Direzione didattica di Pavone Canavese

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30.03.2003


Contro-indicazioni per i piani di studio personalizzati
di Andrea Bagni

 

Piccola premessa.

Non è facile oggi trovare le energie per mettersi a leggere i nuovi documenti pedagogici prodotti dallo staff di Moratti-Bertagna. Ho dovuto fare appello al senso del dovere…
La stessa "caduta del desiderio" verso la politica della scuola la leggo negli occhi dei miei colleghi e colleghe: difficile organizzare vere assemblee sindacali o portare certe questioni nei collegi: si va incontro a deserti di silenzio. Qualcuno mi dice, è perché manca l’informazione sul disastro che avanza, dobbiamo spiegare tutto, svegliare chi dorme e mobilitarlo. Io non credo: credo non manchi tanto l’informazione quanto la speranza, quel minimo di fiducia in se stessi e nelle possibilità di cambiare l’esistente, senza la quale non ci si muove. Ci si lamenta magari, si mugugna, ma non ci si muove.
Forse oggi gli insegnanti sono vivi o in uno spazio iper-ravvicinato, quello della classe, dell’amore pedagogico per bambine e bambini, ragazzi e ragazze (uno spazio sentito ancora come liberabile e da proteggere, magari con strategie di aggiramento - se non libero e protetto) oppure nel macrospazio della società e della politica. L’istituzione scolastica, la sfera delle leggi, delle riforme, dei parlamenti, mi pare sia vissuta come separata e impermeabile, capace di procedere in una totale indifferenza per la scuola reale e i suoi abitanti.
Chiaro che non va bene.
Chiaro anche che con quella percezione di un incendio devastante e inarrestabile, di fronte al quale conviene scavare buche di sopravvivenza o volare alti come l’albatros di Baudelaire, bisogna fare i conti. Bisogna ricostruire speranze e relazioni di resistenza. Territori e reti oltre le barricate (sapendo che molte buche possono generare frane…).
Peraltro, la distanza dalla scuola reale non è solo del treno aziendale morattiano. A me pare appartenga a tutto il discorso pedagogico del centrodestra, che nei suoi aspetti "alti" non ha nessuna chance di fare scuola; in quelli più bassi autorizza una didattica valoriale quanto autoritaria e insieme tecnocratica.
Perché, ad esempio, non mancano riflessioni di alto livello nelle nuove Indicazioni per i piani di studio personalizzati nella Scuola Secondaria di 1° grado. Anzi si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad una elaborazione molto lontana dalla pedagogia da ipermercato delle "tre i" di Berlusconi (che peraltro abbiamo sentito parlare inglese con Bush…).
Nelle Indicazioni si parla in modo suggestivo, mi sembra, di una conoscenza secondaria fondata su "modelli" epistemologici, rappresentazioni selettive e mai esaustive della complessità della realtà, che si appoggiano su analogie per costruire un linguaggio intersoggettivo, convenzionale e problematico, aperto all’indagine sui nessi fra i diversi approcci disciplinari, consapevoli della loro parzialità, verso un quadro unitario della conoscenza. Luogo dei problemi e dei significati che danno senso all’apprendimento.
Si parla di una funzione emancipatrice della scuola dai condizionamenti sociali (con un bel po’ di faccia tosta si cita l’art. 3 della Costituzione). Di una rete continua di rimandi fra conoscenze e educazioni per cui le discipline non sono mai separate da risonanze emotive, propensioni etiche, comportamenti che "fanno lievitare". E viceversa.
Si cerca anche di aprire spazi di "mediazione professionale" attenti alle dinamiche individuali e di classe, nel passaggio dagli obiettivi specifici d’apprendimento agli obiettivi formativi da calibrare sulla psicologia e sulle "dissonanze cognitive" interne alle narrazioni personali dei singoli allievi.
