Direzione didattica di Pavone Canavese

04.08.2006

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Ma la Sinistra è pronta a discutere di personalizzazione
di Ermanno Puricelli

 

Timide aperture.
In questa fase estiva di stasi e transizione, spigolando tra i siti e gli interventi su riviste, sembra di cogliere, a "sinistra", qualche timido segnale di apertura rispetto alla questione fondamentale dei piani di studio personalizzati. Su tale tema si registra, tra l’altro, un passaggio isolato, ma molto significativo, di un pezzo da novanta della sinistra, l’ex ministro della P.I. Luigi Berlinguer. In un recente articolo pubblicato su Italia Oggi egli scrive:

"…essendo i tanti molto diversi tra di loro, per curiosità, vocazioni, interessi differenti, al fine di stimolarli e istruirli, tutti, è necessario differenziare i percorsi, e cioè, a monte, le ipotesi culturali. Più percorsi e più culture. Non ci può essere gerarchia fra i saperi, preminenza di un comporto disciplinare sugli altri (che fra l’altro in Italia ha significato sacrificio della cultura scientifica, ma anche di ogni stimolo scolastico alla creatività espressiva). Sostenere il diritto al successo formativo significa innanzitutto autonomia, e quindi autonomia curricolare, percorsi anche personalizzati, centralità studentesca e dell’apprendimento, ruolo essenziale delle scuole e in esse dei docenti."

Per chi, come il sottoscritto, è abituato a frequentare determinate letture pedagogiche, è difficile sottrarsi alla sensazione di trovarsi di fronte ad un brano uscito direttamente dalla penna di Giuseppe Bertagna. Dopo il Bertinotti "personalista", un’altra folgorazione sulla via di Damasco da parte di un marxista? E’ meglio essere cauti nel formulare giudizi. Prima di cedere ai facili entusiasmi, bisognerebbe infatti capire se la cultura istituzionale e scolastica della sinistra, dopo anni di programmata demonizzazione di quanto non coincideva con le proprie idee, è davvero pronta a discutere di personalizzazione in modo culturalmente non supponente o, peggio ancora, semplificatore (come nel caso di chi è demagogicamente abituato a ridurre la personalizzazione a privatizzazione).

La posizione di Berlinguer.
Intanto bisogna riconoscere che la posizione assunta da L. Berlinguer testimonia un coraggio, un’apertura mentale e una saggezza pedagogica che probabilmente gli alieneranno anche qualche simpatia della sua stessa parte politica, anche e soprattutto sindacale. Sono davvero molte le cose che si possono condividere in queste poche righe. E’estremamente significativo che Berlinguer avvii le proprie considerazioni dalla questione delle "differenze" personali, non più pensate, come nella scolastica marxista degli anni settanta, in termini negativi e residuali, ossia come ciò che deve essere eliminato e superato da un’accurata omologazione magari di Stato, in nome di un’astratta "uguaglianza". Con il che, ovviamente, non si intende negare che si diano "differenze" radicate nelle disuguaglianze sociali che dovrebbe essere compito di tutti impegnarsi a rimuovere. Ma, nel momento in cui si parla di "…curiosità, vocazioni, interessi differenti" , allora è chiaro che il tema delle differenze, nell’intervento di Berlinguer, si prospetta in senso positivo: non la differenza da eliminare perché iniqua socialmente, ma la differenza come valore, come carattere ineliminabile della persona da riconoscere e da promuovere. Non è affatto un caso, di conseguenza, che Berlinguer si richiami, conclusivamente, alla centralità del " diritto al successo formativo". Ora, come è noto, il successo formativo non può che essere un diritto circostanziato, individuale e personale: che cosa sia il successo formativo non è una cosa che si possa definire centralmente da parte dello Stato, in astratto e uguale per tutti; ciascuno ha il proprio successo formativo, sostanziato da certe compiutezze e non da altre. Ed è un successo che verte più sui processi che sugli esiti, esiti peraltro sempre provvisori, in una prospettiva di lungo respiro, che rimanda, anche oltre la scuola, al progetto di vita e al long life learning.

A partire dal riconoscimento positivo delle differenze personali e della centralità del diritto al successo formativo, Berlinguer si sbilancia fino a delineare un modello di scuola da strutturare intorno ad alcune idee cardine: la non gerarchizzazione dei saperi come condizione per la differenziazione dei percorsi (finalmente!), l’autonomia curricolare, la centralità studentesca e dell’apprendimento, il ruolo essenziale delle scuola e in esse dei docenti. Si tratta di considerazioni certamente condivisibili.

