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I dibattiti di PavoneRisorse

(05.12.2012)                                                                                                                                                                                                                                               

18 ore bastano, lo diceva anche Einaudi
di Alessio Nappi

  

Ho pensato all’effetto mediatico provocato dalle parole pronunciate pubblicamente, in una nota trasmissione televisiva, dal presidente del consiglio, Mario Monti, secondo le quali i docenti testimoniavano un «grande spirito conservatore», poiché non disponibili a «fare, per esempio, due ore in più settimanali». Cosa avrà pensato un operaio, costretto almeno a quaranta ore settimanali? O cosa avranno pensato i tanti “nuovi lavoratori a cottimo”, soggetti privi di diritto, che un mercato del lavoro deregolamentato sta relegando in una condizione di assoluta povertà?

Prima della risposta, ovvia e scontata, a far davvero male è la domanda. Come siamo arrivati ad un tale livello di degrado culturale? Che paese è quello che considera gli insegnanti dei privilegiati e non, piuttosto, persone qualificate, che svolgono un lavoro fondamentale per l’intera società? La questione non è, innanzitutto, quella di ricordare al professor Monti (sì, professore anche lui!) che, per quanto si trovasse dinanzi ad una telecamera, non avrebbe mai dovuto abdicare alla verità, perché le ore in questione non erano due, ma ben sei, corrispondenti ad un aumento di 1/3 dell’orario settimanale di un docente. La questione non può essere questa, perché – anche qualora si fosse deciso di aumentare l’orario settimanale di “sole” due ore, senza riconoscere alcuna retribuzione aggiuntiva – ad essere chiamata in causa è l’essenza stessa dell’insegnamento. Perché mai i docenti – ai quali è affidato il futuro di un paese – devono essere trattati alla stregua di burocrati, la cui unica funzione sarebbe quella produrre quanto più possibile, al punto da dover estendere l’orario di lavoro?

Potrei, mettendomi sulla difensiva, obiettare al professor Monti che i suoi colleghi universitari svolgono un orario ben più ridotto di lezione, ridottissimo se arriviamo a considerare la pratica, da me mai compresa anche quando ero un giovane studente, del “quarto d’ora accademico”. Potrei, ma non lo faccio, perché mi rifiuto di ragionare in termini quantitativi quando si parla di scuola, università e formazione. Da un docente universitario mi aspetto professionalità ed aggiornamento continuo, per realizzare il quale occorre quel “tempo libero” che nella lingua filosofica per eccellenza, il greco antico, si traduce con la parola “scholé” e che sta alla base del termine “scuola”. La scuola è “tempo libero”, ossia studio, passione, professionalità. In una parola tutto ciò che non si lascia quantificare, pena il suo svilimento.

È passato esattamente un secolo da quando Luigi Einaudi denunciava, sulle pagine del Corriere della Sera, l’aumento continuo dell’orario dei docenti che faceva tutt’uno con il depauperamento del loro ruolo: «La scuola» – così scriveva l’esponente di quel liberalismo di cui avremmo oggi tanto bisogno –  «si trasforma in un ufficio, o in una caserma, col fine di tenere a bada per un certo numero di ore i giovani; perde ogni fine formativo». La conclusione era d’obbligo: «A me sembra che 18 ore di lezione alla settimana sia il massimo che possa fare un insegnante, il quale voglia far scuola sul serio, e quindi prepararsi alla lezione e correggere i compiti coscienziosamente […]; il quale, sopra tutto, voglia studiare». Non sono queste, ça va sans dire, le parole di uno statalista, ma di un liberale che credeva ciecamente nella formazione e nella scuola. Vogliamo docenti preparati o una massa di persone dequalificate ed intercambiabili che possano tranquillamente essere sottopagate? Proprio per questo la valutazione continua del corpo docente risulta essere l’antidoto essenziale nei confronti di ogni volontà burocratica, capace di interpretare gli insegnanti (coloro che, etimologicamente, “segnano dentro”) solo come un grezzo numero da spremere a tutti i costi. Sono certo che la stragrande maggioranza dei docenti si senta umiliata da un criterio, quale quello dell’anzianità di servizio, che non rende ragione della professionalità e della loro immensa preparazione. La questione, però, è che qualora si introducesse un sistema serio di valutazione, capace di coinvolgere molteplici soggetti del processo formativo e che certamente non assomiglia ai quiz enigmistici del prossimo concorso, apparirebbe immediatamente inaccettabile lo stipendio degli insegnanti italiani, ben al di sotto della media dei paesi dell’Europa occidentale, di quell’Europa che si prende troppo superficialmente a prestito.

Non si tratta nemmeno di quantificare, come ha proposto qualche collega, il lavoro medio di un docente, che palesemente eccede le diciotto ore settimanali. “Giocare alla conta”, rivendicare l’enorme lavoro svolto a casa, in assenza di strutture adeguate all’interno delle scuole italiane, significherebbe – ancora una volta – pensare di ridurre a numero la professionalità. Mi rifiuto di farlo perché pretendo di essere giudicato sulla base del mio operato. Perché vorrei che di me si dicesse che sono o non sono un professionista, senza considerare quante le ore di lavoro, quante le migliaia di ore di formazione, lettura e studio, che stanno dietro ogni mia lezione. Esse vanno soltanto a costituire quella professionalità che io vorrei venisse valorizzata e riconosciuta. Esclusivamente a queste condizioni sarà possibile riconoscere che la qualità non può essere trattata in maniera quantitativa. Solo se si spiega, con onestà intellettuale, quale il fondamentale ruolo dei docenti, solo allora si potrà accettare quel “tempo libero” che è essenziale alla professione docente. Mettersi, invece, a parlare di spirito corporativo e di indisponibilità di un’intera categoria, che ha avuto solo il grande difetto di rivendicare con orgoglio la propria professionalità, significa aprire le porte alla più assoluta delegittimazione degli insegnanti. Attenzione, però, perché, gettato alle ortiche il ruolo svolto dalla scuola, alcuna vera formazione sarà più possibile.

 

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