Insomma molta attenzione alla complessità del processo d’insegnamento-apprendimento: olistico (anzi rappresentato dall’ologramma), bisognoso di trovare motivazione nella "relazione educativa", contrapposta alla logica di scambio e anche al "rapporto" fra ruoli diversi, codificati, fondati su codici professionali e doveri piuttosto che sulla presa in cura dell’altro, sul suo "stare a cuore" (il suo bene, realizzazione del nostro).
Per certi versi un’attenzione alla dimensione emotiva, "altruistica", perfino sentimentale dell’insegnamento, che secondo me è bene prendere sul serio, perché forse rappresenta il meglio del contributo cattolico alla formulazione di un’idea vitale di scuola.
Si parla continuamente di centralità della persona e del suo "progetto di vita", e sembra di essere lontanissimi dalla tecnica modellistica, banalmente utilitaristica del pensiero unico che ha pensato la scuola in questi anni.
E invece no.
È un pessimo matrimonio quello che si realizza fra slancio etico, cura relazionale e riforma istituzionale della Moratti. D’altra parte non è sempre una pessima relazione quella che si stabilisce fra eticità e stato, in termini di "coronamenti" religiosi, educazioni alla spiritualità, crocefissi obbligatori sopra le cattedre - come dovessero sovrintendere al giudicare, dare voti, selezionare i non meritevoli, per metterli in croce…)?
Perché intanto l’impianto tecnocratico rimane a contenere e dare ordine al tutto, in una specie di organizzazione gerarchica delle procedure (eccola la solita pedagogia di riferimento) che contiene la flessibilità delle relazioni educative per veicolare meglio, senza frizioni negli snodi operativi, il processo produttivo.
E dagli "obiettivi specifici d’apprendimento" si passa a quelli "formativi", poi questi confluiscono nelle "Unità di Apprendimento" (proprio con la maiuscola, come i documenti delle brigate rosse) individuali e di gruppo; l’insieme delle Unità dà origine al "Piano di Studio Personalizzato" da cui si ricava il "Portafolio delle competenze individuali", per orientare la scelta (delle famiglie) delle 200 ore aggiuntive di recupero-sviluppo-eccellenza e poi del ciclo successivo. In coerenza con il "Profilo educativo culturale e professionale" previsto per ogni studente e con il vecchio mitico Pof, in cui si collocano interamente i Piani Personalizzati.
Come diceva Gassman nei Soliti ignoti, tutto scien-scien-scientifico (perché tartagliava un po’).
Meglio: tutto tenuto sotto controllo. E armonico.
Però questa volta i controllori sono più invadenti (essendo "buoni": avendo a cuore il futuro dell’allievo/a) e non fanno solo il loro mestiere ma sono Maestri e Guide. E trattandosi di educare la personalità integrale, l’affettività e la sessualità, il progetto esistenziale eccetera del fanciullo, naturalmente il grande collaboratore scolastico è la Famiglia (l’ultima, di solito, a sapere qualcosa della sessualità dei figli e delle figlie).
Il preadolescente delle Indicazioni non è mai solo. Non ha mai un desiderio suo, una passione personale, una semplice domanda, un dubbio da porre; anche le "dissonanze cognitive" sembrano appartenere tutte ad un’analisi epistemologica esterna: non si creano nella classe, dove non deve (e non può) accadere niente che non sia programmato prima e altrove, che sia davvero nuovo, imprevisto, capace di sorprendere (e insegnare) anche agli adulti.
Insomma non c’è nessuna nozione di libertà in questa scuola.
La sfera della didattica è tutta una costruzione di mattoncini (le "Unità") di cui tenere calcolo e contabilità (debiti, crediti, valutazioni sistematiche esterne biennali – chissà quanto sensibili alla sfera delle emozioni…), di cui rendicontare. Mai un paesaggio vero, da coltivare. Un giardino indiano, un territorio da attraversare.
La sfera delle relazioni sembra inglobata (la Moratti direbbe implementata) a rendere meno banalmente meccanicistico il tutto, ma è ricondotta ad una chiusura soffocante di percorsi scolastico-familistici, sostanzialmente paternalistici. Nessun conflitto possibile in questa scuola. Nessuna politica in questa casa-comunità armoniosa. Nessuna polis. La sacra famiglia è soggetto a pieno titolo della programmazione (con il che il sacro è già perduto per sempre).
