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SCUOLA OGGI: Documenti e interventi sulla  politica scolastica della XVII legislatura

24.01.2015

C’est la faute à Voltaire: se Voltaire diventa  un brand…
di Franco De Anna

Si sa, il tempo della riflessione, al tempo della sua infinita riproducibilità, è compresso e compromesso dalla velocità dei media e della loro infinita capacità di orientare, sollecitare, provocare, la pubblica opinione.
Nell’arco di pochi giorni dalla tragedia di Parigi la discussione pubblica ha cambiato più volte registro. E non mi riferisco alle opinioni, ovviamente diverse, a confronto, ma proprio al registro dell’argomentare, ai riferimenti messi in campo, alle “identificazioni” prontamente rielaborate come i tanti e diversi (tutti mediaticamente fortunati, anche quando in opposizione tra loro)  “Je suis…”.

L’eredità dell’illuminismo

Siamo partiti con il richiamo generale “all’illuminismo” come radice propria della cultura dell’Occidente, base del sistema dei diritti e delle libertà che costitui-scono (-rebbero) il contributo fondamentale della cultura europea alla civiltà umana…
Nel nostro mondo di scolastici, l’amico Tiriticco è immediatamente intervenuto con interessante contributo (mancherebbe…). E commenti appropriati anche nelle pagine di questo sito.
Notizia recente è che, stimolato intensi e ripetuti richiami, vi è un significativo incremento delle vendite del “Trattato sulla tolleranza”.
Chissà se gli interessati nuovi lettori sapranno cogliere (qualcuno lo spiegherà loro?) la consapevolezza che “quel” Voltaire è notevolmente diverso dal giovane che scrisse il “Trattato di metafisica”, predicatore entusiasta della libertà dell’uomo. Tra il primo e il secondo vi è la misura del dramma del terremoto di Lisbona,  lo sconcerto del confronto con la miseria umana,  con la morte, con la dimensione del dolore della vita. Con l’incontrollabilità razionale del destino.
La tolleranza e il suo fondamento si collocano, anche per Voltaire, in quella dimensione, più che nella astratta affermazione della libertà.
Del resto… l’Illuminismo è davvero il contributo  specifico della cultura europea alla civiltà umana?
La cultura tedesca, “dopo” Goethe e Schiller non produsse forse la tragedia del nazismo?
E la/le guerre mondiali che hanno segnato il ‘900 hanno forse altri padri e madri? E non si tratta solo di “deviazioni e parentesi”  di dittature.
I civilissimi cittadini di Weimar, città di Goethe, non potevano materialmente non accorgersi di ciò che accadeva a pochi chilometri da loro, sulla collina ben visibile di Buchenwald… 
Se proprio dobbiamo usare il costrutto del “je suis…” credo che ciò che segue l’affermazione di identità europea possa e debba essere un elenco lungo, che articola certezze luminose con miserie e colpe infami, generosità ed egoismi, eroismi e tradimenti; violenza e diritti, giustizia e massacri.
Della “triade” rivoluzionaria (libertà, uguaglianza, fraternità) cosa potremmo ragionevolmente raccontare ai nostri figli?
La libertà ha trovato traduzione progressiva nei diritti. In quelli politici certamente; quelli civili (fondamentale e intangibile quello di proprietà) via via riconosciuti ma non senza drammi (che dire della Repubblica francese post rivoluzionaria che confermò la schiavitù nelle sue colonie?); quelli sociali in crescita potente e significativa nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale con l’affermazione del welfare… Ma oggi?
L’eguaglianza? Se c’è una fase storica nella quale si moltiplicano le disuguaglianze è quella che stiamo vivendo. O meglio: dati alla mano le disuguaglianze tra le nazioni (per esempio tra quelle sviluppate  e quelle in via di sviluppo) si vanno lentamente  riducendo; ma si accentuano le disuguaglianze all’interno delle diverse popolazioni. La guerra alla povertà sembrerebbe oggi vinta; ma… con la sconfitta dei poveri.
