01.01.2016
Il
resistibile fascino della ricerca educativa
di Franco De Anna
Di recente sono stati
pubblicati i risultati di due ricerche condotte dalla Fondazione Giovanni
Agnelli: quella, che si ripete nel tempo, denominata Eduscopio ed una
ricerca condotta con metodologia shadowing da Massimo Cerulo, sulla figura e
il ruolo del Dirigente scolastico, significativamente intitolata “Gli
equilibristi”.
Non voglio, con questo mio intervento, entrare nel merito dei contenuti e
risultati di quelle ricerche, se non per qualche cenno (e dichiarando la mia
“partigiana” vicinanza alle metodologie ed alla impostazione della seconda e
la mia altrettanto partigiana avversione per la prima). Quanto per
utilizzare la intrinseca diversità di metodologia, impostazione, forma di
rendicontazione tra le due ricerche, come spunto per riproporre una
questione più generale che è quella della Ricerca Educativa nel nostro
Paese, il suo valore sistemico, la sua “organizzazione”, il suo ruolo nel
costruire, migliorare, sviluppare la “cultura sociale della scuola” e non
solo alimentare il dibattito scientifico-accademico.
Solo accenni nel merito: la ricerca sociale e i suoi paradigmi
Commentando in un post
su Facebook, per la verità in modo tranchant (dato il contesto
comunicativo), i risultati di Eduscopio usati da qualche Dirigente
Scolastico come “medaglietta” da appiccicare al bavero della “sua” scuola,
cercavo di “falsificare “ (in senso popperiano…) quella impostazione
ricordando agli interlocutori alcuni limiti della ricerca, certo
fondamentali, ma di diverso ordine.
Come è noto con
Eduscopio, la Fondazione Agnelli correla i primi risultati universitari di
alunni iscritti agli Atenei, con la scuola di provenienza, ed utilizza i
primi come “indicatori” della qualità della seconda. (Da qui, alla
comunicazione dei risultati, il fiorire di recriminazioni dei peggio
classificati, e le “medagliette” dei nominati “migliori”) (1
[i])
Nel commento mi limitavo
a ricordare a tutti gli interlocutori, tre questioni fondamentali.
La prima: “il paradigma della variabile indipendente” nella ricerca
sociale è inappropriato o ha applicazione assai limitata. Intendevo con ciò
sottolineare, sinteticamente, che la ricerca sociale ha oggetti per loro
natura complessi e che sono campo di azione di fattori plurimi variamente
collegati tra loro da relazioni altrettanto complesse.
Nella sperimentazione che è propria delle scienze naturali, è possibile (ma
anche in tale caso a certe condizioni e in certi contesti “controllabili e
controllati”) isolare una variabile e verificarne i valori a seguito di
variazioni di (un certo numero, ma limitato e appunto controllato) di altre.
Posso, per converso e reciprocamente, trascurare altre variabili considerate
ininfluenti alla mia sperimentazione.
Per non farla lunga: Galileo dovendo descrivere la caduta di un grave dalla
torre di Pisa, era assolutamente legittimato a trascurare il colore del
corpo in caduta.
Per valutare il successo universitario di un gruppo di matricole, la
variabile “Liceo di provenienza” è senza dubbio interessante, ma non meno di
quella “frequenza della scuola dell’infanzia” ( la ricerca internazionale
sembra mostrare che il percorso formativo 0-6 ha grande incidenza sul
successo scolastico). Ma anche la variabile “titolo di studio dei genitori”
(anzi la ricerca internazionale correla il successo scolastico con il titolo
di studio della madre, e sembra inoltre dimostrare che la correlazione è più
forte nel caso di figli di diplomati piuttosto che di laureati..), e non
voglio neppure ricordare come tutte queste variabili siano correlabili, a
loro volta, tra loro.
Naturalmente tutto ciò è presente agli stessi ricercatori della Fondazione,
esattamente come ad essi sono noti raffinati strumenti statistici di analisi
multifattoriale.