Nonostante tutte queste importanti aperture, vi è tuttavia un punto in cui il discorso diventa, a mio avviso, ambiguo e sfuggente, ed è precisamente nel momento in cui l’ex Ministro parla della possibilità di "percorsi anche personalizzati". L’ anche concessivo potrebbe sembrare un nonnulla, in realtà è un segnale indicativo delle difficoltà con cui la "sinistra" più disponibile al confronto si sta accostando al tema della personalizzazione. Perché parlare riduttivamente di percorsi "anche" personalizzati? Dopo tutto il discorso che precede, che mette al centro il diritto al successo formativo, si avverte come una resistenza a compiere l’ultimo passo. Di che si tratta? Il punto è che Berlinguer muove da premesse culturali che gli impediscono di pensare alla personalizzazione, se non in modo strumentale e residuale. Dopo aver detto della necessità di "differenziare i percorsi, e cioè, a monte, le ipotesi culturali" (il che poi vuol dire dare pari dignità ai licei e all’istruzione e formazione professionale!) e aver parlato di "autonomia curricolare" (il che poi vuol dire che deve essere la scuola, con la professionalità dei suoi docenti, a trovare i modi più liberi per assicurare la pari dignità in questione), la personalizzazione non può che apparirgli come uno degli strumenti per rendere possibile la differenziazione dei percorsi. Più esattamente: la personalizzazione è letta come la forma più estrema della differenziazione, a cui si può ricorrere, appunto concessivamente, in particolari casi, per garantire a tutti il successo formativo.

La posizione dell’Andis.
Per comprendere meglio la natura della resistenza che impedisce a Berlinguer di trarre le debite conseguenze dalle sue stesse riflessioni, può essere interessante leggere un breve passaggio, pubblicati sul Bollettino on line dei DS "Scuola/formazione n. 73, luglio ‘06", tratto da un documento dell’ANDIS , "L’ANDIS sulla riforma del ciclo secondario superiore":

"…personalizzare", così come nella migliore tradizione pedagogica, non vuol dire "differenziare" gli obiettivi dell’apprendimento, ma individualizzare i percorsi per il loro perseguimento."

Come già in Berlinguer, anche qui la personalizzazione è intesa come modalità/strumento per differenziare/individualizzare i percorsi, ma in più viene posto un preciso vincolo: va bene la personalizzazione dei percorsi, ma le mete ("gli obiettivi di apprendimento") devono essere uguali per tutti. Ecco il vero nodo del problema: con una evidente contraddizione, la personalizzazione, ossia il percorso di trasformazione delle diverse potenzialità personali di ciascuno nelle sue reali competenze culturali e di vita, diventa una modalità per promuovere l’uguaglianza. Altro che differenze personali come valore da promuovere, nell’ottica del successo formativo per tutti! Affermazioni come queste lasciano intuire come l’ostacolo culturale, che impedisce la comprensione del senso vero della personalizzazione, sia da ricercare nel "mito fondante" del modello di scuola che la "sinistra" ha in mente: l’egualitarismo, eventualmente in salsa classista, che guarda con sospetto le differenze e le considera come qualcosa da imbrigliare e poi appiattire proprio tramite la scuola. Un egualitarismo che ha trasformato la scuola in una sorta di letto di Procuste, con il compito di allungare chi è corto (cosa alquanto problematica) e ridurre chi è lungo (cosa che invece funziona benissimo) riducendo tutti ad una misura media; il che non soddisfa nessuno e scontenta tutti.

L’ideologia e la retorica egualitarista, da distinguersi beninteso da un sano e sacrosanto principio di uguaglianza, come è presente nella nostra Costituzione (art. 3), trova la sua compiuta espressione nella metafora pedagogica del percorso, scandito da traguardi e mete e, adesso, sempre più, anche dai relativi standard di prestazione. Una metafora che può essere declinata in diversi modi, a seconda della disponibilità a tollerare e accettare le differenze.

- Se vivessimo in una mitica età dell’oro, non importa se collocata all’inizio o alla fine della storia, tutti gli studenti potrebbero compiere lo stesso percorso, per raggiungere la stessa meta, con gli stessi risultati o esiti , per di più nello stesso tempo scolastico (vista la rigidità degli orari e dei piani di studio nelle scuole secondarie!), con gli stessi strumenti (libri di testo), con la stessa organizzazione dell’insegnamento (le famose e intoccabili classi!), con le stesse regole di assegnazione dei docenti pescati da graduatorie che guardano più agli interessi dei docenti che alle specifiche esigenze degli studenti; in questo caso si avrebbe il massimo di uguaglianza (di meta, di percorso e di esiti), con una riduzione al minimo delle differenze.

