Direzione didattica di Pavone Canavese


 

(26.09.2010)

Precarietà epocale - di Marina Boscaino

Adesso scrivo io. Scrivo di me. Dopo che lo hanno fatto in tanti, da Giovanni Floris  a Corrado Augias, da Annamaria Sersale  a Marina Boscaino, da Michele Smargiassi a Franco Siddi, da Giulio Benedetti a Michele Serra, e molti altri. Mio malgrado, ero un fenomeno di quel baraccone chiamato scuola. Ma c’è di più, la conosco bene eppoi ho tutto per fare notizia. Sono meridionale, ho insegnato da precario per oltre 27 anni, per poi passare finalmente in ruolo e, infine, ritornare ad essere precario. Conosco la scuola e la storia dei suoi ultimi cinquant’anni, le iniziative insulse e scellerate che si sono succedute e i ministri inetti che le hanno adottate: da Misasi a d’Onofrio, dalla Iervolino a Berlinguer, dalla Moratti a Fioroni, sono stati, tutti, ministri per caso. Ce ne fosse stato uno, uno solo, direttamente “informato sui fatti” e i bisogni della scuola. Tutte grandi menti, forse. Ma anche rigorosamente incompetenti. I responsabili dell’istruzione hanno arabescato, alcune volte in buona fede, riforme inconcludenti se non dannose. Per certo, tirando le somme, la qualità è scesa e la precarietà, tout court, è cresciuta.

Inizia così la lettera che Gianfranco Pignatelli ha inviato al “Fatto Quotidiano” e ad altre testate nazionali. Conosco Gianfranco da tempo. Presidente nazionale dei C.I.P.,  Comitati Insegnanti Precari. Insieme abbiamo partecipato a convegni, a iniziative sulla scuola. Mi è capitato di intervistarlo un paio di volte: attento, documentato.
La sua è una lettera lunga e interessante, che fa riflettere.

Figlio adottivo del caporalato di stato. Simile a quello che, nella mia Puglia, ha sempre accompagnato la raccolta stagionale dei frutti della terra e lo sfruttamento dei braccianti. Per anni, insegnante stagionale: occupato, dopo decenni di gavetta, da ottobre a giugno. Licenziato l’ultimo giorno di lezione, riassunto per il solo giorno degli scrutini; licenziato ancora e, poi, riassunto giusto il tempo degli esami. Infine in vacanza coatta. Nulla in più e molto in meno. Nessun centesimo in più, tanta dignità in meno. E’ questa la vita del docente usa e getta. Sottoccupato, sottostimato e sottopagato.
Strano destino il mio. Eppure, da figlio e fratello di insegnanti già pensionati, ricordo bene quando la scuola era un’isola felice, luogo nel quale maestri e professori erano circondati da considerazione e apprezzamento sociale. Stabilità occupazionale, gratificazione professionale ed economica che hanno consentito, ai miei, di vivere in maniera dignitosa, di laureare tutti i figli e acquistare la propria abitazione. E oggi? Per approdare a standard dignitosi occorre industriarsi in più attività, passando da una precarietà ad un’altra, sperando nel sostegno della salute, sennò sono guai. A ogni convocazione per le supplenze, aspiravo a quel poco, che è meglio del niente. Ma era meno, molto meno, di quanto meritavo. Nonostante i cinquantadue anni, una laurea in architettura a tempo di record, sei concorsi a cattedra e due corsi abilitanti superati, brillantemente, dall’82 al ‘99.

Ci racconta la vita da precario, la vita del precario. La vita precaria. 27 anni: sono davvero un'esistenza. Piena di contraddizioni che minano credibilità, fiducia, ottimismo:

Ventisette anni d’insegnamento da precario, eppure preparatore dei candidati al concorso a cattedra per conto dell’ordine professionale, autore di pubblicazioni ed esperto in formazione professionale. Non mi mancavano né titoli né esperienza, a dispetto dei nuovi percorsi abilitanti dai quali – secondo la Moratti del 25 febbraio 2005 – si sarebbero dovuti avere " insegnanti più qualificati e più giovani". Io, come tutti, non sono entrato nella scuola da vecchio, ma sono invecchiato nella scuola e per la scuola. Con tanti miei colleghi le ho consentito di funzionare, con un’amministrazione che ti rema contro, sempre, ricevendo come regalo di fine d’anno, ogni anno, il licenziamento estivo.

