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I problemi della valutazione dopo la legge 169

23.02.2014

 

La valutazione delle scuole e la dimensione economica dell’autonomia.
di Franco De Anna

Nelle pagine di questa rubrica abbondano contributi più o meno approfonditi sulle “maglie”, variamente larghe e strette, che danno forma al Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione. Schierati su diverse opinioni (come deve essere), e su di essi non voglio tornare.
Mi limito (e il motivo si comprenderà nel seguito) a rammentare un richiamo che feci commentando una intervista a Mariangela Bastico: la valutazione condotta al livello delle Istituzioni Scolastiche autonome (le unità operative del “sistema” e i “produttori finali” del servizio di cittadinanza che operano a stretto e diretto rapporto con i cittadini), ha certamente senso proprio, strumenti e protocolli propri, autonomia di tecniche e misurazioni, ma costituisce solo un “segmento di senso” lungo una catena valutativa che dalla singola unità operativa risale alla valutazione della politica pubblica posta in essere nel sistema. Evidenziavo almeno cinque step lungo quella catena di valutazione (ma il numero si può discutere) sottolineando però che ciascuno di essi forniva di senso pieno agli esiti valutativi del livello immediatamente sottostante sotto il profilo “gerarchico”.

La valutazione di efficienza ed efficacia nella esecuzione di un programma/progetto (livello 5) trova significati esaurienti nella valutazione dell’impatto e degli effetti (livello 4); quest’ultima reperisce significazione piena dalla valutazione del processo e della implementazione del programma (livello 3), che a sua volta è pienamente significativa se rapportata alla valutazione della “teoria” (interpretazioni, priorità, individuazione degli strumenti coerenti) che è sottesa al programma di politica pubblica (livello 2) e infine il programma stesso deve essere valutato in relazione ai bisogni ai quali si intende rispondere con la stessa politica pubblica (livello 1).

L’attenzione del dibattito sulla valutazione sembra essere sequestrata e concentrata sostanzialmente sui livelli 5 e 4.  Il livello 3 è assai poco frequentato ed esplorato con tecniche e protocolli valutativi esaurienti (e sarebbe il terreno proprio dell’azione amministrativa). Il livello 1 e 2 sono terreno del semplice (!?) “confronto e conflitto” politico (con buona pace del ricorso a cosidetti “tecnici”).
Il cortocircuito politico della valutazione a livello della politica pubblica implica due conseguenze negative: si alimenta in tale modo un confronto di politica-politicata i cui argomenti sono rudimentali, approssimativi, capaci di nutrire con simmetrica efficacia consensi collusi o rabbiose frustrazioni, ma incapaci di costruire soluzioni alternative. Parimenti e specularmene si convalida una antica tradizione nazionale che sottrae la responsabilità amministrativa (quella della implementazione di programmi, di alternative di efficacia ed efficienza, di misurazioni e valutazioni di convenienze, a “parità di politiche”) dalla valutazione stessa e dalle rendicontazione. Insomma il “compromesso conservativo” tra politica ed amministrazione.

L’esplorazione solo parziale della catena valutativa, la sua disarticolazione, producono cioè effetti molteplici, alcuni dei quali si misurano, anche tecnicamente, sulla insufficienza interna del “sistema valutativo”, altri si riflettono in deformazioni dello stesso dibattito politico che spesso ne rimane prigioniero.

Quanto al primo aspetto sarebbe sufficiente rammentare quanti “progetti” dichiaratamente innovativi (spesso ornati di aggettivazione “epocale”), falliscono per insufficienza e inadeguatezza di strumenti di implementazione e mortificati entro regole di processo obsolete, e conducono a risultati nulli se non addirittura opposti a quelli dichiarati (mezzi non corrispondenti ai fini e fini non corrispondenti ai mezzi costituiscono la mortificazione di qualunque istanza programmatica, a prescindere dalla sensatezza “politica” della sue intenzioni).

Quanto al secondo aspetto, la non estensione della catena valutativa lungo tutta la sua ampiezza, ne limita alla radice la (sempre) difficile “accettabilità sociale” (la valutazione mette sempre capo a relazioni asimmetriche: una condizione per rielaborarne il conflitto latente è quella rappresentata dal “tutti sono valutati”)
Se la catena valutativa è parziale e interrotta si darà corpo o al conflitto teso a riversare verso l’esterno le ragioni delle eventuali opposizioni o a innescare comportamenti opportunistici che comunque mandano “fuori bersaglio” la valutazione stessa. E anche di tali effetti abbiamo numerosi esempi nelle discussioni sorte sul Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione.

