Direzione didattica di Pavone Canavese


 

(30.05.2012)

Trattamento di inizio rapporto- di Marina Boscaino

Non tutti si stanno preoccupando di monitorare la nuova frontiera del business: il TFA. Un acronimo che dirà poco a moltissimi; suggerirà tanto ai molti giovani che hanno avuto la sconsiderata idea di pensare all’insegnamento in questo complicato periodo della nostra storia.
Il Tirocinio Formativo Attivo (Tfa) è un corso abilitante all’insegnamento istituito dalle università. Ha durata annuale e attribuisce, tramite un esame finale, il titolo di abilitazione all’insegnamento. Viene attivato per ciascuna classe di insegnamento secondo il fabbisogno rilevato, cioè secondo le previsioni dei pensionamenti. Il Tirocinio Formativo Attivo consiste di tre gruppi di attività: degli insegnamenti di materie psico-pedagogiche e di scienze dell’educazione impartiti dall’università; un tirocinio svolto presso una scuola sotto la guida di un insegnante tutor, comprendente una fase osservativa e una di insegnamento attivo; degli insegnamenti di didattiche disciplinari che vengono svolti in un contesto di laboratorio e che mirano a stabilire una stretta relazione tra l’approccio disciplinare e l’approccio didattico. Il Tfa non assicura il reclutamento, cioè l’assunzione presso le scuole, ma solo l’abilitazione.
La questione della formazione e del reclutamento dei docenti è una delle neverending stories del nostro Paese. Ed è anche una questione sulla quale la nuova amministrazione del Miur pare essersi più appassionata. Fatto strano, considerando il cortocircuito che il combinato disposto di tagli – 80mila posti circa dal 2008 ad oggi, in seguito alla “cura da cavallo” di Gelmini-Tremonti – pensionamento posticipato, dimensionamento degli istituti scolastici (l. 111/11), revisione delle classi di concorso, riconversione professionale del personale di ruolo in esubero, revisione del sostegno, tendono a configurare.
Durante un incontro al Miur, L'Amministrazione ha comunicato alle organizzazioni sindacali la volontà di far accedere ai TFA, senza la preselezione e senza tirocinio, i docenti non abilitati che abbiano almeno 3 anni di servizio. Una buona notizia, rispetto alla quale si attende uno specifico provvedimento normativo. Nello stesso incontro non si è parlato, però, del concorso per circa 8mila posti al quale il ministero starebbe lavorando da mesi, peraltro senza  interlocuzione con i sindacati, da bandire entro l’anno. E senza, soprattutto, una ricognizione concreta di tutti i posti disponibili e di quelli necessari a restituire alla scuola quella condizione di dignità che le è stata alienata dal precedente governo.
Il motivo conduttore del giovanilismo continua a riemergere dalla dichiarazioni del ministro. Chi è tanto insensibile e miope da non unirsi all’entusiastica esclamazione “largo ai giovani”? Le domande continuano ad essere però sempre le stesse: come? Dove? Quando? E, soprattutto, dei “vecchi” cosa facciamo? Li rottamiamo?

 


I giovani, appunto.
Ecco una mail, che mi è arrivata da un amico virtuale, del gruppo Facebook classe di concorso 051: ci si chiama così, identificati per gruppi; ci si racconta avventure e disavventure in una scuola che per – precari e non – è ormai da tempo un luogo di esasperazione del disagio; un disagio determinato dall’osservazione, ormai protratta da anni, tra mandato e concretezza; tra funzioni teoriche ed operatività; tra ambizioni, studio, competenze – ricercate spesso, come in questo caso specifico, che è il caso di tanti, con ostinata determinazione – e mancanza di opportunità. Che si salda, oggi, anche con una questione particolarmente pesante, come pesante è la crisi che stiamo attraversando: i costi per conquistare un posto (magari al sole). Vincenzo Russo mi ha scritto questa mail. Oggetto (arguto): Questione di prefissi. Ci permette di seguire con sufficiente realismo il percorso in salita e tutto da verificare di un trentenne o giù di lì: colto, preparato, evidentemente non figlio d’arte. Chissà se Michel Martone, o la progenie della Fornero (il ministro che, stigmatizzando l’incapacità della scuola ad insegnare a leggere, scrivere e far di conto, consiglia ai ragazzi di oggi l’apprendistato) hanno percorso il medesimo itinerario.

Cara Marina,
Ti scrivo tra l’amarezza e l’indignazione.
Da ssissino dell’ultim’ora con 2 abilitazioni, con qualche chiamata temporanea, con un dottorato a fine corsa e con varie opportunità di ricerca e lavoro, potrei benissimo risparmiarmi questi due sentimenti sgradevoli: eppure, visto che siamo in una democrazia (travestimento di una partitocrazia, anche qui è questione di prefissi) e che la sorte dell’uno non può non interessare anche chi è più distante, mi sento di spedirti questo breve sfogo, nella speranza possa trovare il tempo e il modo di sensibilizzare quanti più lettori possibili circa il latrocinio legalizzato che si sta rifilando in questi giorni ai giovani e meno giovani aspiranti insegnanti.
Entro oggi dovrebbero uscire i bandi del TFA degli atenei interessati. Vedremo, perché mi sembra difficile possano tutti rispettare questa scadenza. Quelli già pubblicati fanno però ben capire una cosa: l’accesso e la frequenza, prima ancora che su criteri meritocratici di gelminiana memoria, saranno regolati su criteri timocratici. Oboli di accesso tra i 100 e i 150 euro (a classe di abilitazione, ovviamente; pensa a un collega delle discipline letterarie che tenta il test per le nostre 4 classi); costi di frequenza tra i 2000 e i 3000 euro e rotti (a volte da corrispondere in un’unica soluzione, come a L’Aquila). Il tutto per cosa? Un’abilitazione che altre categorie si guadagnano subito dopo la laurea con un indolore quiz di Stato (iniziamo a usare bene le parole: è un esame quello?) per lavorare subito, laddove agli insegnanti si prospettano mesi o anni di corsi su corsi per poi riproporre loro l’eventualità del bau-bau concorsuale. Mesi o anni, dicevo: la nostra SSIS è durata 24 mesi, il novello TFA dovrebbe durarne 12, e dovrebbe anche essere più ‘pratico’ della prima. Come mai, allora, costa in proporzione molto di più? I corsi saranno di meno e più concentrati, quindi i docenti (spesso indecenti) da pagare saranno in numero minore; se è attivo, i tieffeandi dovranno ‘lavorare’ (nel senso etimologico di ‘faticare’) più che con la SSIS: perché allora farli pagare così tanto?
Molti, poi, non potranno nemmeno pagare: non tutti hanno la fortuna di essere ‘bamboccioni’, di vivere con genitori che possono sobbarcarsi le ennesime spese, tanto più esose in un periodo non proprio florido come questo. Pagheranno con quello che hanno messo da parte lavorando, dici? Lavorando dove, se finita l’università per molti di loro (penso soprattutto ai letterati, perché sono di parte) si apre il mondo del precariato più cheap?
È per questo che parlo di timocrazia, altro che meritocrazia. E il Grande Silente, Profumo, non balbetta una parola in proposito; mai visto un ministro tecnico più anodino.
Prima che una spending review, pensino ai coscience review, questi sapienti.
Buon pomeriggio, e grazie per l’ascolto.
Vincenzo

È un messaggio che si commenta da solo. Che chiama in causa il sistema intero, la formazione, le pari opportunità, la democrazia nell’accesso al lavoro in un Paese che pare aver smarrito il senso collettivo di parole come equità e giustizia.

 

 

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