25.07.2012
Più
valutazione, meno valutazione o diversa valutazione
di Franco De Anna
Prendo solo spunto dal dibattito su queste pagine dedicato al nuovo rapporto INVALSI sulle rilevazioni degli apprendimenti 2012, e perciò dedico solo rapidamente alcuni commenti ad esso.
1.
Sono quasi totalmente d’accordo con
Stefanel, in particolare
su quanto afferma circa la pertinenza del “mescolare” (almeno per quanto può
derivare dal “mettere insieme” nella medesima pubblicazione le serie
diverse di dati) rilevazioni degli apprendimenti e esami di terza media.
La scelta di individuare una “prova nazionale”, e ciò vale per ogni ordine
di scuola, può e deve essere discussa, come discusse devono essere le sue
caratteristiche e contenuti; è certamente una buona fonte di dati; ma non
può essere confusa o rischiare di esserlo con le rilevazioni, pena l’aumento
della confusione tra “valutazione” e “rilevazione”, che suscita tante
reazioni di incomprensione (interessate e non).
D’accordo anche su tutti i rilievi che riguardano la gestione dei dati. Essi
servono come spunto diagnostico sia a livello di sistema, sia a livello di
ogni singola unità scolastica (e volendo a livello di classi).
Diffondere tale capacità di uso diagnostico richiede un intervento
“molecolare”. Non ci si può fermare ai commenti e confronti tra
macroaggregazioni; o meglio, occorre prestare attenzione che ciò alimenta la
“semplificazione mediatica” della lettura dei dati e, anche per questa via,
ne inquina la destinazione diagnostica.
L’INVALSI è uno degli Istituti della ricerca educativa che fa parte del
sistema di istruzione. Dobbiamo abituarci a misurarci con il suo
funzionamento, le sue scelte, pregi e difetti, con attenzione e competenza
critica e passione professionale, in modo non dissimile a quanto facciamo
con la politica scolastica.
Se dovessi misurare tale attenzione con la presenza delle problematiche
INVALSI nel dibattito culturale, politico e professionale dovrei concluderne
che o non se ne parla (se non in occasione delle rilevazioni) o lo considera
una sorta di “corpo estraneo”. Come se la scuola non avesse bisogno di
“ricerca educativa” alla quale appartiene quella “valutativa”.
2.
Condivido anche alcune note della collega
Boscaino. Per esempio
quelle che riconducono la variabilità dei dati delle grandi aggregazioni
territoriali al permanere delle differenziazioni socio economico culturali
tra le varie aree del Paese.
Ma qui sorgono grandi perplessità sulla sua argomentazione successiva.
“Nulla di nuovo” sembra dire la collega ma anche “come potrebbe essere
diversamente?”.
Qui mi permetto due osservazioni.
La prima è che il permanere di tale “varianza sociale” e il vederla misurata
in dettaglio a me fa l’effetto di una falsificazione di una istanza
fondamentale che ha guidato tutto il mio impegno nella scuola: che essa
fosse (certo tra altri strumenti) una sfida fondamentale alla colmatura
delle disuguaglianze sociali. E’ stato un “ideale professionale” e non
riesco a reagire dicendomi “non può che essere così..” dopo mezzo secolo di
faticosa affermazione della “scuola di massa”, se non interrogandomi a fondo
su cosa e come e perché quella scommessa storica sia compromessa.
E la risposta non può essere semplicemente delegata ad altro: la “società
ingiusta e diseguale”, il capitale, lo sviluppo economico, le miserie del
potere ecc..ecc.. La domanda è calzante: la scuola, il suo “popolo”,
quell’intellettuale di massa che ne presiede il funzionamento è senza
responsabilità? Quei dati interrogano e chiedono risposte non deleganti la
responsabilità ad altri.
La seconda osservazione è relativa alla connessione (meccanica?)
risultati-risorse. Come si fa, dice la Boscaino, a pensare a miglioramenti
quando la politica scolastica è stata contrassegnata da tagli di risorse?
Argomentazione sensata, ma di nuovo contiene il pericolo di esportare le
responsabilità. Le regole formali di funzionamento delle scuole e la
distribuzione delle risorse dello Stato (organici, fondi) sono identiche in
tutte le parti d’Italia. I risultati sono di estrema diversificazione. Pesa
il contesto di particolare deprivazione di alcune regioni? Certo ma,
paradossalmente la scuola farebbe eccezione.