Vorrei, in questo contributo, mostrare gli effetti della interruzione e segmentazione della filiera valutativa con un esempio concreto, tratto dall’esperienza sul campo, relativa alla valutazione delle scuole, la cui sperimentazione è in corso (progetto VALES e Valutazione e Miglioramento).

Mi sono infatti personalmente opposto a “cordate” e istanze di “fase costituente” dell’INVALSI (il dibattito su queste pagine ne porta memoria). Ho scelto di “valutare” sul campo, partecipando alla sperimentazione.
Naturalmente confido che vi sarà, al suo termine, la possibilità di una approfondita valutazione della “politica pubblica di valutazione” realizzata in tale sperimentazione, in modo da procedere a correzioni, rinforzi, modificazioni (vedi considerazioni precedenti).
Ma azzardo, almeno per un aspetto particolare, qualche riflessione fin d’ora.

L’oggetto è rappresentato da una delle “aree” di valutazione comprese nel protocollo sperimentale: quella relativa alla “Gestione strategica delle risorse” da parte dell’istituzione scolastica autonoma.
Come si comprenderà si tratta di una area di valutazione assolutamente essenziale quando l’oggetto sia una “organizzazione”: la gestione delle risorse non è solo “calcolo e quantità” ma porta traccia profonda delle priorità operative, dei percorsi decisionali caratteristici di quella organizzazione, della composizione degli equilibri interni, delle “convenienze” e delle “propensioni”, insomma della “cultura organizzativa” messa in campo dal “produttore” del servizio di cittadinanza; ma anche del rapporto con i cittadini, esplorato nelle due dimensioni del consenso e della rendicontazione.
Chiedo scusa ai miei men di 25 lettori se adotto come spunto di analisi proprio quello dello sguardo di un cittadino (un genitore per esempio, ma non necessariamente) che voglia misurarsi con il funzionamento di un “ente pubblico” che rappresenta il suo interlocutore diretto nella fruizione di un diritto fondamentale come quello di istruzione. Molto di ciò che segue è noto (tristemente) a tanti Dirigenti Scolastici. Meno a gran parte del “popolo della scuola” costituito da docenti, studenti, genitori.
Doverosamente l’analisi  di un interlocutore “esterno” inizia dal Bilancio (il Programma annuale per la scuola), e da qui non può che inanellare una serie di considerazioni/domande.

1.      I bilanci delle scuole hanno avanzi di amministrazione che rappresentano la parte  consistente delle Entrate. (In quelle che ho visitato come valutatore in questa sperimentazione, gli avanzi di amministrazione rappresentano mediamente circa la metà delle Entrate dichiarate in bilancio).
Il cittadino “esterno” (!?) sarà portato a chiedersi da dove origina ciò, e quanto sia giustificato, a fronte di tale avanzo di amministrazione, il fatto che, come genitore, gli venga richiesto di contribuire con erogazione volontaria al Bilancio stesso.
Gli verrà spiegato, prima di tutto, che almeno una parte di tale situazione è effetto della non corrispondenza tra annualità finanziaria (solare) e “ciclo di produzione” di questa particolare impresa che è invece legato all’anno scolastico. Qualche “tecnico” più informato gli spiegherà anche che non si tratta di un “comandamento” scritto in qualche decalogo intoccabile, ma di una scelta del legislatore, compiuta negli anni ’60. Da un punto di vista di principio nulla ostacolerebbe una rendicontazione effettuata rispettando il “ciclo di produzione”.
Ma (il nostro è pignolo..) se confrontasse una serie storica sufficientemente ampia, si accorgerebbe che una parte più che consistente di tale avanzo di amministrazione si trascina di annualità in annualità: dunque vi devono essere spiegazioni diverse, e non solo quella indicata.