Il terzo termine della triade rivoluzionaria è sempre stato per la verità quello di più difficile e controversa interpretazione. La fraternità, (o la fratellanza…) in cosa consista davvero è assai problematico definire… Probabilmente perché sui tratta di un valore cui è difficile dare semantica convincente rimanendo sul piano della “ideologia” della laicità, o del puro esercizio della “ragione”.
Chiedersi (è stato fatto ripetutamente e da pulpiti diversi) come sia possibile che vengano reclutati terroristi tra giovani apparentemente cresciuti ed integrati nella “nostra civiltà” urbana è domanda carica di ipocrisia appena ci si misuri davvero con le poche e necessariamente superficiali considerazioni precedenti.
Il riferimento all’Islam come causa, in questa chiave, è altrettanto ipocrita e sostanzialmente isomorfo all’opposto riferimento che fa dell’Islam la leva strumentale per il reclutamento terrorista agita da altri soggetti e da altre politiche.
E tale ipocrisia costringe a singolari acrobazie concettuali, come quella che ricerca “l’Islam moderato”.  Si può e si deve ovviamente cercare e affermare il rispetto reciproco di tutte le religioni; ma è francamente risibìle chiedere ad un credente di esprimere una “fede moderata”. Lo dice un ateo come me: si può mai chiedere ad una persona di credere in dio moderatamente?
E del resto è altrettanto carica di ipocrisia la presa di posizione più squisitamente politica di Paesi che si propongono come paradigmi di libertà, ma che agiscono in un panorama  caratterizzato da contraddizioni evidenti nei reciproci rapporti  internazionali.
Non sono oggetto della riflessione che qui propongo, ma certamente non si può non ricordare che Qweit e Qatar finanzino l’autoproclamato califfato perseguendo interessi ed equilibri complessivi del medio oriente.… che quel movimento si sia sviluppato sulla base della destabilizzazione del regime siriano e delle ambiguità ed incertezze del comportamento dei paesi occidentali… Che il califfato abbia sviluppato una sorta di sistema di piccola impresa estrattrice di petrolio che viene venduto clandestinamente sul mercato internazionale con buoni profitti….
E ricordare che in Nigeria il successo e l’espansione di Boko Haram sarebbero inspiegabili senza debolezze complici dell’esercito nigeriano, la rapina del paese da parte di una classe politica che, a partire dal presidente cristiano, ha tradito gli accordi per l’alternarsi di cristiani e mussulmani alla presidenza (In Nigeria la popolazione è sostanzialmente suddivisa in termini quasi paritari tra le due religioni..)… e insieme al miope perseguimento di egoistici interessi nazionali dei pesi europei, l’inconsistenza di una politica estera dell’Unione, vi è il consistente, dinamico e non appariscente intervento cinese in tutta l’Africa.
Un cumulo di cause, di riflessioni, di consapevolezze che attendono di essere approfondite nel dibattito dell’opinione pubblica la cui attenzione invece viene “deviata” sull’Islam e sui versetti del Corano.  E vi è chi si presta volentieri a tale strumentalizzazione.
C’è naturalmente una aggravante nazionale: siamo un paese di particolare ignoranza religiosa. Se dovessi citare i versetti “violenti” della Bibbia gran parte degli interlocutori mi indicherebbero coerentemente e preoccupati come terrorista.
Nei Paesi della Riforma, almeno, la lettura del libro accompagna la religiosità, e i fedeli sono stati abituati ad interpretare (e prima di tutto a leggere e scrivere, a livello popolare, almeno un paio di secoli prima di noi)… Ma da noi (con insegnamento religioso previsto come “normale”, fatta salva scelta esplicita delle famiglie) chi legge la Bibbia?
Ma la riflessione che voglio qui proporre pur richiamando la necessità di quella analisi politica a fronte delle parzialità, opacità, deformazioni nell’orientamento della “opinione pubblica” , non  sta  sul piano dell’analisi politica. Penso piuttosto al rapporto tra tutto ciò e le domande che tutto ciò pone alla dimensione della formazione.

Diritti, religioni e laicità.