La seconda: la popolazione scolastica in uscita dalla superiore che
viene presa in considerazione dalla Fondazione per la ricerca Eduscopio,
rappresenta circa il 60% dei diplomati: circa il 90% proviene dai Licei,
(dai professionali esce il 20% dei diplomati, ma se ne iscrive
all’università una assoluta e trascurabile minoranza, che infatti è esclusa
dalla ricerca).
Dunque la ricerca si occupa, in realtà, di una quota di popolazione
scolastica che rappresenta comunque non solo “una parte”, ma una parte già
selezionata, sulla base di variabili socio-economico-culturali ad azione
complessa ed a rapporti complessi tra loro, che si sommano a quelle che
caratterizzano comunque la storia formativa individuale degli studenti (ho
scelto la facoltà giusta per me? Al Liceo che tipo di insegnanti ho
incontrato? E che rapporti con la mia classe?).
Ovviamente i ricercatori della Fondazione sanno tutto ciò, e sono avvertiti
dei limiti intrinseci di risultati ottenuti misurando una sola variabile… Il
problema è che nella comunicazione dei risultati tale avvertenza “sparisce”
o declina sotto l’orizzonte della comunicazione mediatica (si sa, i
giornalisti, come i docenti o i Dirigenti scolastici …non leggono… non
leggono, come direbbe Umberto Eco).
E ne escono graduatorie tra istituti, con l’aggravante che ciò viene anche
presentato come strumento di “orientamento” delle scelte delle famiglie
circa le scuole superiori da far frequentare ai figli.
Insomma una ricerca con grandi limiti di impostazione metodologica, diventa
strumento di “orientamento sociale”.
Anche il ricercatore più “scientificamente neutrale” non può non
interrogarsi sugli effetti di “moral hazard” che possono essere
sollecitati da una comunicazione che non sottolinei, prima di ogni
illustrazione di risultato, il limite intrinseco della ricerca stessa,
soprattutto in una ricerca con esiti “valutativi”.
Terza questione: Sullo sfondo (ma la cosa non riguarda lo specifico
della ricerca Eduscopio) sta il fatto riscontrato nei dati OCSE, che
l’Italia è all’ultimo posto per percentuale di laureati rispetto alla fascia
di età 25/35.
Quindi la ricerca in questione non solo investe una “parte privilegiata”
dell’utenza scolastica, ma rispetto alla problematica degli studi
universitari nel nostro Paese, si confronta con un problema assolutamente
secondario. A meno che, alla domanda drammatica del decadere degli studi
universitari non si voglia rispondere con una “graduatoria di qualità” tra i
licei.
In altre parole: si tratta di una ricerca condotta (e risorse scientifiche
ed economiche dedicate) su una problematica certamente non di primo piano
rispetto al (preoccupante) dato sistemico degli studi universitari della
nuove generazioni.
Certo le risorse sono della Fondazione che ne ha piena e riconosciuta
padronanza.
Ma rimangono sottese alcune questioni di interesse generale che attengono in
particolare alla ricerca valutativa, ma anche al ruolo che
potrebbero/dovrebbero avere Enti e Fondazioni che con essa si misurano, in
particolare nella responsabilità (che è di tutti gli intellettuali), nel
fornire strumenti di comprensione e di senso all’opinione pubblica.
La valutazione e la
ricerca valutativa hanno una intrinseca difficoltà di “accettabilità
sociale”, innescando spesso o il conflitto aperto o l’adattamento
opportunistico. La assennata costruzione di un Sistema Nazionale di
Valutazione del sistema di istruzione deve prioritariamente guadagnarsi il
rispetto e la fiducia della “popolazione” del sistema per mandare fuori
bersaglio entrambe le reazioni.
E’solo per tale motivo che mi permetto di insistere nella critica ad
impostazioni come quella descritta. Ogni “riduzionismo” o semplificazione
meccanicista che investa la ricerca valutativa non rappresentano solamente
un limite o un errore “scientifico” ma vanno inevitabilmente a rinforzare
sia l’opposizione pregiudiziale sia la cosmesi adattativa.