2.      Se rivolge lo sguardo alle Uscite, si accorge che a garantire il pareggio di bilancio è posto un aggregato (Z01) che copre un importo in larga parte corrispondente a tale avanzo di amministrazione e che è etichettato come “Disponibilità finanziarie da programmare”.
Naturalmente la perplessità  iniziale sul fondamento della richiesta che gli viene fatta di dare un contributo volontario si rafforza. Deve forse contribuire alle risorse di una “impresa” che risulta non in grado di coprirle da programmazione adeguata?
Chiederà di dare una occhiata da vicino a ciò che compare come una etichetta onnicomprensiva. Se ne avrà la pazienza scoprirà che l’aggregato, con etichetta impropria e “deviante” è costituito soprattutto da una lunghissima serie di crediti, spesso risalenti a molti anni addietro. Nel dettaglio troverà soprattutto risorse di fonte ministeriale (supplenze, Fondo di Istituto, compensi per le commissioni di esame, ecc..) attese da molti anni.
Sono crediti che, dato il tempo spesso trascorso, dovrebbero essere considerati inesigibili. Dovrebbero essere “radiati” per poter pervenire ad un bilancio trasparente e veritiero.
Giacciono in un aggregato che, per la stessa etichetta che lo classifica (Disponibilità da programmare) rappresenta un “trucco contabile” che porta con sé una aggravante: non lo mette in campo uno spregiudicato Dirigente Scolastico, ma la stessa autorità che dovrebbe garantire l’autenticità e trasparenza del Bilancio. Insomma il “superiore Ministero vigilante” come si diceva un tempo. Lo stesso che, per altro, sta promuovendo la sperimentazione della valutazione delle scuole ( e che accenna autorevolmente alla necessità di accedere a forme di “rendicontazione sociale”). Occorre, per trovare “ragioni” risalire (non solo temporalmente) la filiera valutativa.

3.      Nel lontano 2004 la Corte dei Conti pubblicò un Rapporto sugli elementi contabili e finanziari del processo di costruzione dell’autonomia scolastica. Commentando quel rapporto (Franco De Anna “Corte dei Conti e Autonomia: vischiosità delle erogazioni e ruolo dei residui” in RAS- Rassegna dell’Autonomia Scolastica – 12/04) riportavo una tabella che quantificava i residui che allora si sedimentavano nel trasferimento di risorse dal MIUR alle scuole, via USR e USP. Se ne perdeva mediamente il 25%, in particolare nella allora “contabilità speciale” presso gli USP. Una perdita lungo il trasferimento ben più consistente di qualunque “taglio di spesa” deciso dalla “politica”.
Ricordo ciò per due ragioni. La prima è che rileggere quel rapporto a dieci anni di distanza è molto istruttivo: vi sono elencate tutte le problematiche che, irrisolte, hanno caratterizzato il decennio di arretramento dell’autonomia, con gli esiti che oggi abbiamo di fronte.
Che cosa abbia caratterizzato la “politica pubblica” nella scuola, ma anche la dialettica politica a volte accesa sulla scuola è difficile dire: sembra che tutti –chi governava e si opponeva e chi si oppone e governava – abbiano “parlato d’altro”.
Compreso l’acceso dibattito sulla insufficienza degli investimenti, ma lasciando molto nell’ombra l’efficienza delle modalità di allocazione.
La seconda ragione è molto contingente: il sistema di trasferimento delle risorse dal MIUR alle scuole è mutato in questi anni. Ma ancora oggi nei residui dell’aggregato Z01 ho trovato risorse risalenti al ruolo degli USP. Ciò significa che la stessa modificazione del sistema dei trasferimenti ha lasciato i “residui” del sistema precedente, non assumendone il risanamento come impegno iniziale di una “nuova stagione”.
Si tratta di una rappresentazione esemplare della necessità di percorrere per intiero la filiera valutativa se alla valutazione si reperire semantica piena al termine “valutare”.
Il valutatore “scrupoloso” si trova infatti di fronte ad un oggetto di valutazione complesso.

a.       Un dirigente Pubblico che ha la responsabilità finale della gestione di un Ente Pubblico dotato di autonomia funzionale elabora, e se ne assume la responsabilità diretta, un Bilancio, inappuntabile sotto il profilo formale, ma nel quale il pareggio viene ottenuto attraverso un “trucco contabile” che ne appanna drasticamente la veridicità e la trasparenza (regole fondamentali del Bilancio Pubblico). Gli organi di gestione e di controllo dell’Ente, dal Consiglio di Istituto ai revisori dei Conti sottoscrivono. La comunità professionale non eccepisce.
Naturalmente è di consolazione non sia possibile che qualche dirigente spregiudicato utilizzi tali entrate anomalmente dilatate per trasformarle in prodotti finanziari derivati, ad alto rendimento e a rischio ancora più alto. Le scuole non sono per fortuna altrettanti Monti dei Paschi….
Ma – forse mi son perso qualche cosa? – tutto ciò non è mai stato oggetto di scontro e mobilitazione politico-sindacale.