Impegnato in questi pensieri mi è tornato per le mani un libro di un illustre interprete del pensiero laico, di scuola mazziniana, interprete di Bobbio, attento anche a problematiche formative. Mi riferisco a Maurizio Viroli, e il libro in questione tra i tanti da lui scritti ha un titolo che esprime un programma “Come se dio ci fosse: religione e libertà nella storia d’Italia”.
Il riferimento che faccio ad esso è in realtà un riflesso specchiato, e dunque richiede un doppio registro. Il titolo scelto da Viroli richiama un costrutto fondamentale che spesso viene ascritto a Dietrich Bonhoeffer il pastore luterano che partecipò alla congiura per uccidere Hitler (fu giustiziato, fallita la congiura) e che nel dramma della propria coscienza di cristiano che accettava tormentosamente  l’idea dell’omicidio del tiranno, avrebbe cercato una definizione di diritto e di etica comunque validi “Come se dio non ci fosse”.
E’ un costrutto spesso ri-utilizzato dal pensiero laico, quando voglia indicare la necessità di norme giuridiche e di definizioni etiche valide a prescindere da ogni fede religiosa e dunque  proponibili come universali all’interno di una società tollerante e promuovente i diritti individuali e collettivi.
Ora io non so se si tratti di un infortunio o se dipenda dal fatto che Viroli (forse) abbia scritto il libro in inglese con il titolo che suona “As if God existed…”
Ma quel doppio riferimento usato per illustrare una cultura nazionale certamente non caratterizzata da alto livello di laicità, ha una origine lontana . Il costrutto è in realtà di Grozio e risale alla prima metà del seicento, quando egli (cristiano riformato ma di orientamento liberale, non calvinista..)  pose le basi del diritto civile moderno.  Grozio cercando il fondamento di una norma giuridica che potesse predicarsi come universale si pose il problema della sua validità non “Come se dio non ci fosse” ma “Anche se dio non ci fosse”. Dunque non un “ut si deus non daretur” (o un “as if God…”), ma” Etsi (etiam si) deus non daretur”.
La scelta di un avverbio cambia il senso complessivo. “Come se dio non ci fosse” è inaccettabile certamente per un credente (si può mai chiedere ad un credente di agire come se dio non esistesse?), ma anche per un non credente che dovrebbe dare fondamento della propria scelta etica con una  sorta di “simulazione”, di “convenzione infondata”.
“Anche se…” propone invece ad entrambi, credente e ateo, di misurarsi con la dimensione del dubbio, dell’incertezza, che non può che essere dimensione esplorata sia da una fede seria e costantemente approfondita, sia da una scelta atea… entrambe chiamate, proprio in nome di tale dimensione di incertezza, a trovarne composizione rispettosa e dialogo.
Cito sempre, da ateo, un motto del Talmud che dice (pressappoco) “Il Signore ha parlato, e io ho udito due voci..” e che disegna efficacemente la dimensione dell’incertezza della permanete necessità dell’approfondimento, e dunque (anche letteralmente) del dia-logo. Del resto nella Bibbia dio dice a Mosè: “non vedrai mai il mio volto..”. (A proposito di iconoclastia…)Vorrei dunque proporre, a chi si occupa di formazione, una interpretazione del dia-logo, della tolleranza, del confronto, che non hanno la dimensione luminosa (illuminata…) delle affermazioni del diritto, della legge, della “naturalità” della ragione, ma quella faticosa dello “scarto”, dell’incertezza, del dubbio, del non poter “guardare dio in faccia”, e del dolore di tale fatica

Illuminismo e formazione.

Sotto questo profilo, allora, lo sgomento della domanda “…ma come è stato possibile che giovani nati, cresciuti, istruiti nella nostra società “illuminista” diventino fanatici capaci di compiere ciò che hanno compiuto..?” perde il rischio di ipocrisia e diventa interrogativo che colpisce direttamente chi si occupa di istruzione, di scuole, di formazione…. Il ragionamento “politico” rintraccerà e darà, se ne è consapevole, le risposte sul piano della emarginazione sociale, della disuguaglianza, della esperienza di quotidiana ingiustizia delle periferie della grandi metropoli multietniche e multiculturali.