- Purtroppo viviamo solo nel migliore dei mondi possibili, a voler credere a Leibniz, e forse neppure in quello, perciò finora ci siamo sempre dovuti accontentare del Tour de France: è importante che tutti facciano lo stesso percorso e raggiungano gli stessi traguardi; pazienza poi se gli esiti sono diversi e si debbano accettare quote più o meno consistenti di "insuccesso formativo" o che qualcuno arrivi fuori tempo massimo. Bene, vorrà di dire che questi sfortunati saranno destinati a lavori poveri e di scarsa o nulla responsabilità!

- Oggi però, ci spiegano Berlinguer e l’ANDIS, nell’ottica del successo formativo, si può ragionare sull’ipotesi di percorsi "anche" personalizzati ma convergenti: c’è disponibilità ad accettare la differenziazione dei percorsi, purché non si tocchi però il tabù dell’uguaglianza assoluta dei traguardi e delle mete che proprio per questo andrebbero addirittura definite in termini di standard di prestazione molto dettagliati più che di obiettivi di apprendimento intesi, come vuole la Costituzione, come ‘norme generali sull’istruzione’ che l’autonomia professionale dei docenti e della scuola si incaricherebbe poi di ‘personalizzare’. Non importa poi se alcuni alunni partono da Arezzo, altri da Bari o da Cagliari, l’importante è che tutti, con i tempi e i modi propri, arrivino a Roma. E’ questo ciò che Berlinguer e l’Andis chiamano personalizzazione.

Si tratta, indubbiamente, di una soluzione che sembra coniugare e salvaguardare le ragioni della diversità e quelle dell’uguaglianza. Peccato però che sia solo una soluzione metaforica. La fallacia di questa metafora è da individuare, a mio parere, nel fatto che il traguardo e la meta sono pensati come una variabile indipendente rispetto al percorso: qualcosa di neutro, di sussistente in sé e di estrinseco, un’astrazione valida erga omnes. Se questo può essere vero, in qualche misura, per i percorsi spaziali non lo è mai per le mete educative. In questa prospettiva la meta e gli esiti non sono separabili dai processi: a processi diversi corrispondono esiti diversi e mete diverse. Esperienze diverse danno esiti diversi. Per giungere alla stessa meta bisogna paradossalmente non solo fare le stesse esperienze, ma anche essere la stessa persona, perché, in realtà, le stesse esperienze fatte da persone diverse sono esperienze tra loro molto diverse. Ma è chiaro che, dicendo questo, ci stiamo impegnando a discutere nei termini ed entro i confini di una metafora che, in realtà, è sostanzialmente estranea alla logica della personalizzazione. E’ forse il caso, per parlare adeguatamente di personalizzazione, di decidersi ad abbandonare questo geometrico armamentario di percorsi, mete, standard, per pensare ad altre similitudini.

Il senso reale della personalizzazione.
Dunque, Berlinguer e l’ANDIS sembrano accettare l’ipotesi della personalizzazione, ma solo come strumento e modalità per differenziare i percorsi che portano agli stessi traguardi definiti addirittura in termini di prestazioni standard. Ma, se questo è ciò che la sinistra intende per personalizzazione, è chiaro che la distanza culturale da colmare per approdare ad una discussione proficua è notevole. Nei documenti della riforma, in effetti, i termini della questione si presentano in modo rovesciato: non è la personalizzazione ad essere una modalità della differenziazione dei percorsi, ma, al contrario, è la differenziazione ad essere uno strumento al servizio della personalizzazione. Che cosa si deve intendere, allora, correttamente per personalizzazione? Non si può comprendere che cosa sia la personalizzazione se non si parte dalla centralità del concetto di persona. L’ipotesi pedagogica personalista, sottesa alla cosiddetta riforma Moratti, non può accettare di fondare il proprio modello di scuola sul postulato ideologico dell’egualitarismo, da declinare mediante la metafora del percorso e dei traguardi standard. Preferisce assumere come fondamento per la scuola del terzo millennio, non un’ideologia, ma un valore universale, la persona umana, ed un dato incontrovertibile, le differenze tra le persone, intese come potenzialità, ricchezza e valore da promuovere, e non come limite. E’ chiaro che qui non si sta parlando delle "differenze seconde", indotte dal contesto socio-culturale di provenienza, rispetto alle quali giustamente si deve far valere il principio di uguaglianza nell’accesso alla cultura; si sta parlando, invece, delle "differenze prime", positive e costitutive della persona, nel senso in cui ne parla pure l’ex ministro Berlinguer:

