Direzione didattica di Pavone Canavese

 

Quaderno di scuola - a cura di Marina Boscaino

(09.03.2009)

"Bomba su bomba... sono arrivata a Roma!" - di Marina Boscaino

Sono stata invitata tramite e-mail a firmare una petizione – organizzata o appoggiata da importanti associazioni della scuola - per chiedere le dimissioni di Mariastella Gelmini. Un nome sconosciuto, fino a più di un anno fa; un'opaca deputato della scuderia di Berlusconi, di cui abbiamo saputo a nomina avvenuta che si era segnalata nel febbraio precedente solo per il fatto di aver proposto una legge “Per la promozione e l’attuazione del merito nella società, nell’economia e nella pubblica amministrazione”. Proprio lei a parlare di merito; lei (“lumbard” doc) che aveva scelto la scorciatoia più banale e pedestre per superare lo scoglio dell'esame da avvocato, migrando dalla natia Brescia nientemeno che in Calabria, dove notoriamente la selezione è meno rigida. Nel giro di un anno Gelmini è diventata l'incubo di una parte del mondo della scuola: quella che continua a pensarsi come un luogo di garanzia dei diritti e di emancipazione di tutti e per tutti.

Tutto si può rimproverare a questo governo Berlusconi, tranne il fatto di non essere a suo modo efficiente. In pochi mesi ha messo mano a qualunque cosa - o sta per farlo: implacabile nel proporre ed imporre; libero, almeno fino ad ora, di imperversare e scorazzare in tutti i possibili campi di intervento, grazie anche ad una minoranza che non è stata opposizione. La scuola è stata una delle prime e delle più bistrattate vittime sacrificali dell'arroganza della maggioranza e di questa ignavia. E, a meno che non intervengano inimmaginabili rovesciamenti, Gelmini sarà il primo ministro negli ultimi 15 anni a vedere attuata la “propria” riforma.

Curiosamente, la prima proposta di legge sulla scuola avanzata dal governo Berlusconi (maggio 2008, il disegno di legge Aprea) giace come una minacciosa bomba inesplosa, che promette strage nel momento in cui qualcuno la farà brillare. Non sanno quale artificiere debba prendersi l'incarico: si dice addirittura che si stia tentando una mediazione bipartisan su quel provvedimento, che ridurrà la scuola pubblica ad un ente di diritto privato, e che il PD potrebbe partecipare all'operazione. Ma, ripeto, sono illazioni.

Per il resto, quasi tutto è stato fatto in tempi rapidissimi. Dimensionamento e “riforma” della scuola primaria: fatto! Voto in condotta: fatto! Taglio di 140.000 posti di lavoro entro tre anni tra personale docente ed Ata: fatto! Una circolare sulle iscrizioni che – sostanzialmente – concretizza e istituzionalizza situazioni che dovevano ancora essere normate: fatto! Molta di questa materia è stata imposta sotto forma di decreto, pregiudicando il potere legislativo del Parlamento e sottraendo al decreto stesso la prerogativa dell'urgenza che la nostra Costituzione gli attribuisce.

Si  aggiungano, poi, le bozze di regolamento per la “riforma” delle scuole superiori, pronte, ma che ancora devono compiere l'iter; la luna ha consigliato prudenza, viste le reazioni autunnali ai provvedimenti sulla primaria, ma ci sono tutti i motivi per credere che si tratti di un'attesa strategica e che il progetto diventerà realtà, come annunciato, a settembre del 2010. Provate intanto ad andare a leggere e a dare un'occhiata ai quadri orario: si tratta di una macroscopica operazione di restyling che non ha nulla di culturale nel senso alto e prezioso che questo aggettivo può avere, se non l'evidente volontà di divaricare definitivamente i destini dei giovani cittadini italiani su base sociale. Che, pure, rappresenta innegabilmente una precisa scelta culturale. Che ci parla della capacità che la scuola può avere di immobilizzare anziché promuovere; di ghettizzare, anziché emancipare; di allontanare anziché includere. Perché la scuola, si sa, può essere anche il più potente strumento di omologazione, di irreggimentazione, di appannamento delle coscienze, come ci dimostra la storia. Nonostante oggi il loro mandato costituzionale sia esattamente l'opposto, coloro che ci governano non hanno dimenticato i preziosi insegnamenti del passato.