Ma che la ribellione contro l’ingiustizia, non solo acceda alla violenza (la storia della lotta di classe non né fatta di pacifismo…) ma identifichi il terreno religioso e si immedesimi con una guerra di religione contro gli infedeli e che declini la violenza non in termini di lotta di massa ma di terrorismo individuale, tutto ciò invece rende fondata la domanda iniziale: “che cosa è accaduto nella formazione di questi giovani?”. Una domanda che investe la formazione (e non solo la scuola, ovviamente) di tutte le  nuove generazioni.
Ma il terreno nel quale affondano le radici di questa domanda è di assai complessa dissodatura. Provo a proporre una domanda parallela, confidando che essa stimoli il pensiero dei lettori e la ricerca di risposte, al di là della rielencazione (come non condividerla, ma rischia qui di essere stereotipa) di richiami alla libertà di stampa, a quella di opinine, al ruolo della satira, al rifiuto della violenza…ecc..
Prendiamo una vignetta del giornale satirico francese contro il quale si è concentrata la violenza terrorista, Rappresenta, o lo vorrebbe, la trinità (il nucleo dommatico di un cristiano) in questo modo: dio sodomizza Gesù che a sua volta  sodomizza lo Spirito Santo…
Ho scelto volutamente una vignetta (satirica?) che non ha come bersaglio l’Islam.
Fatto salvo il repertorio di richiami alle diverse libertà, e quello alla volterriana tolleranza, nonché il richiamo alla funzione del diritto e della giustizia, ed non alla violenza della reazione individuale dell’offeso, a me pare si possa riproporre esattamente la domanda “ma cosa è accaduto nella formazione di queste persone, come è possibile che nate e cresciute e acculturate nella nostra società illuminista e tollerante manifestino in tale modo il proprio pensiero, o la propria arte, o il proprio animo...Da dove può mai nascere tale violenza (in questo caso verbale, certamente…) contro la fede di propri simili… in quali pieghe dell’anima o irrisolti psicologici si alimenta tale violenza…?”. In questo caso, probabilmente senza neppure la possibilità di invocare il piano politico-sociale della emarginazione, della disuguaglianza, della povertà…
Riproposta nel nostro contesto di persone che si occupano di istruzione, di scuola, di formazione, tale domanda diviene ricerca isomorfa a entrambi gli esempi (certo incommensurabili sul piano della violenza, delle conseguenze ecc…). Chi si occupa di formazione si chiederà comunque sgomento  di fronte ad entrambe le “casistiche” (se confrontate con la pretesa luce dei lumi della nostra cultura..)  dove stia, cosa procuri quello ”scarto”? o meglio ancora (posto che “il male” sia componente ineliminabile dell’uomo) come e cosa fare per contenere, limitare, ridurre i danni? O anche solo vedere, guardare, diagnosticare, prevenire…
Io  credo che, proprio falsificando il rischio dei fare di Voltaire un brand e un neo successo editoriale, ma anche del richiamo all’illuminismo una sorta di bandiera (di sventolio assai esile per altro, se basta una battuta di papa Francesco a farla ammainare..) della nostra civiltà europea, quella domanda ponga in termini radicali il nesso tra cultura, ragione, educazione  formazione: E dunque i compiti fondamentali della scuola (ma non solo…) nella riproduzione sociale (particolarmente, ma non solo, delle nuove generazioni).
Piuttosto che a Voltaire il mio pensiero va alla cultura tedesca.
Bildung e aufklarung, per le ragioni implicite in quanto sopra sono riferimenti che ritengo più pertinenti quando si parli di istruzione e formazione.
Rispetto all’illuminismo francese l’aufklarung tedesca non ha prodotto una rivoluzione, ma nel collegamento con la bildung ha sviluppato una sensibilità particolare verso una “istruzione” popolare capace di coniugare la felicità degli individui e la sua ricerca, con una solidarietà sociale per la quale il soggetto è ciò “che sa e dà” al contesto sociale  di riferimento.
Da Kant, a Goethe e il suo Meister, a Lessing. Ma, se il lettore lo preferisce, il riferimento è all’illuminismo scozzese (So che gli amanti delle “congiure nascoste” son pronti ad accusarmi di appartenenze  massoniche: le smentisco in via preventiva) .
