Direzione didattica di Pavone Canavese

(02.11.01)

Case comuni sul fiume, grandi
Ma la guerra è una cosa "normale" ?
di Andrea
Bagni

Per i ragazzi e le ragazze che abitano le scuole temo la guerra sia tornata ad essere qualcosa di tutto sommato "normale". Il risultato è per tutti una estrema desertificazione del discorso: la lotta del bene contro il male, l’ennesima incarnazione del male in un diavolo da eliminare, si è con l’occidente o con il terrorismo, o si fa la guerra o non si fa niente e la prossima volta chissà cosa ci faranno; ce l’abbiamo le palle oppure no? E mai espressione, così insopportabile ormai, mi è sembrata più azzeccata, appartenendo in pieno a questo immaginario maschile della sfida, pedagogia della forza che dà lezioni e insegna – lascia segni – l’ordine. Chi non si schiera in armi fa la parte degli scienziati nella fantascienza anni 50, che pretendevano di proteggere e studiare la cosa-venuta-da-un-altro-mondo ed erano regolarmente salvati dai militari eroi consapevoli del pericolo.
Scompare dalla scena lo spazio del discorso; scompare la politica del fare società, tessere fili, intrecciare relazioni – o meglio resta affidata all’invisibilità delle "donne in nero", delle reti e associazioni di aiuto alla popolazione afgana. Roba di donne, comunque. Che non fa spettacolo.
Proprio la tragedia delle Torri e del Pentagono avrebbe dovuto segnalare come non c’è difesa possibile per questa guerra negli scudi spaziali, nella superiorità degli eserciti e degli apparati statali. Non è questione di eserciti e stati, di chi perde e muore e di chi vince e resta vivo, quando si è disposti a morire pur di dare morte e tutti i confini sono saltati – ma si vorrebbero riprodurre nelle anime (le mie studentesse arabe e cinesi, che hanno capito bene cosa sono le guerre di religione, si definiscono serenamente atee, penso anche per non giocare più al gioco crudele di chi ha dalla sua parte il dio maggiore).
Nelle scuole abbiamo imparato che si vive (quando si vive) di parole, di sguardi, di racconti, in un tessuto simbolico di rappresentazioni del mondo; sento ancora più triste qui questa spoliazione del discorso, dello spazio politico, di costruzione della polis.
Ma esiste anche, l’abbiamo visto a Genova, una politica come pratica di relazioni sociali che attraversa il mondo dei ragazzi e delle ragazze, restando invisibile ai media e alle istituzioni. Mi pare sia una questione proprio di esistenze politiche, liberazione di socialità, spostamenti molecolari ma capaci di contagio e produzione di senso. Forse anche di felicità, per quanto nello sfacelo della violenza e della miseria del mondo: una felicità sovversiva, non lo scavarsi una nicchia, piuttosto sottrarsi e spostarsi per costruire altrove.
Perché il punto è che la normalità della guerra è anche l’altra faccia e la garanzia di un ordine, la sua affermazione in termini di civiltà superiore del valore di scambio, da liberare (come sa il WTO) e difendere (come sa la NATO); occidentalizzazione del mondo nella forma d’equivalente universale della merce. Mercificazione di qualunque bene comune, materiale o immateriale, acqua terra e pensiero, nella privatizzazione dell’esistenza e nella globalizzazione della solitudine.
Nella società del rischio e dell’insicurezza, il sapere diventa "capitale conoscitivo" da acquistare individualmente e da spendere sul mercato del lavoro come opportunità di affermazione personale: risorsa formativa delle "risorse umane" nella competizione sociale. Anche nelle socialdemocrazie.
È un insieme un modello del sapere e del suo processo produttivo.
Una costruzione di conoscenza che ha carattere qualitativo e relazionale, legato a contesti significativi e a un senso condiviso, al rapporto fra generazioni diverse che s’incontrano (e si scontrano) intorno a un progetto collettivo di vita, diventa un bene quantificabile, da tradurre in segmenti componibili, modularizzati, certificabili in un libretto formativo che mette a valore tutta la propria vita, tradotta in crediti, conoscenze ridotte ad una misura astratta e dunque universalmente riconoscibile, scambiabile in ogni luogo del mercato del lavoro. Astratta, impersonale, intercambiabile, proprio come la moderna prestazione di lavoro, povera precaria intermittente - per questo paradossalmente da porre al centro della propria biografia, in una subalternità assoluta alla radicale incapacità di dare senso, identità, fondazione di diritti, del nuovo lavoro.
