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I problemi della valutazione dopo la legge 169

24.01.2014

Note a margine dell’intervento di  Mariangela Bastico
Franco De Anna


La pratica della valutazione, su qualunque oggetto/soggetto si eserciti, mette sempre capo ad una relazione asimmetrica. E’ una verità elementare che non può essere rimossa da alcuna affermazione, anche apprezzabile nelle sue intenzioni, circa la necessità, l’opportunità, la “bontà” della valutazione stessa.
E’ una verità che si declina sia sul piano psicologico (la conosciamo e misuriamo lungo tutta la nostra vita: siamo sempre valutati e sempre ne rielaboriamo variamente e più o meno saggiamente  l’inquietudine) sia su quello collettivo e professionale; da cui scaturiscono molti atteggiamenti e comportamenti collettivi, sindacali, politici e/o “corporativi”.
Ha dunque ragione Bastico a sottolineare le condizioni e le cautele per una “buona applicazione” delle istanze della “valutazione di sistema”. Ed ha ragione a indicare in alcune “approssimazioni” politiche errori fondamentali che in parte scontiamo oggi.
Per esempio il riduzionismo meccanicistico tra valutazione degli apprendimenti ( prerogativa e funzione fondamentale dei docenti) e “rilevazione dei livelli di apprendimento” effettuata dall’INVALSI a livello “di sistema” che individua alcuni “indicatori” di risultato.
Per esempio, ancora, il riduzionismo funzionalista che cortocircuita risultati di apprendimento, misurati attraverso quegli indicatori e valutazione sia delle organizzazioni (le scuole) sia delle persone (docenti e Dirigenti Scolastici). E ancora il collegamento meccanico tra valutazione così condotta, miglioramento da essa suggerito, e premialità economica.
Su tutti questi aspetti sono più volte intervento su queste pagine (vedi questa rubrica) e mi limito a questo richiamo.
Vorrei però, nel merito delle affermazioni di Mariangela Bastico, mettere in rilievo alcune questioni che interrogano direttamente la dimensione della “politica pubblica” e che l’interlocutrice, per il ruolo che ha e che ha avuto, richiama inevitabilmente.
Sono convinto che la singola scuola, il singolo docente possono mettere in valore gli esiti delle rilevazioni dell’INVALSI proprio come possibili “indicatori”, segnali cioè, dei risultati raggiunti, dei limiti del proprio lavoro, dei suoi successi; e dunque un buon materiale sul quale effettuare processi di rispecchiamento, di autovalutazione, di eventuale miglioramento.
Ma per utilizzare quei risultati in tale funzione “diagnostica” è necessario abbandonare l’attenzione alle “medie”, e dedicarsi all’analisi differenziata dei dati; guardare piuttosto alle varianze; privilegiare proprio l’attenzione ai livelli di “equità” raggiunti dalla attività della scuola e dei docenti, piuttosto che al conforto della comparata dei valori medi assoluti, o delle “graduatorie” sia tra scuole che tra docenti che rappresentano una deriva disdicevole sotto il profilo etico e delle esigenze di equità (il “nessuno escluso” che Bastico rammenta) ma che non hanno neppure fondamento scientifico.
Qualche segnale “culturale” in questa direzione da parte dell’Amministrazione sarebbe più che prezioso. Magari attraverso una “smentita scientifica” più ancora che politica, di certe ipotesi e progetti recenti (Valutazione  e merito, legame tra valutazione e finanziamenti ecc..)
Su questo possibile e necessario approccio è fondamentale l’indicazione di Bastico di guardare al “valore aggiunto”, cioè al risultato che si raggiunge al netto della considerazione dell’influenza fondamentale dei diversi contesti socio economico culturali nei quali operano la scuola e i docenti.
Ciò rappresenta, tra l’altro, una condizione per rielaborare sensatamente almeno una parte delle “patologie” che l’asimmetria delle relazione valutativa porta inevitabilmente con sé.

Ma c’è un secondo livello del significato della valutazione di sistema che mi pare sia non evidenziato nell’intervento di Bastico.
La valutazione di sistema è (anche) uno strumento fondamentale per aumentare e validare la “razionalità decisoria” del decisore sia politico che amministrativo. E’ cioè uno strumento fondamentale per qualificare ogni “politica pubblica”.
In tale prospettiva l’attività valutativa si espande lungo una catena, o meglio una matrice di livelli ed oggetti diversi ma tra loro collegati.

Se ne possono individuare cinque.