La presidenza del C.I.P., in anni in cui i precari non erano ancora costretti allo sciopero della fame, a bloccare il traffico nello Stretto di Messina. Ma esistevano, sono sempre esistiti. Sono stati prodotti dal sistema, da una gestione miope, dal clientelismo, dall'analfabetismo politico di chi prometteva, sapendo o non sapendo di non poter mantenere. 

Per questo ho deciso di accettare la presidenza nazionale della più antica associazione di categoria, i C.I.P., Comitati Insegnanti Precari. L’unica associazione di categoria radicata in quasi tutte le province italiane dal 1997 e riconosciuta dal ministero, sin dal ’98. Autonoma da qualsiasi organizzazione politica o sindacale, tanto da potersi battere a tutto campo per una scuola autenticamente di qualità, laica, democratica, pluralista e libera. Lotta dura, appassionata e talvolta disperata, quella dei C.I.P. e degli insegnanti d’oggi. Stretti tra una burocrazia ottusa, sempre uguale a se stessa, un ministero delle finanze che amministra con miopia e spilorceria e uno dell’istruzione, regno dell’abulia, che non sa farsi rispettare, col ceto politico impreparato e disinteressato al comparto scuola.
Da sette anni, come presidente nazionale e rappresentante di categoria sono stato e sono tuttora audito dalle commissioni cultura e lavoro di camera e senato. Lì mi sono confrontato con i politici che legiferano in materia scolastica. Ne esco ogni volta sgomento. Una mano basta a contare quelli in grado di capire di cosa si tratta o hanno l’umiltà di ascoltare per sapere su cosa sono chiamati a votare, gli altri si pavoneggiano o s’assentano. Oggi assisto, incredulo e impotente, all’avvento di una stagione drammatica che non ha precedenti e, per cert, avrà esiti rovinosi sull’anno in procinto di cominciare e su quelli prossimi.

Poi “l'epocale riforma”: quanto di più lontano si potesse immaginare da un progetto culturale, dalla tutela del diritto al lavoro e del diritto allo studio, dall'investimento sul futuro, dalla Scuola della Costituzione:

Uno smottamento epocale, altro che riforma. Ma ha fatto tanto rumore ed alza pure un gran polverone mediatico nel quale si perdono e si nascondono ragioni e responsabili. Dalle prime impressioni, il cordoglio per il disfacimento della scuola sembra sincero ed unanime. Ma chi la frequenta, ne fruisce e ci lavora, riconosce bene l’ipocrisia e l’ignavia di chi ha consentito che si minassero le sue fondamenta fino a ridurla in macerie. Loro ricordano bene i propedeutici linciaggi mediatici orchestrati da ministrucoli livorosi e insipienti. A devastarla un ministro dell’economia liquidatore che la considera un costo, un luogo d’approdo per chi cerca solo un posto. Solo l’assenza di statura politica può spiegare la finanziaria vampiresca che, in tre anni, ha depredato l’istruzione statale di 8 miliardi di euro e 160.000 operatori. La stessa delle migliaia e migliaia di istituti chiusi, del tempo scuola falcidiato, degli indirizzi, delle sperimentazioni e degli insegnamenti revocati, delle classi sovraffollate in cui si soffoca, quando non si muore. E’, quella pubblica, la scuola degli handicappati abbandonati, delle risorse, delle attrezzature e degli strumenti negati, dei fondi della fiscalità generale dirottati dal pubblico al privato col consueto preludio di dichiarazioni diffamatorie, con delegittimazioni e screditamenti mirati e reiterati a chi la frequenta e ci lavora. Intanto si elogiano e avvantaggiano i diplomifici confessionali e confindustriali per furore ideologico e per mero baratto elettorale.