Allora ecco l’autonomia scolastica ridotta ad organizzazione verticale, aziendalistica e insieme neofeudale (fondata su vincoli di fedeltà personale al signore dirigente); la diffusione di una mera sommatoria di progetti e progettini client oriented: come in un fast food del sapere, supermercato della formazione dove ogni famiglia è "autonoma" nel comprare il suo pacchetto componibile a piacere di moduli integrati (compresa beninteso l’educazione ai valori d’appartenenza) – la scuola altrettanto nello stare sul mercato dell’offerta di micro saperi. E l’apprendimento scambiato dovrà essere oggettivamente misurabile, prestazionale, meccanicistico. Orrendamente "scientifico" (naturalmente un’altra scienza esiste).
Ecco anche la nuova finanziaria che sposta risorse dalla scuola agli apparati militari, fa decidere tutto all’esecutivo, riduce insegnanti e stipendi, togliendo spazio a tutto ciò che nell’orario dei docenti non è lezione, interrogazione, voto, sostituzione di colleghi: anzi non considera neppure lavoro (dentro le 18 ore) ciò che non è calcolabile come ora di lezione frontale, quantità di tempo speso per. E naturalmente premia le scuole private – così come l’uso privatistico delle scuole pubbliche (ma anche le tre date di sciopero delle tre sigle dell’autorganizzazione, più quelle dei concertativi, hanno l’aria paradossale di una triste privatizzazione del conflitto).
Però il pensiero unico del sapere come bene privato delle nuove risorse umane, da acquistare in aziende-scuole tecnicamente organizzate per la produzione di nuovi lavoratori-consumatori, senza limite adattabili alla flessibilità della domanda, non è privo di crepe. Chiede alla formazione – anche universitaria – maggiore curvatura verso il lavoro e contemporaneamente informa che non esiste più il posto di lavoro sicuro, ma si dovrà abituarsi a cambiarne tanti nella vita – come fosse una grande occasione di creatività sociale e non l’incubo della precarietà ricorrente.
E poi proprio la crisi della società del lavoro dà senso (come mai prima d’oggi forse) a un sapere di base, critico e problematico, gratuito : formazione alla società, saltati i tradizionali canali (maschili) della trasmissione sociale - diploma, lavoro, sindacato, partito, pensione - più che alle prestazioni professionali.
A Firenze il 20 e 21 ottobre i ragazzi e le ragazze che hanno discusso della conoscenza nell’epoca del sapere messo al lavoro, mi pare che avessero molto forte il bisogno di fare del sapere un bene comune universalmente accessibile, senza le recinzioni dei vari copyright ; il desiderio di fare degli spazi in cui si costruisce e si scambia, luoghi pubblici riconosciuti nella loro specificità, da sottrarre alla trasmissione spenta di un sapere blindato e arruolato in qualche industria militare; territori liberati dal paradigma quantitativo ed economicistico delle conoscenze, spazi pubblici dove la società educhi se stessa e si riconosca come in sue istituzioni di autoformazione, reti di un mondo comune tessuto dalla molteplicità dei punti di vista: né colonizzato dalla domanda (familistica) di mercato, né ridotto a trasmissione burocratica di una pedagogia di stato, né polverizzato in territori dove ognuno si fa le sue scuole, del quartiere o della ditta.
Il movimento che si è incontrato a Genova e cerca adesso un nuovo patto di lavoro, può anche sbagliare strada naturalmente; può decidere di "farsi del male" riconducendo il largo fiume di Genova e Assisi al torrente consueto e rassicurante dei pochi ma illuminati, dotati di tutti i contenuti e delle analisi giuste. Ma può anche provarsi ancora a costruire case comuni sul fiume più grandi, per le diversità da abitare. Forse potrebbe imparare da quel pezzo di novecento non organizzativistico né innamorato delle linee e delle piattaforme, rappresentato dal movimento delle donne; dalla sua capacità di ascolto, di cura del discorso e delle relazioni. A me, almeno, sembra di avere imparato molto.
Può ripartire credo anche dai ragazzi e dalle ragazze che hanno parlato e si sono ascoltati a Firenze. Non era scontato e non è stato un lavoro da poco.

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