Dall’approccio quantitativo e funzionalistico a quello psicosociale
La seconda ricerca
citata (sulla figura, ruolo e lavoro della dirigenza scolastica, focalizzata
su Dirigente Scolastico ma anche su DSGA) utilizza la metodologia dello
shadowing.
Dunque si tratta di una ricerca non solo qualitativa (niente tabelle, report
e analisi statistica) ma che utilizza una metodologia fondata sulla
interazione tra osservato e osservatore, che diviene, da elemento di
“incertezza” della scientificità della ricerca stessa (per alcuni..) a
elemento fondante delle ragioni e delle inferenze che sono desumibili
dall’osservazione stessa. Ovviamente attraverso il rigoroso “posizionamento”
reciproco tra osservato e osservatore.
La metodologia consiste nel “seguire come un’ombra”, da parte del
ricercatore, la persona che è oggetto di osservazione, in ogni istante della
sua vita quotidiana, nel suo lavoro, nei suoi rapporti con il contesto e con
i collaboratori, con l’organizzazione nella quale opera.
L’ombra non “indaga, analizza, interpreta, interroga” da “fuori e lontano”; ma nel corso dell’osservazione silenziosa rielabora il proprio modo di guardare il mondo e le cose, con il modo che l’altro ha di guardare e vedere a sua volta. Il “potere di conoscenza” di tale metodologia si alimenta proprio dall’incontro-scontro tra universi culturali (quello dell’osservato e dell’osservatore) a partire proprio da analogie e differenze che fanno capo a una situazione definita (lavoro, organizzazione, ruoli professionali ..). “L’ombra” annota, istante per istante, limitando al minimo la sua interazione.
Lo shadowing implica e
genera un atteggiamento “umoristico” che si costruisce a partire dal
processo di “bisociazione” che consiste nel riunire e interpolare due schemi
di riferimento, (associazioni, strutture di ragionamento, emozioni) che
sarebbero normalmente incompatibili o comunque estranei e distanti.(Non
mando un Preside a fare l’ombra di un altro Preside …)
L’esercizio di bisociazione consiste cioè nell’operare contemporaneamente su
piani cognitivi diversi e mettere in contatto tra loro tali piani: è la
fonte della creatività e dell’umorismo.
In Italia la metodologia
dello shadowing fu introdotta da Mariannella Sclavi e di lei ricordo un
libro sulla scuola (“A una spanna da terra”, 1994) che metteva a confronto
la vita a le giornata scolastiche di due studentesse (una italiana ed una
americana). Mi fece capire più cose che non un trattato di comparata tra
sistemi di istruzione.
La ricerca è pubblicata con un titolo più che adeguato (“Gli equilibristi”)
e ha seguito “come un’ombra” le giornate di lavoro, le interazioni e i
rapporti, i problemi e le soluzioni trovate, di quattro dirigenti Scolastici
(e relativi DSGSA) di quattro Istituzioni scolastiche (secondaria
superiore..); due al Nord e due nel Meridione.
Le annotazioni
“dell’ombra” restituiscono la realtà del lavoro, dei ruoli, delle
interpretazioni, degli immaginari professionali, delle interazioni con i
collaboratori, dei dirigenti seguiti, e, nelle differenze e specificità
locali e personali, colgono in modo efficace le contraddizioni sia delle
definizioni istituzionali di ruolo, sia degli assetti istituzionali e
operativi dell’autonomia scolastica.
In particolare il suo essere “anfibio” o meglio una transizione irrisolta,
cha “produce” una figura professionale di direzione che, appunto, si cimenta
in un difficile equilibrismo.
Non voglio ne posso in questo contesto entrare nel merito delle conclusioni
della ricerca stessa che hanno, se le mie spiegazioni precedenti son ben
comprese, sempre valore ipotetico-sintomatico e si prestano a itinerari
inferenziali successivi.
Mi limito a due osservazioni generali
La prima:
pur nella sua parzialità (per esempio le quattro scuole oggetto della
ricerca sono tutte del secondo ciclo. Al confronto Nord-Sud sarebbe
interessante affiancare quello tra primo e secondo ciclo: le differenze
probabilmente sono più che rilevanti) l’osservazione diretta e clinica che
sostanzia la ricerca ha un effetto di “disvelamento e falsificazione”
fondamentale rispetto ad auna serie di costrutti e modelli con i quali si
guarda e si classifica il lavoro del Dirigente Scolastico.
