Direzione didattica di Pavone Canavese

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26.01.2003


La formazione è come una cucina componibile
di Andrea Bagni

 

Nel processo di riforma della scuola avviato in questi anni, sembra aver operato un ragionamento di fondo: si sono assunte le trasformazioni della società nell’epoca della globalizzazione, come una sollecitazione alla subordinazione della scuola al lavoro, anzi al mercato del lavoro e al mercato in generale. Per cui se le attività direttamene produttive si sono fatte sempre più flessibili segmentate precarie, allora sempre più simile ad esse deve farsi la formazione: breve, modularizzata, componibile come una cucina ai desideri del cliente. Privatizzata.

Nella società del rischio e dell’insicurezza, il sapere è diventato (anche per la sinistra) "capitale conoscitivo" da acquistare individualmente e da spendere sul mercato del lavoro come opportunità di affermazione personale: patrimonio delle "risorse umane" nella competizione sociale; unico elemento di sicurezza possibile nella precarizzazione della condizione sociale, che tuttavia riduce sapere e formazione a una sorta di variabile dipendente del collocamento e dell’occupabilità.

Una costruzione di conoscenza che ha carattere qualitativo e relazionale dalla scuola materna fino all’università (legato a contesti significativi e a un senso condiviso) diventa un bene quantificabile, da tradurre in segmenti da certificare (perché già certificabili nella loro forma) in un libretto formativo che mette a valore tutta la propria vita, tradotta in crediti, ridotta ad una misura astratta e dunque economicamente riconoscibile. Astratta, impersonale, intercambiabile, proprio come la moderna prestazione di lavoro, povera precaria intermittente - per quanto paradossalmente da porre al centro della propria biografia. Perché il postfordismo oggi, almeno come tendenza, cerca la mente dell’operatore quanto e più delle sue mani. Ogni tanto cerca anche la sua "anima", le capacità relazionali che diventano cura delle relazioni col cliente, perfino l’affettività - in cambio offrendo appartenenza, a un’azienda o una "famiglia".

Allora ecco l’autonomia scolastica ridotta ad organizzazione verticale, aziendalistica e insieme neofeudale (fondata su vincoli di fedeltà personale al "signore" dirigente); la diffusione di una mera sommatoria di progetti e progettini client oriented: come in un fast food del sapere, supermercato della formazione dove ogni famiglia è "autonoma" nel comprare il suo pacchetto di conoscenze (all’interno dell’educazione ai valori d’appartenenza) – la scuola altrettanto nello stare sul mercato dell’offerta. E l’apprendimento scambiato dovrà essere "oggettivamente" misurabile, prestazionale, meccanicistico.

Però non è privo di crepe il pensiero unico della conoscenza come bene privato da acquistare in aziende-scuole tecnicamente organizzate per nuovi lavoratori-consumatori (senza limite adattabili alla domanda). Chiede alla formazione maggiore curvatura verso il lavoro e contemporaneamente informa che non esiste più il posto di lavoro sicuro, ma si dovrà abituarsi a cambiarne tanti nella vita – come fosse una festa della creatività sociale e non l’incubo della precarietà long life learned.

E poi proprio la crisi della società del lavoro fisso dà senso (come mai prima d’oggi forse) a un sapere di base, critico e problematico, gratuito : formazione alla società più che alle prestazioni professionali. Più scuola ha senso nell’epoca del sapere messo al lavoro, capace di ascolto delle diversità e di lentezza, più unitaria e di base (per non inseguire i nuovi "programmi" in continua evoluzione – ma esserne il sistema operativo, linux non microsoft); una scuola popolata da sempre più donne e ragazze (come ha visto anche l’ultimo rapporto Censis) che lavora per l’autonomia delle biografie nel mare aperto della società esplosa e non per la docilità della nuova forza lavoro agli imperativi categorici della flessibilità; fondata su valore d’uso del sapere e non sul suo precario valore di scambio.

A modo suo, peraltro, sembra ormai che il capitalismo abbia bisogno di rendere "produttive" le nostre teste e i nostri desideri, ben oltre le nostre antiche braccia; liberi dalla catena nei ritmi e nella qualità delle prestazioni, ci portiamo però il lavoro a casa senza limiti di tempo e senza sicurezza. In un certo senso è in gioco la nostra soggettività, da ricondurre sotto il controllo delle forme del lavoro salariato e del consumo telecomandato.

Ma se la sfera economica diventa sempre più totalitaria, pervasiva e colonizzante nelle nostre vite, allora molte sfere dell’esistenza diventano possibili luoghi di resistenza: consumi, stili di vita, sessualità, sensibilità, ricerca religiosa…

Per la scuola potrebbe significare essere al centro di una battaglia culturale che è insieme politica ed economica: quella per fare del sapere un bene pubblico non disponibile, patrimonio collettivo di creatività, produzione di ricchezza non privatizzabile.

C’è bisogno di fare della produzione e trasmissione delle conoscenze un bene comune universalmente accessibile, senza recinzioni o copyright, in luoghi pubblici liberati dal paradigma quantitativo ed economicistico delle conoscenze; spazi costituzionali dove la società educhi se stessa e si riconosca come in sue istituzioni costituenti (senza la cui "immanenza" nessuna norma costituzionale può essere davvero difesa); reti di un mondo comune tessuto dalla molteplicità dei punti di vista: né colonizzato dalla domanda (familistica) di mercato, né ridotto a trasmissione burocratica di una pedagogia di stato, né polverizzato in territori dove ognuno si fa le sue scuole, del quartiere o della ditta.

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