Direzione didattica di Pavone Canavese


 

(15.05.2011)

Scuola della Costituzione vs scuola della competizione - di Marina Boscaino

Ci sono modi diversi per ragionare di scuola pubblica e della sua funzione in un Paese che intenda concretizzare democrazia. Il primo fotografare l’esistente, considerarlo un dato ineluttabile, destinato a rimanere immodificato e proporre “aggiustamenti”, che non fanno altro che sclerotizzare le condizioni del sistema stesso. È questa la politica di coloro che pensano che parlare, ad esempio, di obbligo scolastico innalzato ai livelli degli altri Paesi UE, comporti solo procedure giuridiche, e non un serio e impegnativo quadro di riforma, di come, che cosa, quando e soprattutto perché insegnare. Molto diverso tenere fino a 16 anni dentro la scuola – così com’è – ragazzi “difficili” o figli della nostra più o meno inerziale borghesia. Non è la nostra scuola immobile da decenni (nonostante sedicenti “riforme” che, almeno da Moratti, altro non sono che restyling su base economica, che nulla hanno a che fare con pedagogia e didattica, sociologia e psicologia) che può accogliere efficacemente chi in essa dovrebbe avere il diritto di trovare un’alternativa.

Qualche giorno fa “Repubblica” ha pubblicato un’intervista a De Rita. Commentando quanto affermato da Tremonti sul rapporto tra lavoro manuale e gioventù migrante o autoctona, il fondatore del Censis sorprendentemente afferma: “C’è stata una divaricazione nel mercato del lavoro: da una parte i nostri giovani hanno imboccato la strada della scolarizzazione progressiva; dall’altra gli immigrati che hanno coperto i buchi lasciati liberi. I nostri giovani sono stati colpiti dalla maledizione/benedizione della scuola. Gli abbiamo detto: investi in istruzione che il lavoro verrà. Abbiamo pompato frequenze e titoli di studio. Colpa della liberalizzazione degli accessi universitari. Colpa del ’68 ma anche dei ragazzi e delle famiglie per i quali il titolo di studio è simbolo di status». Al solito: maledetto ’68. “Ma sta dicendo che studiare fa male?”, incalza l’intervistatore: «Sì, se si studiano cose che non servono. Abbiamo sacrificato gli istituti tecnici, quando l’Italia si è costruita su di loro. Che ce ne facciamo dei diplomati generici? E dei corsi di laurea che non hanno alcuna ragione d’essere? La strategia della scolarizzazione ad oltranza è la  stessa che ha portato i giovani nordafricani alla rivolta per la democrazia. Da noi, però, conduce solo al galleggiamento continuo finché ci saranno i pochi soldi dei nonni e dei padri”. Ecco il punto: che cosa serve? Filosofia, letteratura, geometria analitica, fisica, musica “servono”? La subalternità assoluta a neocapitalismo e pensiero unico sembrano affermare di no: scolarizzazione non più viatico di cittadinanza, ma diretto inserimento nel circuito produttivo, di nuovo addestramento. Le discipline ancillari non a costruire coscienza critica, ma a determinare competenze per l’avviamento al lavoro.

   

 

 

Lo stesso giorno Asor Rosa sul “Manifesto”, riflettendo sulle reazioni a un suo precedente editoriale su dissoluzione del nostro sistema democratico e contromisure da assumere, scrive, di fatto unico in un Paese che ha perso il dono dello stupore davanti alle esternazioni del premier su una delle istituzioni di cui dovrebbe essere garante: “Pensate al virulento attacco alla scuola pubblica. Perché costui [Berlusconi, ndr] ce l’ha tanto con i “professori”, nella grandissima maggioranza dei casi onesti funzionari dello Stato, che fanno un lavoro di enorme responsabilità, sottopagati e sottostimati? Ma perché la scuola pubblica italiana – con tutti i suoi difetti e le sue povertà – è uno degli architravi portanti dello spirito di unità e civiltà nazionali, il luogo dove programmaticamente si cerca di formare coscienze non succubi e non subalterne. Per questo diventa così esplicitamente il secondo obiettivo da distruggere dopo la magistratura”.

 

 

Due approcci assolutamente inconciliabili: il sapere utile e tendenzialmente subalterno contro il conoscere intenzionale e potenzialmente critico. Da una parte affermazione implicita di una scuola di classe, dove fatalmente ad imparare il mestiere andranno i figli dei poveri, e a far diventare “utili” le cose inutili – studiandole - gli altri: la scuola perde la funzione di “ascensore sociale”, immobilizza i destini, non prevede deviazioni dalla provenienza socio-culturale. Dall’altra, il progetto grande e bello della Carta. E la necessità di rafforzare un’inaspettata resistenza agli attacchi dissennati ma non incomprensibili di chi con uguaglianza, spirito critico, pensiero divergente e cultura non c’entra davvero nulla..
 

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