Come pure una precisa operazione culturale si concretizza nell'implacabile determinazione a scardinare qualunque forma di collegialità: hanno cominciato con il team alla scuola primaria. Sì, è vero, c'è il taglio economico, la miope logica del risparmio sulla scuola. Ma sarebbe troppo ingenuo rubricare lo smantellamento di un'esperienza didattico-pedagogica di grande e comprovata efficacia solo sotto la voce “tagli”. C'è di più: c'è la volontà di impedire forme di aggregazione, sinergie, collaborazioni, elaborazioni comuni. Fa paura e dunque si elimina. Come sarà nelle scuole superiori, dove vengono colpite tutte le sperimentazioni, anch'esse eliminate: esperienze di collegialità in un segmento della scuola dove l'autoreferenzialità di ciascun docente costituisce la regola.

E ancora: non è forse una scelta culturale la “trovata” dell'istituzione nei tecnici e professionali di un “comitato tecnico-scientifico” costituito da docenti, aziende e professioni, che organizzerà le aree di indirizzo e l’utilizzo delle flessibilità oraria? Che al tecnico arriva al 35%, al professionale al 40% all’ultimo anno, al quale si va ad aggiungere la quota di gestione del percorso formativa riservata alle Regioni con probabili esiti esiziali per il tempo scuola dedicato all'acquisizione di competenze culturali di cittadinanza. In questo spazio di flessibilità ampissima, fortemente determinato da pressioni esterne, l’unitarietà del sistema scolastico rischia insomma di diventare un’etichetta vuota. E la saldatura con lo scellerato progetto della sostituzione del consiglio di istituto con un consiglio di amministrazione, previsto dal ddl Aprea, non appare una proiezione da fantapolitica.

C'è, infine, non lo dimentichiamo, la revisione del titolo V della Costituzione, un altro nodo fondamentale che tiene in sé problematiche differenti, e che coinvolgerà soprattutto l'istruzione tecnica e professionale. Un'operazione al suo rush finale, che potrebbe portare conseguenze anche sulla definitiva configurazione del progetto Aprea.

Gelmini non è sola. Non lo è mai stata. Le fanno da ispiratori, mentori, suggeritori, gorilla i ministri Tremonti e Brunetta. Persino Berlusconi, durante la conferenza stampa seguita alla conversione del decreto in legge, le faceva apertamente cenno con la mano di tacere, mentre Lui ci raccontava – con la consueta sorridente magniloquenza visionaria - di quel nuovo grande miracolo (ma, d'altra parte, ricordate? La riforma Moratti venne definita “la più grande dopo quella di Gentile”). Non è Gelmini il nemico della scuola italiana: Mary Star è solo un prestanome, che ripete pacatamente da 11 mesi discorsetti imparaticci e formule inalterate, che qualcun altro ha scritto per lei e le ha consigliato di imparare.

L'assoluta incuria con cui Gelmini ha ignorato l'opposizione di una parte del mondo della scuola, ha scavalcato i pareri negativi della conferenza Stato-Regioni sui regolamenti, ha accuratamente evitato il confronto con gli insegnanti democratici e consapevoli che – unici – avrebbero avuto titolo e competenze per smontare le sue pedestri argomentazioni pseudo-pedagogiche su grembiulini, maestri unici, voti in condotta, necessità dei tagli, in un sostanziale silenzio e nella parallela incuria di stampa e pseudo-intellettuali; sempre pronti – d'altro canto - ad affibbiare responsabilità alla scuola, discettando da qualche salotto televisivo. Ecco ciò che questo Paese sta dimostrando di meritare. È un peccato, perché a farne le spese saranno i bambini, i ragazzi e il futuro del Paese stesso. Di Mariastella Gelmini il popolo delle libertà ne produce in serie. Per cui firmiamo pure la petizione per dare un segno, uno dei tanti ancora possibili, che  non tutto il Paese è vittima dell'inerzia. Non stanchiamoci di dire no, di mostrare la nostra indignazione, di sottolineare il disaccordo. Ma facciamolo con la precisa consapevolezza che Gelmini non è altro che (ammesso che quel titolo e il modo in cui è stato ottenuto possano rappresentare un elemento qualificante in questo contesto) un'avvocato di provincia, che il padrone dell'Italia ha deciso di preferire a tante altre sue simili. Il simbolo di un'Italia che  – nell'imbarazzato balbettio della minoranza e nel colpevole, persino inconsapevole, silenzio di una parte del mondo della scuola e della società civile - concede ad un opaco personaggio incapace di elaborazione autonoma, disposta a farsi zittire dal capo davanti alle telecamere, vittima di una zelante e acritica subalternità, la prerogativa di farsi materialmente esecutrice (eseguendo i dettami altrui) di un'ulteriore, probabilmente fatale, picconata alla scuola italiana.   

 

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