Uno sguardo sull'oggi e sulla mobilitazione dei precari. Critico contro il male che ha offeso la capacità di dare forza e respiro alla nostra protesta. Un male che continua ad affliggerci: la mancanza di unitarietà. Sul quale chi ci governa ha investito volontariamente, incoraggiando e promuovendo forme di competitività in una logica da “divide et impera”:

Ora protestano i precari, asserragliati sui tetti o affollati in strada, incatenati o affamati. Consumano un rito stagionale, si dirà. Purtroppo, sono sempre gli stessi, fanno e dicono cose giuste ma nel momento sbagliato e in ordine sparso. Il loro è un lamento inascoltato e irricevibile, perché isolato eppure tardivo. Bisognava agire prima, bisognava farlo insieme. Bisognava dedicarci più tempo. Ma crederci, dedicare il proprio tempo a queste battaglie non è da tutti. Così com’è di pochi la perseveranza. Resta più facile farsi sopraffare dall’avvilimento e dalla rassegnazione o coltivare il proprio tornaconto. Magari spendendo denari e tempo in quel mercimonio di master, stage, perfezionamenti, specializzazioni e quant’altro imposto, ai precari, da uno stato biscazziere per non fargli perdere posizioni in graduatoria e, nel contempo, foraggiare gli enti e gli atenei che li gestiscono. È lo scivolare piano di ciascuno per appostarsi meglio lungo le trincee delle graduatorie in quella che i media classificano con il deprecabile stereotipo della “guerra tra poveri”. Ma come fai a spiegargli che gli insegnanti italiani non sono poveri ma, sebbene laureati ed abilitati come avvocati, architetti e ingegneri, sono precarizzati da uno Stato che non ha rispetto per i maestri dei propri figli, non mantiene gli impegni assunti, e non dà credito neanche alle sue stesse capacità di selezionare il personale docente, tant’è che rinnega e periodicamente sovverte le norme che impone a chi partecipa ai suoi concorsi. Questi docenti, a qualsiasi categoria appartengano, hanno titoli e meriti per essere cittadini con diritti acquisiti da salvaguardare per dovere civico e non per elargizione benevola. La stabilizzazione della docenza non è solo un diritto negato a quanti superano i concorsi ma un attentato alla continuità didattica che spetta agli alunni.
Quando, già nel 2008, con la finanziaria il ministro-liquidatore stava mettendo le cariche per far saltare tutto, perché tutto si sgretolasse, quanti di quei precari sono scesi in piazza? Quanti di loro hanno cercato l’unità con gli altri soggetti della scuola? E gli studenti? E le famiglie? E il personale amministrativo e dirigente, cos’ha fatto? Dov’erano, tutti? E i cittadini? Quanti hanno capito che quando si mina la scuola di tutti e di ciascuno, perdono tutti, ma proprio tutti tutti? Ci rimette chi se ne avvale e chi no. Perché la scuola pubblica è di tutti, del Paese intero e non solo di chi ci lavora. Minarla significa attaccare il cuore dello stato. Significa segare le gambe al suo futuro, immiserire il suo capitale umano, escluderlo dalla competizione internazionale per il progresso. È un atto eversivo ai danni di tutti. Tutti, tranne certi politici. Quelli per i quali la scuola porta spese e l’ignoranza porta voti. Quei politici per i quali è la televisione, certa televisione spazzatura, a fare scuola, opinione e consenso, perché è organica alla politica della cosca e della casta, della cricca e della loggia più vantaggiosa di qualunque scuola pubblica o della polis.

 

Un pensiero anche a colei che ha in mano (almeno apparentemente) le redini di Viale Trastevere. Quella che ci mette la faccia, l'arroganza, la prosopopea per legittimare giochi che si fanno altrove:

Il ministro Gelmini, intanto, si rifiuta di parlare coi precari, così come ha fatto coi genitori, gli studenti e le altre categorie della scuola. Lei pretende di ingiuriare prima ancora di ascoltare, di tagliare invece di governare. A muoverla un accanimento cieco, un indomabile astio. Ha ragione, i precari, come tutto il mondo della scuola pubblica, fanno politica. La politica alta e nobile, quella che nella scuola libera e laica s’insegna attraverso Aristotele e i grandi del passato, così diversa dalla politica che s’intrallazza con i magliari e i bottegai di oggi. Quella del sapere critico non quella dei serventi e delle autoreggenti e neanche quella dei cappucci e dei tubini neri. 
Troppo complesso interloquire, confrontarsi politicamente sulla res pubblica. Meglio la politica meschina e sudicia, quella che si parla addosso e si dà ragione da sola, quella che privilegia l’intimidazione alla mediazione, quella di chi dice di disprezzarla ma la pratica con accanimento per il proprio privilegio e mai come servizio per il bene comune. Allora è più comodo rintanarsi nell’indifferenza rancorosa e ringhiosa, della politica insignificante e distruttiva. Capace d’indire una conferenza stampa per non dir nulla, per non essere capace neanche di ripetere pappagallescamente quelle quattro insulsaggini che occorreva riferire per darsi un tono. Allora ben venga una conferenza stampa nella sala col Tiepolo taroccato. Lì, nel contesto più appropriato, chi deforma la scuola e s’attribuisce la riforma della scuola, osa pure etichettarla come epocale, invece di definirla così com’è: ferale, letale e demenziale.