Sia che si tratti di modellizzazioni ideali e di ampio respiro, sia che si
tratti di rappresentazioni strumentali alla polemica politica e ideologica.
La ricerca falsifica ampiamente le metafore del preside sceriffo, del boss;
ma anche (e non nascondo che ciò mi interessa assai di più) sia il modello
Preside-manager amministrativo, sia quello del Preside leader
didattico-pedagogico, sia i volenterosi ma astratti tentativi di declinare
entrambi i costrutti.
L’osservazione diretta e clinica del lavoro del Dirigente dimostra la
sostanziale inadeguatezza delle definizioni del suo “profilo di ruolo”: sia
quelle consolidate nella normativa (e per esempio tradotte nei bandi di
concorso, o nei futuri protocolli valutativi) sia quelle ispirate a un
“dover essere” che tenta di “modellizzare” la realtà “a prescindere”…
Inutile ricordare che la definizione del “profilo di ruolo” è il passo
fondamentale per dare corpo sia ad un reale repertorio di attribuzioni
professionali, responsabilità e autonomie; sia a modalità pertinenti di
selezione in ingresso e di valutazione in itinere. Forse, ripartire da tale
falsificazione può essere utile, non per lamentarsi che la realtà non
coincide con le nostre attese, ma per capire come trasformare tale realtà.
La seconda:
la metodologia dello shadowing è un esempio (ma non l’unico ..) di una
ricerca che si rapporti con la complessità della osservazione (e della
“raccolta dati”) quando l’oggetto dell’osservazione sia una “formazione
sociale” e cioè un complesso di fattori e variabili tra loro collegate in
modo plurimo e interdipendente.
Per tornare al paragone usato precedentemente: se Galileo era assolutamente
legittimato a trascurare il colore dell’oggetto in caduta del quale voleva
descrivere il moto, nel nostro caso è invece clinicamente assolutamente
rilevante registrare il modo di vestire della dirigente scolastica osservata
o il rito del caffè con i collaboratori, per ricostruire una ipotesi
diagnostica sulle dinamiche e interpretazioni del ruolo o sui caratteri
della “cultura organizzativa” agita in quel contesto.
La “scientificità” del procedere della ricerca non risiede nella semplice
raccolta dei dati e nelle misurazioni, ma nell’itinerario inferenziale che
va dall’osservazione, alla misurazione (quando e come possibile), alla
trasformazione dei dati in “informazioni”, alla trasformazione delle
informazioni in “sintomi” ed alla rielaborazione dei sintomi in ipotesi
diagnostiche.
Questo itinerario inferenziale (l’inferenza alla miglior spiegazione)
accomuna le diverse metodologie e procedimenti scientifici: dalle scienze
naturali che possono utilizzare sistemi di misura e raccolta dati rigorosi ,
“oggettivi” e sempre ripetibili, ma che non per questo sono legittimate
(anzi) ad automatizzare l’inferenza, alla medicina, alla critica d’arte,
alla etnologia, alla linguistica, alla filologia, per le quali non sono
sempre possibili misurazioni oggettive e ripetibili. In particolare dunque
nella ricerca sociale.
Aggiungo solamente che nel passaggio tra scienze naturali e scienze sociali,
specie applicate alla scuola, si assiste anche ad un “equivoco inverso”,
nello slittamento semantico del concetto di “modello”. Nelle scienze
naturali un “modello” è una descrizione approssimata della realtà, ottenuto
selezionando le variabili che vi operano e trascurando quelle giudicate
ininfluenti. Il valore “euristico” del modellizzare sta proprio nel poter
analizzare tale versione “semplificata” e contemporaneamente tenere ben
presente tale livello di semplificazione come fonte essenziale del processo
di falsificazione.
