamentale. Inutile ricordare che i processi di apprendimento hanno tutte queste caratteristiche insieme.
Inoltre la separazione tra gruppo di somministrazione gruppo di controllo, nella ricerca sociale è spesso impossibile e spesso improprio dal punto di vista etico. Così è nella scuola l’ipotesi di isolare una classe alla quale dedicare le risorse e identificarne un’altra di controllo; sia perché ogni docente, nella scuola Media, ha da due e nove classi (e dunque ipotizzare la separazione netta tra somministrazione e controllo e impossibile) sia perché l’idea stessa di dedicare risorse solo ad alcuni collide con la deontologia consolidata.

b.      La realtà delle scuole è assai variegata: a parità di “regole amministrative”, di “normativa generale”, di “programmi o indicazioni nazionali” il nostro sistema presenta diversità reali spesso radicali, sotto il profilo dei contesti operativi, delle culture organizzative effettivamente agite, delle risorse reali disponibili e delle scelte di investimento effettive, della propensione all’innovazione e della disponibilità al mutamento.
Le scelte amministrative ed organizzative nella implementazione del progetto non hanno tenuto conto (né forse lo potevano visto il funzionamento dell’Amministrazione scolastica) di tale diversità, smentendo così una ipotesi di partenza che vincolava alla omogeneità del “trattamento”.

c.       L’integrazione organica tra didattica e TIC (dunque non la dimensione tradizionale del laboratorio come momento collaterale e dedicato) modifica radicalmente (o tende a modificare ) l’approccio stesso all’apprendimento, al sapere, al processamento della conoscenza da parte del soggetto oltre che modificarne fondamentalmente gli strumenti e le condizioni operative.
L’ipotesi di partenza “l’uso delle TIC migliora l’apprendimento” è francamente riduttiva di tale complessità.
Si segnala qui una insufficienza ex ante, a livello di “teoria” che muove la politica pubblica. Mentre si può comprendere che tale riduzionismo sia stato sottovalutato a livello della Amministrazione e dei decisori politici,  Stupisce che tale limite sia  stato in qualche modo sottaciuto dall’Università che pure veniva coinvolta esplicitamente in termini di consulenza ed assistenza al progetto stesso (e nella valutazione finale saranno le scuole stesse a dichiarare la propria esplicita insoddisfazione circa tale apporto).
Un progetto come questo ha una indispensabile dimensione di ricerca (se non ci si vuole limitare a facili slogan sui nativi digitali); ma essa è quasi totalmente mancata nella realizzazione.


2-
      Una sperimentazione costosa e selettiva che ha dato quali risultati? Le classi 2.0 aumentano le possibilità di apprendimento?

 La valutazione finale del progetto si è , nell’ultimo anno di realizzazione (2012) articolata in due parti: la prima ha mantenuto l’impostazione controfattuale, la seconda ha affidato a me una ricognizione sul campo in interlocuzione con un gruppo di scuole (40 distribuite su tutta la penisola).
Il primo approccio ha comportato un grande lavoro statistico, sia per quanto attiene alle condizioni di comparabilità tra classe di trattamento e classe di controllo; sia per quanto attiene alla somministrazione dei test e alla lettura dei dati rilevati.
Per quanto rigoroso e faticoso sia stato tale lavoro credo confermi alcune considerazioni che discendono direttamente dai limiti di applicabilità della metodologia controfattuale in contesti come quelli dei processi di apprendimento: certamente possiamo sostenere che i livelli di apprendimento utilizzando le TIC migliorano, ma gli scostamenti positivi non sono né di rilevante entità nè generalizzabili.
L’approccio qualitativo scelto nella ricognizione sul campo mostra un generale apprezzamento sul ruolo delle TIC nell’apprendimento ma tutti gli interlocutori non sono in grado di dare a tale positività la certezza “quantitativa”, mentre sottolineano il miglioramento (questo affermato con certezza) delle “condizioni” dell’apprendimento: collaborazione, emotività, lavoro collettivo, motivazione, recupero e rinforzo.
 

3-      Ci è sembrato di capire invece che l’uso delle tecnologie ha modificato aspetti formativi e relazionali: rapporti fra allievi, coi docenti, diverso modo di lavorare, capacità di organizzazione etc. Ma per appurare questo, che risulta ad ogni docente che usi in classe o laboratorio le TIC per una didattica attiva, era il caso di investire quelle cifre?