Dopo 27 anni la “chiamata”, l'entrata in ruolo. Ma l'incubo non è finito:

C’è da giurarci, quando entrerò nella mia prossima scuola mi chiederanno: <<Precario?>>. Risponderò: <<Quanto te, e come tutti qui>>. Già, proprio così. Perché nella scuola, nonostante tutto, è così. Quattro anni fa ho messo tra me, la mia famiglia e la mia casa cinquecento chilometri di mare. Mi sono trasferito dalle graduatorie di Napoli a quelle di Cagliari. Così, in quarant’otto ore ho ottenuto due immissioni in ruolo, quelle che ho atteso invano per ventotto anni. Un anno di esilio lavorativo prima di poter rientrare in assegnazione provvisoria. Una sub-precarietà connessa alla mobilità territoriale. Fisiologico se non s’intrecciasse con la mobilità professionale determinata dallo smottamento procurato dai tagli dei provvedimenti Tremonti-Gelmini che hanno determinato la precarizzazione dei docenti di ruolo etichettati come soprannumerari e spediti a cercarsi posto altrove.
A chi ci accusa di lagnarci rispondo che, nella lotta per estirpare la precarietà dalla scuola pubblica, il personale ed il sociale si saldano. Da professionisti dell’istruzione, sappiamo che tra precarietà e qualità la concordanza è più funzionale che fonetica. Alcuni esempi? La precarizzazione ad oltranza di una parte sempre più consistente del personale docente impedisce la collegialità. Ad oggi, l’Usp della mia città, Napoli, non ha ancora pubblicato le utilizzazioni e le assegnazioni provvisorie, che io sto attendendo [la lettera è di 3 settimane fa, ndr]. Non so ancora, insieme a centinaia di colleghi, dove presterò servizio quest’anno.La nostra collocazione in ritardo, rispetto all’inizio dell’anno, ci preclude la conoscenza degli alunni attraverso i test d’ingresso; inoltre, ci esclude dalla stesura dei progetti didattici, costringendoci alla estemporaneità, alla “navigazione a vista”. In sostanza, l’utilizzo costante di “panchinari della cattedra” impedisce la costituzione di una vera squadra e la realizzazione di organici percorsi multidisciplinari. Inoltre, nega la continuità dell’insegnamento e l’attuazione di percorsi didattici di lungo respiro. Impone a docenti e alunni l’utilizzo di libri di testo scelti, l’anno precedente, da un altro insegnante precario, occupato poi in chissà quale altra scuola. Priva i giovani “dei punti fermi” culturali, metodologici e - perché no - affettivi, essenziali nei processi di crescita. Abbassa la qualità lì dove ce n’è più bisogno (nelle scuole di frontiera, dove la percentuale di precari è prevalente), costringendo chi è già povero culturalmente e socialmente ad accontentarsi del meno e del peggio.
Già, i legami affettivi: quelli, inevitabilmente, nascono ed immancabilmente si sciolgono ogni fine d’anno.
Così come, ogni volta, tornano le domande di sempre: prof ci vediamo a settembre? Perché no? Perché ci lascia? Perché non ci vuole?
Domande alle quali non puoi rispondere. Qualunque spiegazione tu voglia dare, sarà sempre - tuo malgrado - la peggiore dell’intero anno scolastico.

Si tratta di una lettera molto lunga, lo so. Spero siate riuscita a leggerla fino alla fine. Perché racconta una condizione, che non è solo professionale, ma esistenziale. E parla di una sensibilità, di un percorso, di un continuo riassestamento – faticoso e incessante – che le cronache, che pure hanno accordato spazio alla condizione dei precari, non potranno mai davvero rappresentare.

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