"…essendo i tanti molto diversi tra di loro, per curiosità, vocazioni, interessi differenti, al fine di stimolarli e istruirli, tutti, è necessario differenziare i percorsi, e cioè, a monte, le ipotesi culturali."

Se la persona è, nella sua essenza, differenza intrinseca ed ineliminabile, si vorrebbe quasi dire ontologica, che precede qualsiasi "differenza seconda" determinata dal contesto socio - culturale di provenienza, ne consegue che la scuola, se vuole essere all’altezza dei problemi, non può non tenerne conto. I piani di studio personalizzati, in questa prospettiva, sono un tale impegno e una tale responsabilità professionale che questa parola non avrebbe mai dovuto essere pronunciata, ma nel momento in cui questo è accaduto non è più possibile tornare indietro. Una scuola che non accetti l’altezza di questa sfida è una scuola infatti che vuole mantenersi vecchia. La personalizzazione non è un espediente didattico, è piuttosto l’ipotesi fondante del modello di scuola con cui ci si dovrebbe confrontare soprattutto oggi, società della conoscenza, di internet, della globalizzazione e della multicultura che rende di per sé sempre personali e mai astrattamente omologabili qualsiasi percorso di formazione.

Siamo partiti da una domanda: Ma la sinistra è pronta a discutere di personalizzazione?

È pronta, mi pare, se è disposta ad abbandonare un modello di scuola, centrato sul tabù dell’egualitarismo ideologico, che ha occhi soltanto per le "differenze seconde" da rimuovere e non riesce a cogliere l’importanza delle "differenze prime" da valorizzare; è pronta se è disposta a riconoscere il diritto primario alla realizzazione delle differenze personali, senza diffidenze pregiudiziali nei loro confronti; è pronta se è disposta a ragionare sul paradigma di una scuola che metta al centro le "differenze prime" da riconoscere, da rispettare e da valorizzare. In altri termini, è pronta se aderisce al principio che ciò che è stato fatto per i diversamente abili deve essere fatto per tutti. Scopo primario della scuola non può essere quello di utilizzare la cultura per rimuovere le differenze; si tratta semmai di utilizzare la cultura per favorire la scoperta e la valorizzazione delle diverse potenzialità di ciascuno, affinché si trasformino nelle reali competenze personali di ciascuno al servizio di tutti. E’ questo il senso della personalizzazione su cui mi pare di non vedere discussione.

Ovviamente questo non esclude (salvo che nelle accuse polemiche di alcuni stravaganti ‘poveri di spirito’) che la personalizzazione debba essere compatibile con il raggiungimento di competenze comuni. Basterebbe leggere il Profilo educativo, culturale e professionale del I e del II ciclo per verificarlo, ad esempio. Anzi, di più: la personalizzazione non è tanto compatibile con questo risultato, ma ne è la condizione necessaria. Ne è la condizione necessaria perché solo avvalorando le capacità personali di ciascuno si può sperare di affermare quanto è comune ad ogni persona umana. E questo ‘comune’ che non può essere ridotto soltanto alla uguale dignità, ma si estende per forza anche alla uguale volontà di ciascuno di vivere bene, di parlare, di essere attivi nel gruppo e nella società, di giudicare, di non sbagliare la propria vita ecc. Perché bisogna pensare che qualcuno non voglia tutto questo e non sia in gradi di impegnarsi per farlo accadere? Non è un modo per confermare una profonda sfiducia nelle persone e per affermare il solito diritto di qualcuno a decidere che cose sia bene per un’altro senza coinvolgere l’altro in questa definizione che lo riguarda? Cosa ancora più grave se questo potere sostitutivo è fatto non più da una persona in carne ed ossa, un educatore concreto, a cui si può sempre rimproverare l’errore o contro la quale si possono sempre far valere le proprie ragioni, ma è fatto da una persona giuridica come lo Stato che per forza di cose burocratizza la questione e la sottrae alla relazione e alla responsabilità interpersonale, per renderla programmaticamente impersonale.

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