Le differenze tra gli approcci sono comunque radicate nella dimensione “individualista” del richiamo alla ragione e ai suoi lumi nella cultura francese.
Dunque non solo questi ultimi sono il riferimento, ma lo è Bildung, costruzione, formazione in senso stretto.
Chi si occupa e lavora per l’educazione sa per propria esperienza che i lumi della ragione non esauriscono la sua missione, non rispondono alla esigenza complessiva di costruzione del soggetto, alla necessità che esso trovi e rielabori la sua posizione nel mondo.
Il riduzionismo razionalistico ha, sotto il profilo educativo, esiti contraddittori, a volte perniciosi, sia rispetto al singolo soggetto, sia nella rielaborazione culturale collettiva; può produrre come esito del suo esclusivismo, la negazione del valore stesso della ragione (ci riconoscete qualche vostro studente?). Del resto ciò è accaduto nella storia stessa del pensiero (da Kant a Nietzsche), e a maggior ragione accade nella storia della evoluzione del soggetto.
Adolescenti costretti a cibarsi di quest’unico ingrediente declineranno volta a volta derive bulimiche verso il proprio desiderio reiterato nel consumo senza compimento, o derive anoressiche assolutizzanti incapaci di rielaborarlo e di riconnetterlo come ingrediente, tra gli altri (compreso il proprio desiderio), della propria crescita e affermazione di autonomia.
Se Bildung è “costruzione”, allora  la formazione dell’uomo implica sempre una “potatura”, una ”ferita”, un “artificio”.
Tommaso dice “forma hominis, juxta propria pincipia..” dunque  non secondo la “propria natura” ma secondo una forma determinata “al di fuori”.
Per Marx è il “lavoro” (dunque lo sforzo, la fatica) il processo di umanizzazione dell’uomo; e nella creazione di questa sua “seconda natura” sta la ferita dell’alienazione.
Adorno usa ripetutamente termini come “mutilazione”, “storpiamento” per indicare concretamente il processo di formazione, e guarda al “sistema della cicatrici” (rileggere “Minima moralia”. Non dico invece, ma almeno accanto, al riacquistato “Trattato sulla tolleranza”).
Del resto l’etno-antropologia ci propone dovizie di esempi nei quali la “formazione”, l’acquisizione della “adultità”  si accompagna, in certe culture anche fisicamente, con la ferita, la scarificazione. (E i piercing plurimi  dei nostri adolescenti?).
E infine la castrazione (simbolica) non è forse la “topica” fondamentale della costruzione del soggetto nell’approccio freudiano?.
Chi si occupi di formazione, sia che operi nella scuola e nell’istruzione, sia che lavori nei media e nell’informazione, o comunque, per il ruolo ed il lavoro che fa ha possibilità, grandi e men grandi, di influenzare e determinare il senso comune, la cultura sociale condivisa (la funzione “intellettuale, secondo Gramsci), porta questa pesante responsabilità.
Si misura innanzi tutto con i rischi del “riduzionismo” che riporta la formazione stessa ad un percorso lineare. Un bel repertorio di dichiarazioni di “diritti”, così apparentemente “naturali” e rassicuranti del benessere (benestare) sociale, e la reiterazione convincente attraverso la comunicazione, lo spot, il richiamo alle “educazioni”.
Misurarsi invece con quello scarto, con quella “ferita” che sta nel cuore profondo della formazione è più complicato, più destabilizzante, reclama responsabilità vere e partecipate, non elenchi e repertori di diritti “naturali”.
In altro contributo su queste pagine sottolineavo che un docente non esaurisce il suo lavoro e impegno con la “geometria” del curricolo, ma sperimenta quotidianamente e in modo tanto più drammatico quanto più profondamente viva il suo impegno, il rapporto con quella dimensione di scarto, di ferita, di “potatura”, di castrazione simbolica che è il cuore duro  della formazione. E chi invece dedica esclusivamente  la propria attenzione alla geometria del curricolo finisce per pensare di avere di fronte non giovani, preadolescenti o adolescenti reali, ma una sorta di “idealtipo apollineo”, che, al peggio, andrà “convinto” , attraverso opportune ”unità didattiche” ben progettate magari secondo le “indicazioni ministeriali”, delle buone “ragioni”, e “naturali”, della cultura, della scienza, del sapere, della “naturalità” del sistema dei diritti.