L’adolescenza forse finirà per arrivare prestissimo così: come totale rifiuto di Padri, Madri, Professori… Forse sarà un bene, ma certo qualche adulto/a un po’ rispettoso della libertà giovanile, capace di dialogare con essa, sarebbe bene rimanesse…
E le famose "educazioni"?
Dopo la bella cautela della prima parte delle Indicazioni sulla separazione dell’educazione alla convivenza civile (alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività) dalle discipline, quello che arriva alla fine è un banale elenco di conoscenze e abilità le più variegate – davvero c’è di tutto: dai segnali stradali e gli stemmi regionali, all’"identificare gli elementi significativi della coscienza professionale nei vari settori lavorativi" (mi ricorda un vecchio sussidiario: il buon falegname, il bravo maniscalco, il brillante avvocato); dalla predisposizione corretta di menù equilibrati, al chiedere certificati via internet, fino all’"individuare, analizzare, visualizzare ed esporre i collegamenti esistenti fra globalizzazione, flussi migratori e problemi identitari" (e l’abilità da acquisire in storia è "comprendere che domande poste dal presente al futuro trovano la loro radice nella conoscenza del passato": tutto il tempo in un giro solo di sintassi…). Conoscenze e abilità distinte rigorosamente attraverso un geniale passaggio epistemologico dal sostantivo al verbo: obiettivo conoscitivo, "analisi scientifica dei problemi ambientali", abilità: "analizzare da un punto di vista scientifico le maggiore problematiche dell’ambiente". Poi dice uno non si appassiona alla pedagogia e alla didattica…
Ma di nuovo l’equivoco serio è non riuscire davvero a pensare la scuola come luogo di processi viventi, aperti, problematici, per cui "il contributo di ciascuno alla soluzione dei problemi di tutti" (nell’educazione ambientale), o l’accettazione di sé, l’autostima, l’"essere consapevole delle modalità relazionali da attivare con coetanei e adulti di sesso diverso (solo di sesso diverso?), sforzandosi di correggere le eventuali inadeguatezze", tutta questa roba viene codificata nelle forme di una programmazione classificatoria per obiettivi, profili, unità d’apprendimento, crediti, portfolii ecc.. Come se all’analfabetismo delle emozioni si potesse rispondere con una didattica breve dei comportamenti emotivi o dei codici etici. E non si accetta che siano ricaduta, processo stocastico, risonanza intima della scuola (non formalizzabile in questionari e tabelline) in una dimensione altra e fluida, in un altrove che è costruito non da libretti d’istruzione "usa e getta" ma dalla grammatica profonda delle biografie dei ragazzi e delle ragazze. Tutto deve entrare nel processo produttivo. Essere monitorato, ricevere voti, richiedere ripetenze. Ci toccherà assegnare debiti - da saldare tramite sportelli, da verificare attraverso somministrazione di test - in "affettività-sessualità-moralità" oppure in "autistima"? (sarebbe bellissimo però il debito in autostima, molto Woody Allen prima maniera…).
Sento già i colleghi e le colleghe che mi dicono: che t’importa, lascia perdere, tanto in classe ci andiamo noi e faremo sempre cose un po’ più umane.
Io un po’ spero che abbiano ragione. Ma poi non mi sembra che mi basti. Non mi basta per niente e vorrei che ogni tanto si dicesse forte che certe cose non si fanno proprio, che non è giusto farle. Che fare scuola non è quella roba lì, organizzazione di una megamacchina che imprigiona tutti i desideri e uccide tutte le domande. E poi offre Prozac e Ritalin ai "quasi adatti", o in qualche accogliente CIC la presa in cura della "persona".

Della bella persona che mi fu tolta, ricorda Francesca. E il modo dovrebbe ancora offendere.

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