La valutazione del progetto andrebbe condotta in modo completo, esauriente ed esplicito in ogni suo aspetto, ed anche per tale motivo ho premesso uno spunto di metodologia valutativa nella mia prima risposta. Sotto tale profilo è evidente che emergono diversi spunti di falsificazione della ipotesi di partenza che attengono a ciascuno dei cinque livelli valutativi indicati e che da quello che riguarda l’efficienza delle realizzazioni risale a quello che inverte le “teorie” che presiedono alla politica pubblica intrapresa.
Ma tale impegno esteso è indispensabile anche per evitare il cortocircuito tra valutazione tecnico scientifica e giudizio politico.
Sotto il primo profilo, anche le numerose falsificazioni delle ipotesi iniziali lasciano trasparire grandi ed importanti rilievi sui quali è possibile proseguire e dare migliore spessore ad alcune scelte.
Per esempio non è del tutto corretto affermare (come di cosa già risaputa indipendentemente dal progetto classi 2.0) che le TIC “modificano aspetti formativi e relazionali”.  Di tali affermazioni è piena la pubblicistica corrente. Qui siamo invece di fronte al fatto comprovato da una esperienza organizzata a livello sistemico, che lo sviluppo dell’integrazione tra didattica e TIC crea le condizioni per modificare radicalmente caratteri della didattica, assetti organizzativi, tempi e spazi e che proprio la rigidità opposta a tali modificazioni limita le realizzazioni potenziali.
Ciò che si misura sul campo è la creazione, nel corso dell’esperienza, delle condizioni potenziali per modificare sia “l’enciclopedia” (e dunque il curricolo, ben più profondamente di qualunque “indicazione nazionale”) sia la modalità concrete di erogazione del lavoro nella scuola, le sue cadenze, la sua classificazione, i suoi interpreti.
Dare a tali questioni la dimensione sistemica significherebbe superare la più usuale (e confortante?) dimensione delle “buone esperienze locali” e basate sul volontarismo di alcuni.
Se tutto ciò è vero forse si può capire il motivo per il quale in realtà, pure avendo disponibilità di dati emersi dal lavoro di valutazione, non si procede a darvi corpo e trasparenza.
Come sempre, del resto, le tecnologie “implicano” modificazioni radicali nel “modo di produrre”, ma non le abilitano “automaticamente”. Tra tecnologie a processi materiali c’è sempre (almeno) un grado di libertà che va saturato dalla “scelta politica” o di indirizzo.
Ma questa implicherebbe la destrutturazione di modelli consolidati sia di organizzazione del lavoro scolastico, sia di “rapporti” di lavoro (dalla classificazione del lavoro alle durata e intensità, ai gradi di fungibilità delle diverse figure…).
Operazioni certamente non indolori e comunque di portata ben maggiore di quella di “premiare” qualche eccellenza o di confortare qualche “buona pratica”..
A meno che qualcuno, scientemente, sostenga che, poiché non è dimostrabile “scientificamente” la correlazione tra livelli di apprendimento misurati standard e uso delle TIC nella didattica, siamo tutti esentati dall’esplorare la portata “rivoluzionaria” di queste ultime nelle modalità di apprendimento e negli approcci al sapere (e dunque possiamo non investire a livello sistemico…)


4-
      Adesso ritiene che le classi 2.0 siano un modello proponibile a tutti? Ci sono solo difetti nel modello o c’è un problema di fattibilità e di risorse (secondo le nostre stime organizzare tutte le classi d’Italia secondo quegli standard costerebbe ca 7 miliardi)?           

 

Una buona e completa valutazione dovrebbe farci imparare cosa occorre cambiare rispetto al progetto classi2.0.

Ma qui mi preme rispondere alla seconda parte della domanda, quella relativa ai costi e al realismo o alla opportunità di dedicare tante risorse alle TIC nella didattica.

Lo faccio ricordando prima di tutto che la pervasività delle TIC nella vita quotidiana è un fatto conclamato che opera potenti modificazioni nel modo di essere, di pensarsi (e di non pensarsi), di rielaborare speranze, desideri, impegni da parte di tutti i cittadini e massimamente per le nuove generazioni, indipendentemente dalla scuola.

Alle porte della scuola arrivano tali modificazioni in essere, nel loro “agito”. Indipendentemente da quanto la scuola possa influenzare il “pensato”, il percepito e il dichiarato da parte dei medesimi soggetti.

Cambiano insomma, e nella loro più intima struttura, le domande che si rivolgono alla scuola come a tutti gli apparati di riproduzione culturale.