Mi sono occupato, come ispettore, di monitoraggio e valutazione dei PON,
nelle regioni obiettivo.
L’esperienza più comune è così descrivibile (in modo un po’ tranchant ma non
lontano dalla realtà): a parità di parametri operativi (classi, studenti,
insegnanti) una buona scuola (non solo per le rilevazioni INVALSI)
dell’Emilia Romagna o del Veneto ha una disponibilità di risorse
assolutamente inferiore ad una scuola calabrese, e non da oggi (fondi
europei) e risultati di apprendimento assolutamente superiori.
Come dire, con parole meno dure, che la redditività dell’investimento in
istruzione mantiene dei differenziali inaccettabili, o comunque assai
problematici.
Ma poiché non possiamo neppure pensare che vi siano “differenze genetiche”
tra gli studenti e neppure “differenziali professionali” tra i docenti, pur
considerando le variabili di contesto socio-economico, non possiamo non
considerare, almeno in via di ipotesi (ma la mia esperienza sul campo me ne
fa convinto), che alcune variabili “culturali” (la cui elaborazione non
richiede investimenti intensivi) abbiano un ruolo fondamentale nel
determinare i differenziali di redditività.
Mi riferisco alla cultura organizzativa elaborata dall’organizzazione
scolastica, ai modelli interpretativi e agli immaginari professionali agiti,
alle scale di valori interpretate ed agite, alla permeabilità
all’innovazione, alla “propensione” all’investimento dal lato della
“domanda” ed alla passività (fino all’opportunismo) rispetto alla
disponibilità dell’offerta di risorse (il grande limite dei PON), nella
progettazione delel scuole autonome (autonome allo stesso modo su tutto il
territorio nazionale).
Troppo semplice il cortocircuito argomentativo tra risultati (e loro
differenziali) e quantità di risorse. Si rischia anzi il capovolgimento
dell’argomentazione.
Ma il rischio connesso a tale cortocircuito (ed è una responsabilità
intellettuale che tocca tutti coloro che si occupano di scuola) è che non
misurarsi con la complessità che è “sotto la traccia” della lettura dei
dati, finisca, contrariamente alle intenzioni dichiarate, per abilitare
derive secessioniste da un lato e opportuniste dall’altro.
Da un lato la permanenza dei differenziali e l’inanità degli sforzi per
colmarli può dare fondamento oggettivo alle argomentazioni di chi dice
“investiamo dove sicuro è il rendimento”; agli altri (non potendo chiudere
formalmente un servizio di cittadinanza) lasciamo le condizioni minime di
sopravvivenza. Che facciano i loro conti”.
Ma dall’altro per chi si è “abituato” ad un differenziale positivo di
risorse, il rischio di connettere ogni tentativo di miglioramento con input
aggiuntivi (rispetto ai PON è più di un rischio: si genera un opportunismo
diffuso).
Ne va della “unità del sistema pubblico” che tanto ci appassiona.
Il Ministro Fabrizio Barca sta facendo una grande operazione su questo
piano, “sequestrando” risorse e rilanciando un piano di investimenti che sia
tale (e non un “piano di spesa”, che è altra cosa: ma intanto da
“intellettuali docenti” si dovrebbe chiedere una diffusa consapevolezza e
capacità di creare senso comune, sulla differenza tra spesa e investimento).
Un piano complesso ed una sfida prima di tutto culturale che avrebbe anche
un grande valore “esemplare”. Ma il popolo della scuola sembra tacere o
preferisce la frustrazione ringhiosa di chi si sente “tradito” nella sua
importanza sociale.
3.
Non riesco invece a trovare terreno di confronto
con Barone.
Francamente trovo le sue argomentazioni marchiate dall’implicito
opportunismo corporativo di chi si erge ad affermare “per il mio ruolo, (per
la libertà di insegnamento) non posso essere valutato”. Le contraddizioni
del suo argomentare ne sono la spia.