  1. Valutazione dei bisogni ai quali una politica pubblica deve rispondere
  2. Valutazione della “teoria” (interpretazione, priorità, individuazione degli strumenti) che è sottesa al programma di politica pubblica
  3. Valutazione del processo e della implementazione del programma
  4. Valutazione dell’impatto e degli effetti
  5. Valutazione di efficienza nella esecuzione del programma

Caratteristica fondamentale di tale “catena valutativa” è che le “ragioni e i significati” delle risultanze valutative di ciascun livello trovano “spiegazione” (diagnosi approfondita) in riferimento al livello gerarchicamente immediatamente superiore. I “dati” di ciascun livello hanno ovviamente una loro “autonomia” (e dunque un trattamento ed una analisi specifica) ma la “spiegazione” e gli “effetti” si comprendono appieno solo interrogando il livello superiore.

Il “Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione” si esercita sul quarto e quinto livello individuando come oggetti della valutazione i risultati e gli effetti a livello delle “unità operative e produttive” del servizio scolastico (le Istituzioni scolastiche autonome).
Dunque investendo della attività valutativa strutture organizzative, lavoro, professionalità che, nella loro combinazione specifica, e in rapporto con diversi contesti socioeconomico culturali, “interpretano” la politica pubblica dell’istruzione in diretto rapporto con i cittadini e con i “portatori di diritti” (e di interessi).
Dal terzo livello in su la catena valutativa si interrompe.
Vorrei fare un esempio tratto dal lavoro sul campo.
Nel fare il mio lavoro di “valutatore” nel progetto VALES che cerca di sperimentare il regolamento di Valutazione, mi sono imbattuto in due scuole, una nel profondo Nord ed una al Sud, con contesti socio economici assai diversi, ma entrambe con risultati di apprendimento collocati in fascia superiore alle medie sia locali che nazionali (ma su livelli lontani tra loro e in linea con le differenze geografiche che continuiamo a sottolineare sia nelle rilevazioni INVALSI sia nelle comparazioni internazionali)
Le risorse economiche disponibili alle due scuole sono confrontabili per i valori assoluti. Ma tale condizione è il risultato di un investimento significativo che nel primo caso (profondo Nord) è effettuato dalla Regione; nel secondo (Sud) è dovuto ai fondi europei, i PON.
Le due fonti di finanziamento hanno ovviamente modalità di utilizzo e gestione del tutto differenti, mettendo in valore in modo assolutamente diverso l’autonomia delle specifiche istituzioni scolastiche.
I rilevi ambientali (strutture, accoglienza, disponibilità di strumentazioni, ambienti didattici, contesti spazio temporali,  ecc..) presentano differenze più che evidenti. Nel primo caso l’effetto di un impegno della comunità locale che sente la scuola come proprio “capitale sociale”. Nel secondo i fondi europei dovrebbero fare ( e non lo possono) ciò che la comunità locale non fa e non sente (spazi poco accoglienti e curati, strumentazioni didattiche rudimentali, ambiente di apprendimento con caratteristiche critiche, ecc..).
E’ chiaro che, a prescindere da impegno dei docenti, qualità del dirigente, risorse economiche a disposizione, la valutazione delle due organizzazioni produce esiti diversi. Ma questo è semplicemente un dato, un “fatto”.
Se la catena valutativa si interrompe a tale livello, non è in grado di “dire nulla” alla politica pubblica dell’istruzione e ovviamente accentua tutte le possibili riserve, psicologiche e non, strumentali e non, sulla utilità e necessità dell’impegno valutativo.
Alimenta anche, e si tratta di notazione dura ma necessaria, una “deriva” opportunista che fa risalire ogni risultato insoddisfacente a elementi non controllabili da parte della scuola, come le risorse, il contesto ambientale, i “superiori” disattenti.
Per comprendere a fondo tali differenze e per trarne conseguenze operative dovremmo interrogare il terzo livello della catena valutativa, quello dei programmi e dei processi implementati in base alla “politica pubblica” e non dalle singole unità operative.

Un altro esempio. Tutte le rilevazioni nazionali e la comparata internazionale mostrano l’andamento contraddittorio dei risultati di apprendimento nel passaggio tra la primaria e la secondaria.
Continuiamo a commentare, di rilevazione in rilevazione, tale problematica. La descriviamo variamente, per esempio con le parole (imprecise) della Fondazione Agnelli per le quali la “scuola Media è l’anello debole del sistema”.
E di nuovo accontentandosi dei valori medi, non andiamo oltre nel discriminare i motivi di tale “fallimento” specifico nel passaggio alla secondarietà dell’apprendimento, alle cesure, alle discontinuità, alle declaratorie disciplinari e alla classificazione del lavoro docente, ai diversi modelli organizzativi ecc…
Ma soprattutto non espandiamo la portata valutativa sui livelli superiori dal terzo al primo
Se lo facessimo coerentemente dovremmo investire di tale valutazione la politica pubblica che si esercita sulle strutture degli ordinamenti (che diremmo delle “nuove indicazioni” in tale caso? Potremmo limitarci ad auspicare “curricoli verticali”, qualunque cosa ciò significhi?); ma anche e sopratutto sui modelli organizzativi, sulla stratificazione e classificazione del lavoro, sui modelli professionali.
Mi permetto tali sottolineature perché dal terzo livello in su della catena valutativa sono le azioni dei decisori politici e amministrativi ad essere investite dal processo valutativo e non solo quelle di studenti, docenti e dirigenti scolastici, ed è a tale livello che si colloca Mariangela Bastico.
Le cautele che lei indica come necessarie nello sviluppo del sistema di valutazione sono dunque sensate e condivisibili. Ma la vera condizione per dare “accettabilità sociale” piena all’attività valutativa sarebbe quelle di scorgerne gli effetti sull’intera catena e su tutti i livelli.
E questa è una responsabilità politica che va ben oltre le “cautele” e i richiami alla condivisione (o le “cordate”..).

