Direzione didattica di Pavone Canavese


 

(04.08.2012)

I Suoi primi 50 anni - di Marina Boscaino

Dopo due mesi dalla morte di Marilyn Monroe, 50 anni fa, sono nata io. I due eventi non hanno  ovviamente tra loro alcuna connessione. È solo per dire che faccio parte di una generazione –ventenni negli anni ’80 - che non ha avuto modo di convivere con la doppia identità di Norma Jean – sinuosa, giuliva, patinatissima da una parte; malinconica, tragica, sommessa dall’altra. Noi, di Marilyn, abbiamo semmai dovuto assaporare lo strascico melenso e un po’ stantio dell’epigonismo del mito; quel che resta del mito quando esso viene a mancare, muore, scompare.

 

O, al massimo, la citazione accattivante e comico-audace di Kelly LeBrok in abito rosso, con le cosce lunghe e tornite accarezzate dai vapori della grata sotto gli occhi attoniti di Gene Wilder.

Il mito contemporaneo che muore si intride immediatamente, nelle moderne società occidentali, di merchandising, di raffinate o sfacciate operazioni market oriented, di gossip, paparazzi e giornalismo spazzatura.

Ma esso crea la propria mitologia in vita. I miti dell’antichità erano narrazioni, investite di sacralità, relative alle origini del mondo o alle modalità con cui il mondo stesso e le creature viventi avevano raggiunto l’attuale assetto in un determinato contesto socioculturale. Protagonisti delle origini del mondo in un contesto sacrale, personaggi fittizi, simbolici – dei, eroi –  che incarnavano valori condivisi e comunemente riconosciuti, rari e originali, archetipici o straordinari, sospesi dalla vita e dalla morte, universali ed eterni, senza ritocchi continui, senza inquietanti retroscena o dietrologie affidate alla stratificazione postuma di documenti (si pensi alle attuali biografie autorizzate, non autorizzate, semi-autorizzate). I miti erano quelli e per sempre; semmai un qualche Ovidio di tanto in tanto veniva a rievocarli e a risistemare come pietre imprescindibili della cultura contemporanea, catalogandoli da punti di vista privilegiati e particolari. O un Virgilio che  – creando il proprio personalissimo mito – attingeva ad un’enciclopedia interminabile ed interminata, che il mitico Omero aveva canonizzato alle origini della letteratura occidentale.

I nostri miti contemporanei sono tali da vivi e reali. E, autonomamente o grazie a sapienti regie, costruiscono il proprio mito.  Quasi mai – se non sono Falcone e Borsellino, Livatino, don Puglisi, Calipari e pochi altri – sono miti perché muoiono. I miti sono miti da prima. La morte (soprattutto se prematura, “Muore giovane chi è caro agli dei”: Marilyn, i Kennedy, Jim Morrison, Lady D), casomai, li sublima ulteriormente. E raddoppia il profitto: oggettistica, vintage, culto e cultori, collezionismo, meeting.

 


Dopo la grande abbuffata di mitologia del fascismo e la creazione della mitologia della Resistenza – che indicano in maniera piuttosto precisa quanto la determinazione di valori condivisi e comuni possa andare in direzioni drammaticamente opposte - il tempo della vita, dalla mia generazione in poi e sempre più nelle generazioni seguenti,  è stato segnato da una serie di miti – personali e generazionali – che hanno incarnato  modelli di identificazione, aspetti positivi o negativi, esasperati. Dapprima tensione verso la trasgressione e grande condivisione dei miti relativi alle due diverse anime della stessa generazione (miti di destra e miti di sinistra); visioni del mondo, contrapposizioni, o di qua o di là: Genesis o Pink Floyd, Usa o URSS, Almirante o Berlingue, persino minigonna o maxi fiorata. Poi, oggi, omologazione nell’ambito di valori più fittizi, con conseguente parcellizzazione dei miti, sempre meno duraturi, sempre più moltiplicati e moltiplicabili, in una inevitabile e drammatica perdita dell’aura. Tutti, in ogni caso, piuttosto rigorosamente accomunati da tratti (bellezza -l’unico reale evergreen -, successo, prodezza sportiva, con relativo aumento della quotazione di mercato) che solleticano l’immaginazione e surrogano l’assenza di valori precisi e forti, cui accordare la dignità – oltre che di essere enunciati come fondamentali -di assurgere a mito: la cultura, l’onestà, la Politica. Dimmi qual è il tuo mito e ti dirò in che società vivi.


Anche la lingua, come quasi sempre accade, ha registrato l’indebolimento della categoria mito, la più lasca accessibilità ad essa e soprattutto l’intrinseca debolezza delle caratteristiche che la connotano. Lo slittamento semantico - dall’indicazione della narrazione alla determinazione di un singolo individuo -, almeno nel linguaggio comune,   sottolinea, a mio avviso, la perdita della centralità di valori, ideali, obiettivi condivisi e l’accentramento su un culto della personalità singola, che alimenta passioni tristi. “Sei mitico”, “sei un mito” – quest’ultimo consacrato da un ritornello-tormentone di ormai molti anni fa di un pezzo di Max Pezzali degli 883 – hanno segnato la perdita del significato originale di questa parola nell’epoca, non a caso, dei “miti di cartapesta”, artatamente creati e poi rapidamente dimenticati, svaporati sotto l’incalzare del mito successivo.

 

Resta il fatto che 50 anni dopo la sua morte siamo qui a parlare di Marilyn: un mito che non mi è mai appartenuto nei suoi aspetti generalmente celebrati, lontani anni luce da ciò che mi ha interessato, affascinato, appassionato, coinvolto, ispirato da quando ero giovane ad oggi. Che forse mi ha incuriosita nel controcanto che ha accompagnato la sua vita, ciò che si poteva intuire di quello che fosse realmente: gli intellettuali che ha amato e che l’hanno amata, le ultime foto, vagamente fuori fuoco, con poco trucco e qualche ruga. La complessità di un’esistenza ormai lontana, il rapporto tra essere e dover essere, la fragilità, la vitalità estenuata. Tutto ciò, in sostanza, che riporta il mito alla dimensione terrena. Utile per tentare di scrivere questa breve riflessione sul mito.

 

torna indietro