Davvero i dati sulla differenza dei risultati tra maschi e femmine sono
sessismo? Davvero il fornire dati sul cheating (l’opportunismo di chi fa
copiare o suggerisce, o altera le rilevazioni a proprio favore) significa
alimentare il controllo sociale e eventuale autoritarismo dei Dirigenti
Scolastici? Davvero, dopo avere criticato le metodologie delle rilevazioni
standard si protesta perché gli alunni DSA ne sarebbero esclusi? Come si
chiamerebbe il tentativo di ricondurre l’alunno DSA a uno “standard”?
Si agita l’argomento della inevitabile influenza, sui risultati, delle
variabili di contesto socio economico e culturale. Ma si attribuisce al
tentativo (che potrebbe certo essere più accorto) di verificare il peso di
tali avariabili per correlarle più opportunamente con i risultati grezzi
della rilevazione, attraverso una rilevazione più attenta di esse, la
responsabilità di violare la privacy…
E il riconoscimento, en passant, dell’interesse di alcuni dati a confronto
viene liquidato con un loro essere “opinabili”. E cosa non lo è Prof.
Barone? Ma appunto il ragionare parte da ipotesi, cerca sintomi, elabora
diagnosi…
Sono (confesso) un vecchio comunista. Da ragazzo mi fu insegnato che per “criticare e superare lo stato di cose presente” avrei dovuto sempre applicare un comandamento etico e culturale insieme: “saperne sempre una di più del padrone”. La raccolta di informazioni, il confronto di dati, le letture analitiche, determinate, sono insostituibili per chi voglia davvero esercitare l’arma della critica.
Io credo che in realtà la notazione più positiva che si può muovere dal lavoro dell’INVALSI, sia che occorre “più valutazione” e che solamente a partire da questa istanza si possa sensatamente muovere l’altra; che cioè sia necessario anche “valutare diversamente”.
Sostengo da sempre che la “matrice della valutazione” (cosa, come, perché, chi) debba essere esplorata per intero per fondarne la sua “accettabilità sociale”, ma anche per estrarre dai dati la loro complessa funzione diagnostica.
I limiti della nostra esperienza odierna sono proprio insiti nel fatto che cerchiamo dati e esercitiamo funzioni valutative solo su alcuni aspetti della realtà (nel nostro caso i livelli di apprendimento degli studenti). Se ad essi ci fermiamo non riusciamo a completare il quadro diagnostico ( e dunque a valutare davvero). Per contro solleviamo tutte le controspinte, di varie “ragioni” ammantate, di chi si sente messo sotto la lente dell’osservazione e ne sente gli inevitabili disagi, ansie e paure (fantasmi inevitabili come dico sempre, ma per disattivarli occorre guardarli in faccia, non lasciarli agire nell’ombra).
La matrice della valutazione ha sempre cinque livelli da esplorare nella raccolta di dati e informazioni. Sono i seguenti
Questo repertorio valutativo ha una
caratteristica fondamentale: i dati raccolti su ciascun livello (con
metodologie varie e che hanno una loro “autonomia” tecnico scientifica)
danno informazioni pienamente interpretabili solo riferendosi al livello
gerarchicamente superiore.
La valutazione dell’efficienza, per esempio si può compiere se la
rilevazione diagnostica fa riferimento alla valutazione di effetti e
impatti, altrimenti i dati sono “muti”, pur nella loro consistenza e
autonomia. E così via risalendo la scala. La valutazione di impatto e degli
effetti non ha orientamenti se non si risale al programma ed alla sua
teoria, ecc… Per esempio, la moda che sembra affermarsi dell’orientamento
“controfattuale” (vedi alcune ipotesi mosse dalla Fondazione Agnelli) è
criticabile e pericolosa proprio per l’assenza di tale collegamento.
Il limite della nostra esperienza odierna è quello che stiamo esplorando solamente i due ultimi gradini della scala e ciò compromette alla radice ogni confronto sulla diagnostica. Non che lo impedisca, ma lo lascia in preda a contraddizioni irrisolvibili. Ogni ipotesi e falsificabile e tutte sono abilitate ad alimentare polemiche e scontri.
Se non si esplora la scala della valutazione ad ogni suo livello non si rende possibile valutazione alcuna della “politica pubblica” messa in campo. Dunque allargare la valutazione, non ridurla.
Che a tale istanza si sottragga l’Amministrazione o i titolari della Politica Pubblica è comprensibile (e certo inaccettabile). Ma che lo facciano tanti oppositori è francamente indice di “coscienza infelice” (nell’accezione filosofica del termine).