Possiamo naturalmente decidere che il ruolo della scuola è quello di consolidarsi come “custode” del metodo (più o meno sensato); ma se anche fosse così saremmo comunque sfidati a non essere “ammuffiti” custodi di qualche cosa che ai più sfugge proprio perché ammuffito.

Investire dunque. E d’altra parte il richiamo all’investimento è costante in tutto il dibattito scolastico e generale è la lamentela sulla insufficienza delle risorse. Ebbene in cosa dovremmo investire? In ciò che lascia intatta la macchina organizzativa tradizionale? Nella sua mera riproduzione? Oppure dovremmo selezionare l’investimento scommettendo sulla sua redditività? Sull’abbinamento tra investimento e innovazione? Io non ho dubbi sulle risposte, anche se mi rendo conto della sfida politico culturale che contengono.

Ma proprio la pervasività delle TIC nella vita quotidiana di noi tutti dovrebbe consentire anche qualche considerazione più approfondita circa i costi di tale investimento e la loro ripartizione.

I dispositivi attuali delle TIC si configurano sempre più come “appendici personali”, e sempre meno come “oggetti di laboratorio”.

La condizione per la quale ogni studente ha la disponibilità di un dispositivo come un pc, un portatile, un tablet, è più diffusa di quanto pensiamo, e si tratta di uno strumento “personale” (esattamente come un quaderno, una penna, un dizionario, un libro di testo..).

Questa è la realtà “media” (nelle scuole che ho visitato, dal profondo nord al profondo sud, circa il 90% degli studenti avevano PC e connessione internet in casa) ma i dati di sviluppo sono rapidissimi.

Teniamo conto che se ci riferiamo alla scuola dell’obbligo si tratta di “famiglie giovani” con padri e madri men che quarantenni…

Ciò significa che la disponibilità scolastica di tecnologie incrocia e declina congiuntamente la disponibilità individuale e quella della “struttura”. La valutazione dei “costi” non può che tenere conto di ciò.

Il sistema potrebbe puntare cioè a rendere disponibili le condizioni strutturali come evidentemente la disponibilità di Wi-Fi e di “ambienti adeguati” (qualche cosa di più e di diverso da serie di aule che si aprono su lunghi corridoi, o di banchetti cinquanta per settanta…). I “dispositivi” possono essere quelli dei singoli (esattamente come i libri o i quaderni…) e semmai il sistema interviene a colmare eventuali disguaglianze di disponibilità.

Ancora: nella prospettiva in cui la scuola diventa non solo fruitrice della rete, ma anche produttrice di contenuti, l’uso integrato delle TIC nella didattica consentirebbe anche grandi risparmi verso altri impegni, come per esempio i libri di testo. (Numerose e significative le esperienze di content provider da parte di docenti singoli o in gruppo…)

Sia in tale prospettiva che in quella precedente (integrazione tra disponibilità dei singoli e disponibilità del sistema) forse la quantificazione dei costi sarebbe molto più contenuta della semplice moltiplicazione di quelli affrontati per classi 2.0.

Ma, appunto, la differenza starebbe nel fatto che la opportuna “falsificazione” valutativa di quell’esperienza potrebbe dare indicazioni sulle caratteristiche della politica di investimento alternativa. Anche in tale caso, naturalmente, nulla di così semplice: basti pensare al rapporto con il mondo dell’editoria… o , per altro verso, alla effettiva capacità di orientare lo stesso “consumo privato” di TIC. Meglio per una famiglia, il regalo di uno smartphone al proprio figliolo, o il “sacrificio” di munirlo di un portatile?

 

5-      Ha notizie dello stato e della prosecuzione del progetto? In Piemonte i progetti sono stati presentati ed è stata fatta una graduatoria, ma i fondi non ci sono.
Non sarebbe ora di tirare le conclusioni anche quantitative e di trarne le conseguenze anziché disperdere altre risorse? Cosa prevede il Decreto 104 sulla scuola a questo proposito?