Spesso nella ricerca sulla scuola il concetto di “modello” viene
interpretato non come una semplificazione necessaria per la ricerca stessa,
ma come “idealtipo” al quale la realtà andrebbe conformata. In tal modo
invece di assolvere alla funzione euristica e promuovere il necessario
processo di falsificazione il costrutto di “modello” assume il significato
di “come vorremmo che fosse la realtà”. (Forse ciò è dovuto alla prevalenza
di una “formazione non scientifica” ...ma non vorrei esprimermi su ciò che
possa essere una formazione “non” scientifica ..)
Nella scuola abbondano gli esempi di tale slittamento semantico: si pensi
appunto ai “modelli” di “buona scuola” o ai “modelli” di Dirigenti
scolastici o di docenti, ma anche di alunni (i “profili in uscita”) che
vengono “santificati” nei dispositivi normativi o nelle tante “indicazioni”.
Come deve essere un buon docente te lo metto in una scheda.
Segnalo che quando ciò si applichi in particolare alla ricerca valutativa
(un segmento di ricerca sociale) il rischio di moral hazard si
densifica, esattamente come avviene reciprocamente quando si utilizzino
modelli da “variabile indipendente” o di contro fattualità.
La ricerca educativa i suoi oggetti e soggetti.
La discussione potrebbe essere chiusa qui se la questione della appropriatezza metodologica della ricerca che vien fatta sul sistema di istruzione, non si rivelasse cruciale in moltissimi casi che alimentano variamente, con il loro fall out mediatico, la costruzione e lo scambio di opinioni, consensi e dissensi, attorno alla scuola e ai suoi valori. Insomma se la ricerca educativa stessa e i suoi esiti non assumessero un ruolo sempre più importante nella costruzione della “cultura sociale” della scuola, delle sue funzioni, del suo ruolo cruciale di sottosistema sociale essenziale.
Chiarisco qui che uso il
termine di “ricerca educativa” per indicare un campo che, sia pure
confinante, è distinto da quello della “ricerca pedagogica”. Per
semplificare le definizioni, quest’ultima ha come oggetto elettivo la
“relazione educativa”. La prima si occupa invece del “sistema educativo”.
Come ovvio il reciproco rapporto, la sovrapposizione anche di metodologie e
di strumenti, di “culture”, l’apporto che l’esplorazione di ciascun campo
fornisce alla conoscenza dell’altro, sono innegabili. Ma i campi son
diversi: la ricerca educativa non è la ricerca pedagogica.
In particolare la Ricerca Educativa (la ricerca che ha come oggetto il
“sistema di istruzione”) appartiene, per costrutti, paradigmi, strumenti,
alla ricerca sociale.
Ha per oggetto un sistema complesso, multi variabile, che opera nel tempo,
nella storia e le loro stratificazioni; e con rapporti altrettanto complessi
con la società, le istituzioni, ma anche con le dinamiche di emancipazione,
di conflitto, di costruzione di egemonia.
Proprio la complessità multi variabile del sistema reclama il massimo rigore
nelle scelte di impianto metodologico della ricerca che ne fa suo oggetto.
Facciamo un esempio che
investe la attuale politica pubblica dell’istruzione e le scelte indicate
come prioritarie: quello della digitalizzazione delle classi.
Io non ho alcuna obiezione (anzi) nell’esplorare tale strada e nel
considerarla essenziale per innovare la nostra scuola; ma forse per motivi
che non sono quelli apparentemente dichiarati come “fondanti”, e che
affermano che la digitalizzazione è correlata positivamente con migliori
risultati di apprendimento. Dunque ciò darebbe fondamento politico alle
scelte di investimento che vi sono connesse..
Che l’aula digitale migliori i risultati di apprendimento è tutto da
dimostrare: migliora gli ambienti, le relazioni, la dimensione operativa
dell’apprendere, la sua multidisciplinarietà… Ma ciascuno di questi elementi
(l’ambiente di apprendimento e cioè tempi, spazi e relazioni); la dimensione
operativa del processo (l’attivismo del discente, singolo e in gruppo); la
trans-disciplinarietà, ecc. costituisce una variabile correlata con i
risultati di apprendimento e a sua volta correlabile con la dotazione di
devices digitali.