Ancora due osservazioni.

La prima riguarda l’enfasi giustamente posta sulla necessità di non fermarsi ai valori assoluti, ma di guardare al “valore aggiunto”, cioè al contributo che la singola unità operativa fornisce al netto dei condizionamenti socio economico culturali del contesto operativo.
Ma ciò riguarda appunto il quarto e quinto livello.
Su quelli superiori i valori assoluti contano eccome. E’ da essi e con essi che si  misura una politica pubblica la cui strategia sia ispirata a valori di equità e di eguaglianza.
Una strategia di politica dell’istruzione che si accontentasse dei “valori aggiunti” troverebbe comodi alibi rassicuranti a rischio di opportunismo implicito di convalida delle disequità (prima di ttto di quelle territoriali).
Aggiungo, provocatoriamente, che un giovane che si presenta ad un colloquio di lavoro sarà misurato per ciò che sa e sa fare, non per il “valore aggiunto” del suo percorso scolastico. E’ crudele, ma è la realtà con la quale chiunque lavori nella scuola deve misurarsi.

La seconda osservazione riguarda la “politica di sistema” che dovrebbe consentire un effettivo sviluppo della valutazione di sistema.
Gli Istituti sui quali dovrebbe fondarsi il Sistema di Valutazione (INVALSI, INDIRE, Ispettori) sono da un quindicennio coinvolti in una transizione incompiuta (e si tratta di un eufemismo verbale) segnata da gestioni provvisorie, strutture lasciate decadere, e nel caso degli ispettori incuria assoluta nel rinnovarne gli organici e le competenze.
Responsabilità politiche che coprono un arco vasto e plurimo di responsabilità, di maggioranze di minoranze che si sono alternate.
Ancora oggi, con processi in corso che faticosamente tentano di costruire sistema (dalle rilevazioni che si vanno consolidando alla sperimentazione di VALES) l’assetto del sistema della Ricerca Educativa si mantiene incompiuto e fragile, e non appare all’ordine del giorno del decisore politico, anzi. E non compare nella discussione della politica dell’istruzione.
Ed è così lasciato in balia di ogni tensione e contraddizione (e cordata…) che provengono sia dalle insufficienze della sua organizzazione (che dire del fatto che i ricercatori che vi operano hanno ancora largamente rapporti di lavoro precari? Un istituto di ricerca deve avere un programma “almeno” decennale. Del resto così prescrive lo stesso Statuto degli enti, per legge) sia dalle fisiologiche fatiche e pene, e reazioni più o meno razionali, che la relazione valutativa comporta nella sua asimmetria.

Infine, Mariangela Bastico risponde al suo interlocutore che la interroga in proposito, che lei pensa al sistema di valutazione come “istituto” di carattere nazionale. Sono d’accordo. Ma “nazionale” non significa “ministeriale”.
Le ripropongo una ipotesi di struttura del sistema della ricerca educativa (anche a prescindere dalla mia opinione personale sulla necessità di riunificate INVALSI e INDIRE) con i caratteri della “tecnostruttura” di servizio all’intera governance del sistema di istruzione  e dei suoi soggetti di competenza (Stato, Regioni, istituzioni scolastiche autonome). Superando così anche la stretta dipendenza tra essi e il Ministero, che rende opaca la loro necessaria “terzietà” di organismi di ricerca.
Potremmo “copiare” da quanto avviene nel sistema sanitario nazionale tra Ministero, Regioni, Istituto Superiore , AGENAS, agenzia del farmaco…
Sono convinto che occorra superare una dimensione “soffocante” del confronto sulla valutazione, anche delineando una politica vera ed estesa sull’intera matrice valutativa e non scorciatoie e riduzionismi che finiscono, questo sì, per rappresentarsi come fatica e pena aggiuntiva per chi nella scuola opera ogni giorno.

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