Non ho, né mai avuto ruoli rispetto ai processi decisionali dell’Amministrazione. Non ho davvero indicazioni circa la prosecuzione del progetto e, se si, a quali condizioni.
Mi limito a considerare che lo sviluppo e la pervasività delle TIC anche nei processi di istruzione ha la forza di un processo storico inevitabile.
Possiamo solamente decidere se rispetto ad esso lasciamo che accada con tutte le conseguenze che la “spontaneità” implica (per esempio il mantenimento ed approfondimento delle disuguaglianze sia di opportunità e a maggior ragione di esiti). Oppure se di quel processo facciamo oggetto di scelte esplicite, consapevoli, orientanti, selettive. Se cioè non ci limitiamo a subirne la “rivoluzione passiva”.
Aggiungo solamente che per chi ha sensibilità e consapevolezza della necessità di cambiare modelli di organizzazione scolastica, di progettazione curricolare, di “enciclopedie riprodotte”, di effettiva realizzazione del significato sociale della formazione e del ruolo dei sistemi di istruzione anche in questa “liquida” postmodernità, la questione delle tecnologie, lungi dal costituire un obbligo di intervento, è una formidabile occasione, una potente lente di ingrandimento per calibrare opportunamente le scelte di politica scolastica.


6-
     Quali altre TIC (LIM, e-book etc.) di quelli proposti in questi anni pensa che possano avere un futuro nella scuola?

 Ho già ricordato le caratteristiche “personali” che hanno i devices delle TIC che invadono la nostra vita quotidiana.
Per stare alla didattica quello che ho visto in tante esperienze è il fatto che una LIM in connessione in una classe è la fonte primaria del potenziale cambiamento della didattica (potenziale: come ripetuto non c’è nulla di automatico). Dunque LIM e Wi-FI come supporto essenziale. Il resto di contorno, posto che i diversi devices stanno nelle mani dei singoli studenti.
Per quelli della mia età la “finestra aperta sul mondo” erano le parole del docente e quelle del libro. Una LIM ben usata è una finestra di potenza inusitata. Purchè ci si ricordi una battuta del vecchio Skinner (il cui pensiero ha invero abilitato tante “tecnologie” dell’apprendimento). Skinner diceva “Un docente che può essere sostituito da una macchina…….se lo merita”.
Al punto successivo porrei la creazione di una rete di classe. (per favore non Facebook di classe…guardatevene…). Può essere una piattaforma Moodle, un gruppo ecc…ma deve essere strumento assolutamente dedicato, controllato, specifico…non, ripeto non, è un social net..
Il dispositivo modifica radicalmente scansioni temporali, memorie da interrogare, scambio di lavori, informazioni, aiuti, ecc… modifica le reperibilità, le disponibilità, le tempistiche, le programmazioni, la riproducibilità di esperienze specifiche.…
Fondamentale è poi qualche cosa che non riguarda direttamente le TIC: l’ambiente e gli arredi. Non ci vogliono “postazioni di lavoro”, ma luoghi dove esistere e lavorare, singolarmente se è il caso, in gruppo se necessario, in movimento e scambio se utile. Non arredamenti specializzati (a parte un armadio di carica per i portatili) ma strutture leggere e componibili e separabili. Meglio banchi trapezoidali (che si mettono in circolo) che rettangolari, meglio una panca con cuscini dove accoccolarsi con il portatile sulle ginocchia,  che non un banco-scrivania accessoriato, pesante ed immobile… ma… nulla che non sia già compreso in “dettami” montessoriani…
Sui singoli devices ho già detto, ma aggiungo che mi piace pensare che lo sviluppo delle TIC nella scuola potrebbe anche essere capace di orientare e ispirare lo stesso consumo dei singoli. Per esempio (confesso il mio essere retrò) penso che la scuola dovrebbe comunque privilegiare strumentazioni capaci di mantenere il primato del “leggere e scrivere”, o comunque impedirne il declino di fronte ad approcci totalmente dedicati all’immagine, alla visualità e al “tatto” ridotto di un indice. Meglio una tastiera “vera” sulla quale porre in ordine sequenziale (e faticoso) lettere e parole e frasi e dare funzione a dieci dita, piuttosto che un semplice schermo da sfiorare e diteggiare che risponde per immagini e suoni, e schemi simultanei e frame già composti… Meglio un PC di un tablet, e meglio un tablet di uno smartphone… e forse anche il controllo dei costi se ne gioverebbe.
E quanto al leggere, la questione e-reader ed e-book è aperta: se ne intuiscono le potenzialità, ma anche le problematiche innanzi tutto di protocolli, compatibilità ma soprattutto il rapporto con l’editoria scolastica tradizionale. Ma anche in tale caso vale il richiamo alla necessità di protagonismo da parte del popolo della scuola: una parte dei costi dei libri di testo non ha nulla a che fare con la “funzione del libro”, e invece molto a che fare con ampi margini di rendite di posizione delle case editrici (rendite di posizione, il contrario della capacità di innovare..). Forse iniziative di progressiva limitazione dei costi su tale piano andrebbero supportate con maggiore coraggio e consenso politico.

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