Per dare fondamento alla
correlazione diretta tra digitalizzazione e livelli di apprendimento manca
una vera e propria ricerca sul campo, diffusa e ripetuta.
Benedetto Vertecchi, che ha svolto su ciò ricerca appropriata ci dice per
esempio “fate scrivere in corsivo se volete sviluppare e aumentare la
padronanza linguistica”. Proprio per le ragioni più volte ripetute non si
tratta di “dimostrare” una ipotesi o l’altra, ma di giungere ad una
assennata rappresentazione della complessità dei fattori in gioco.
La scuola, proprio per le caratteristiche di densità sociale che la
contraddistingue, impegnando l’universo delle generazioni interessate,
potrebbe essere un vero e proprio “laboratorio di massa” per una ricerca
educativa che scegliesse metodologie appropriate, si muovesse nella
autonomia che è propria della ricerca e, contemporaneamente, producesse
risultati capaci di elevare sia la razionalità decisoria della politica
scolastica, quanto le scelte di allocazione delle risorse..
Qui si pone la questione
fondamentale, ma della quale poco si discute e scarsa è la sensibilità
diffusa sulla sua importanza, della configurazione del sistema della Ricerca
Educativa.
Ovviamente l’Università è parte fondamentale di tale sistema, anche se
privilegia la ricerca pedagogica o comunque raramente si misura (vincoli, ma
forse anche avarizia) con i grandi numeri della ricerca di sistema (insisto
tale è la Ricerca Educativa). Allo stesso modo altri soggetti (abbiamo
commentato finora esiti del lavoro della Fondazione Agnelli).
Ma il sistema della Ricerca Educativa ha due soggetti istituzionali (e come
tali assimilati proprio al più generale “sistema ricerca”) e sono come noto
l’INVALSI e l’INDIRE.
Il mondo della scuola ed il dibattito politico culturale che lo sommuove
guardano all’INVALSI con il fastidio e la prevenzione di chi “fa la
valutazione” a all’INDIRE con un grande punto interrogativo.(I colleghi che
vi operano con impegno mi perdoneranno la semplificazione: è fatta a fin di
bene)
Vi sarebbero invece almeno tre questioni di cui discutere davvero e farne
elementi di confronto politico-culturale serio.
La prima: nel loro assetto istituzionale dovrebbe essere garantita l’autonomia che è propria di ogni Istituto di ricerca, a partire dai contenuti e caratteri del loro Statuto per arrivare alle regole gestionali, organizzative e contabili. Tale autonomia è stata interpretata in modo corretto, e alimenta davvero il lavoro degli Istituti? (Si veda il percorso statutario dei due Istituti ed il rapporto con il MIUR)
La seconda: proprio perché statutariamente riconosciuti come Istituti di ricerca, entrambi devono (e lo fanno) formulare un programma decennale (lo prevede la Legge: la ricerca ha sempre un passo che va oltre la contingenza politico-amministrativa). Non mi pare di avere visto tale programma come oggetto di confronto politico culturale nella scuola, coinvolgente tutte le forme di aggregazione e di organizzazione della cultura scolastica.
La terza: il “laboratorio” della Ricerca Educativa è, come si è detto, la scuola stessa e dunque un “laboratorio di massa”. Esplorare tale dimensione è condizione di effettivo esercizio delle proprie funzioni per gli Istituti stessi, ma anche condizione per l’affermazione di sensate metodologie di ricerca e dunque di alimento di una cultura scolastica che sappia superare semplicismi, riduzionismi, continue riproposizioni del “nuovo” senza validazioni condivise. Quali strumenti per questo laboratorio di massa?
(1)[i]
Il mio commento su facebook,
ha provocato una reazione, sempre su Facebook, assolutamente
legittima, del Presidente della Fondazione, Andrea Gavosto, che mi
accusava di non avere letto la ricerca stessa.
Gavosto stesso, e ne ignoro i motivi, ha rimosso però il suo post,
impedendomi così di chiarire le mie obiezioni all’uso di quei dati,
ma anche alla ispirazione (!?) della ricerca stessa della
Fondazione.