b.      Per trovare ragione di tutto ciò occorre risalire di un passo la filiera valutativa, e sotto il profilo “tecnico”. Infatti “buttarla in politica” è scorciatoia di comodo. Ho citato la composizione dell’aggregato Z01 (con la sua etichetta di semantica deviante) non a caso. Si rintracciano qui responsabilità operative che riguardano l’Amministrazione ed il suo funzionamento, ma anche “nomi e cognomi” di dirigenti pubblici (da USR a USP) che hanno presieduto alla filiera dei trasferimenti di risorse. Da chi dipendeva l’efficienza e l’efficacia dei trasferimenti? Come è stata valutata la loro opera? Chi ha inventato e avvalorato il trucco contabile?

c.       Il passo successivo: le regole di funzionamento dell’economia del sistema di istruzione sono adeguate agli obiettivi dichiarati del sistema dell’autonomia? L’adattamento delle regole della contabilità dello Stato alla condizione specifica delle Istituzioni scolastiche autonome è appropriato? (In teoria il Regolamento Contabile e Finanziario avrebbe dovuto essere oggetto di “sperimentazione”). Questione complessa da trattare qui esaurientemente. Faccio solo un esempio che sta acquistando significato pregnante mano a mano che acquista rilevanza il finanziamento ottenuto da contributi esterni (famiglie, privati, Enti locali..).
Si rivela sempre più inappropriato applicare a tali finanziamenti le regole di rendicontazione del Bilancio pubblico, il suo carattere “finanziario” e non economico, i vincoli formali che dovrebbero garantirne la regolazione. La “configurazione” istituzionale di quel particolare “ente pubblico” (e già tale definizione sarebbe da assumere come problematica: vi sono alternative possibili) rappresentato dalla “scuola autonoma” è adeguato, pertinente, coerente alla produzione del servizio pubblico dell’istruzione?

d.      Infine l’ultimo gradino della filiera valutativa. L’insieme delle regole contabili, dei meccanismi di finanziamento delle scuole, tutto ciò che dà carattere alla “politica pubblica” che presiede alla economia del sistema di istruzione a quale interpretazione del “bene pubblico” (riferito al diritto fondamentale dell’istruzione) si ispira?
Le misure economiche di “politica pubblica” dell’istruzione seguite in questo decennio  rispondono al “bene pubblico” individuato nella autonomia delle istituzioni scolastiche? (costituzionalmente riconosciuto, per altro)
Difficile sottrarsi alla interpretazione (ma questa è già una conclusione personale) che il “combinato disposto” di regole contabili, meccanismi di trasferimento delle risorse, regole di spesa e di rendicontazione, trucchi contabili, segmentazioni delle responsabilità, si configuri come una strategia di contenimento e di mortificazione dell’autonomia scolastica, alla quale la limitazione quantitativa delle risorse fornisce un drammatico e disperante ingrediente ulteriore.
Pongo volutamente questo ingrediente per ultimo anche se nella polemica corrente sembra sempre avere il ruolo di “argomento fondamentale”. La limitazione delle risorse pubbliche è in realtà un ingrediente aggiuntivo i cui effetti diventano devastanti nel momento in cui si sommano alle scelte di amministrazione e politica pubblica esaminate e che dovrebbero essere innanzi tutto “oggetti di valutazione” a completare la filiera.

Da questo livello può e deve muovere la “critica politica”, per ripercorrere all’inverso il circuito. Come già sottolineato, il dibattito politico, non alimentato dai dati di valutazione riscontrabili sull’intera filiera risulta inappropriato, scarsamente significativo, ambiguo e “buono è per tutte le stagioni” e gli interessi. In particolare è scarsamente in grado di porre l’attenzione dovuta sui meccanismi più propriamente amministrativi e sulle responsabilità connesse, anche al servizio di opzioni politiche apparentemente diversificate. Un confronto politico che si nutre di rabbiose frustrazioni e di insufficienti consapevolezze. Ma qui la mia argomentazione cessa e diventerebbe altro rispetto a questo contributo.

Vorrei invece, a completamento, aggiungere alcune considerazioni che assumono carattere di corollari all’esperienza valutativa descritta.

1.      Il MIUR ha introdotto, in nome della trasparenza un nuovo documento che si presenta (potenza del richiamo…) come un fascicolo denominato “Scuola in chiaro”. (E’ stato assunto dall’INVALSI come documento fondamentale per procedere alla valutazione dell’organizzazione scolastica). Lodevole intenzione, ma..
In esso sono riportate le risorse economiche per grandi aggregati. Per dare una immagine trasparente di quali siano effettivamente le risorse operative disponibili alla scuola (quelle che dovrebbero essere oggetto di valutazione) occorre un lavoro non semplice di indicizzazione e di analisi. Per esempio nelle risorse di fonte statale sono comprese quelle riferite agli stipendi del personale. Ciò rappresenta certamente un dato importante: ho sempre sostenuto, discutendo di Bilancio Sociale, la necessità che una scuola presentasse ai cittadini di riferimento anche questo dato, capace di far comprendere quale concentrato di risorse, quale “capitale sociale” è rappresentato da una scuola per la comunità locale di riferimento. Ma certo se tale dato viene cumulato agli altri stanziamenti appanna ed oscura la consistenza delle effettive risorse operative, gestibili direttamente dalla scuola. ( E sulla gestione delle quali effettuare la valutazione di livello 4 e 5..)
Per grandi aggregati sono riportate anche le risorse di altra provenienza (famiglie, privati, Enti Locali). I livelli di significatività sono spesso più che opachi. Vi sono scuole che gestiscono in proprio gli appalti delle mense. Apparentemente hanno entrate formidabili provenienti da Regione e Comune. In altre Regioni vi sono contributi significativi messi a disposizione della progettazione della scuola, e in altre ancora vi sono fondi europei che però hanno gestione, destinazione e regole di spesa tutt’altro che confrontabili.
Da questo punto di vista “Scuola in chiaro” è tutt’altro che chiaro. E’ un dettaglio tecnico? Il suo carattere informativo è più che ambiguo: da un lato ”mostra” quale grande aggregato di risorse pubbliche operi in ogni scuola; dall’altro conferma la “esilità”, fino alla ininfluenza, delle scelte operative dell’autonomia. Il messaggio trasmesso sembra confermare in modo implicito la “teoria” riduttiva dell’autonomia che ispira la politica pubblica come indicato precedentemente. (Anche se le parole che la accompagnano spesso predicano il contrario..)
Aggiungo che la grande parte delle informazioni contenute nel fascicolo provengono dalla scuola stessa. Ma il fascicolo è prodotto dal Ministero, in una sorta di “supplenza superiore”. Il messaggio implicito mi sembra confermare la mortificazione del ruolo dell’autonomia e della autonoma capacità di controllo di gestione della istituzione scolastica.

2.      In sintonia con le considerazioni di cui sopra si muove il processo di estensione alla scuola delle applicazioni delle norme sulla trasparenza della Pubblica Amministrazione. La norma indica l’insieme delle informazioni e dei servizi all’utenza che un ente pubblico dovrebbe garantire per esempio on line nella architettura e nel contenuto del proprio sito.
La scelta operativa sembra muoversi verso la “omologazione” totale dei siti delle scuole. Dunque una scelta “amministrativa” che non si esprime attraverso la determinazione dei  vincoli delle informazioni e dei servizi che “non è possibile non fornire”, lasciando alla specificità, creatività, progettualità della scuola l’architettura del sito, ma al contrario la generalizzazione di un unico “stampo” cui conformare il servizio. E’ sufficiente un giro panoramico tra i siti scolastici per rendersi conto. E’ un aspetto “simbolico”? Forse, ma .. appunto, schiude a valutazioni che si misurano con le interpretazioni amministrative e di gestione e implementazione della politica pubblica.

3.      La stretta quantitativa sulle risorse trasferite alle scuole (Fondo di Istituto, Miglioramento dell’Offerta Formativa…) come misura legata alla politica di risparmio della spesa pubblica costituisce, all’occhio tecnico del valutatore, un “dato” (ne avrà ovviamente una opinione politica, e credo sia inutile dichiarare la mia in questa sede…).
Ma il suo “combinato” (ricordato in precedenza) con misure che investono modelli di trasferimento, regole di spesa e meccanismi di rendicontazione, modifica radicalmente la stessa “filosofia “ della valutazione.
Il protocollo valutativo per organizzazioni che sono caratterizzate da una “gestione per progetti” (Management by objectives) è diverso “tecnicamente e scientificamente” da un protocollo adeguato a organizzazioni caratterizzate da “gestione per procedure”.
Non vi è “fisiologia” tra contenimento delle risorse e modello di gestione: in teoria il contenimento della spesa potrebbe coniugarsi con una “liberazione” da vincoli procedurali più stretti, cioè con un grado di autonomia più elevato. La combinazione delle due “strette”, non è obbligata, ma effetto di una scelta di strategia pubblica che limita il carattere progettuale della produzione del servizio di istruzione. E’ dunque oggetto di “valutazione” tecnica sulle modalità di implementazione di una politica pubblica.
La discussione meriterebbe ovviamente più ampio spazio di quanto qui possibile. Mi limito ad una battuta: non c’è effettiva “spending review” se non mettendola in capo alla responsabilità gestionale caratterizzata da autonomia operativa, capace di intervenire sulla composizione micro degli elementi di strategia delle risorse di una organizzazione. In alternativa vi è solo la dimensione cieca del taglio macro.
Mi pare di poter dire, esiti valutativi alla mano (ma la mia conclusione dovrebbe essere confortata dall’esito della stessa sperimentazione in atto) che nella scuola stia accadendo il contrario di un effettivo controllo della spesa, e non per meccanico effetto della limitazione quantitativa, ma per il carattere della implementazione della “politica pubblica”.
Vale ovviamente anche l’affermazione speculare: non è sufficiente dilatare la spesa per sviluppare l’autonomia. Ma qui l’interrogativo diventa squisitamente politico: lo sviluppo dell’autonomia è considerato un bene cui deve provvedere la politica pubblica dell’istruzione?

4.      Il protocollo valutativo messo a punto dall’INVALSI ha, rispetto al nucleo di tali questioni un approccio solo iniziale. La valutazione del raccordo tra politica delle risorse e determinazione strategica dell’organizzazione scolastica (progettazione, offerta formativa, politica del personale) è condotta secondo parametri esili (per esempio sulla base della indicazione dei tre progetti ritenuti più importanti dalla scuola stessa… il che lascia in gran parte in pregiudicato il rapporto tra il complesso della spesa e la progettazione stessa).
Il “mandato” del Ministero è, in origine, caratterizzato dal ritenere gli aspetti economici “non significativamente pertinenti” al disegno valutativo e esauribili invece nella funzione di vigilanza e controllo assunte dal Ministro stesso.
Non posso perciò non considerare che, sotto il profilo strettamente scientifico, tale limitazione rappresenta una sostanziale debolezza e che essa contrasta con l’esplorazione estesa della filiera valutativa, come più volte indicato: quella “limitazione” è infatti coerente con un modello dell’autonomia, della sua podestà progettuale, economica, negoziale fortemente compresso. Se tale è il disegno, ovviamente la rilevanza valutativa di tali aspetti si riduce.
Congiuntamente, ma è una malizia, si riduce il possibile fall out valutativo trasferito dalla singola scuola ai livelli superiori del procedere amministrativo e della determinazione della politica pubblica. Non tutti sono valutati….  E ciò mentre da parte di alcuni, viene invece  giustamente enfatizzata le prospettiva della rendicontazione sociale come coronamento di senso dell’azione di autovalutazione e valutazione delle organizzazioni scolastiche (si vedano convegni ed autorevoli interventi).
Sarei assolutamente ingeneroso ad attribuire ai colleghi dell’INVALSI la responsabilità primaria di tale esilità del protocollo valutativo: nel Comitato Tecnico Scientifico del progetto sperimentale vi sono invece competenze e sensibilità rilevanti (economiche, sociologiche, gestionali, spesso anzi ritenute “improprie” in certo dibattito politico) rispetto a tali problematiche.

Non posso non concludere queste mie note facendo proprio appello a quelle sensibilità e competenze perché si proceda, conclusa la sperimentazione attuale, ad una più efficace messa a punto del protocollo relativo a tale area di valutazione.

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