[1]  
Salvo contraddirle clamorosamente, appena fuori dal perimetro scolastico, allo stadio, nei bar del quartiere con gli amici, o anche semplicemente “twittando” sullo smartphone.
Giacobbe lotta per tutta la notte  con l’angelo, anzi con dio stesso (Genesi 32, 23-33. Si perdonerà a un ateo come me l’invito a leggere la Bibbia?) E non molla. Ne esce sciancato (lo storpiamento di Adorno), ma vincitore. “ Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con dio e con gli uomini e ne sei uscito vincitore”. E mentre lottava avvinto all’avversario, e non lo lasciava andare,  Giacobbe gli dice “non ti lascerò se non mi avrai benedetto”.  In altre parole combatte perché “si dica bene di lui”…
C’è metafora più potente (nella nostra cultura. Credo vi sia traccia assimilabile  nel mito di Gilgamesh..) della “formazione” dell’uomo, del valore e significato della cultura, della “fondazione” dell’impresa umana? La vittoria dell’uomo su dio è segnata dalla “sciancatura”, dalla ferita (chissà se il Voltaire che rifletteva sul dolore irrimediabile e “sragionevole” del terremoto di Lisbona non avesse intuito proprio questo…); e la lotta è per ”essere benedetto” dall’avversario, non per odio nei suoi confronti.
E contemporaneamente l’esito della lotta vittoriosa è l’acquisizione di una dimensione sociale e collettiva ”da ora in poi ti chiamerai Israele”. La formazione compiuta (bildung) è in dimensione sociale, non individuale.
La cultura e il sapere non sono rapportabili con la natura, neppure quella immaginifica nella sua “primordialità” (non è un caso se “pedagogista” Rousseau, ne fece il fulcro contraddittorio della sua riflessione). Sono invece “artificio”, costruzione. Dunque lotta, sciancatura, ferita. Segno permanente che rimane nel tempo.
Il sapere e la cultura sono una “seconda natura” dell’uomo, non solo non rapportabili  alla prima, ma “laceranti” rispetto ad essa.
Come ricordavo (provocando)  ai miei studenti (tanti anni fa: si era all’inizio delle sensibilità ecologiche e della loro vulgata mediatica) la struttura portante dell’ecosistema è la catena alimentare: chi mangia e chi è mangiato… se volete sviluppare una cultura ecologica misuratevi con tale paradigma, e scoprirete che la cultura e la civiltà umana non solo sono altro e ma anche incompatibili (a meno di essere nazisti..). O come dico sempre ai fondamentalisti della biodiversità: dalla invenzione dell’agricoltura (10-12 mila anni fa) circa l’80% della biomassa del pianeta è ormai composta da sette o otto specie animali e poco più di specie vegetali. Selezionate e riprodotte dall’uomo in questi millenni. Solo il (poco) resto è “natura”. Dunque bene che la “cultura” dell’uomo si misuri con la necessità di rispetto e riproduzione della “natura”, ma è un compito culturale e scientifico: non c’è nulla di “naturale”. Fa parte di quello che Adorno chiama il “sistema delle cicatrici”. La natura-natura è il terremoto di Lisbona che sconvolge Voltaire…
Ma quella “seconda natura” proprio perché è lacerazione, è nella storia; è “storicamente determinata”; quanto a dire che non vi è predicazione “liberatoria” che non si misuri con la storia dell’uomo e con le sue contraddizioni. Non c’è “repertorio di diritti” che sostituisca la “giustizia sociale”. Battersi per i diritti non è la stessa cosa che battersi per una società più giusta. E questo è il piano del rapporto tra formazione e polis.
Domande di fondo, le cui risposte (tentativi di..) lascio ai lettori: come, nella formazione,  rielaborare la ferita, la mancanza, la storpiatura; la dimensione dionisiaca e notturna dell’itinerario di formazione, e falsificare l’illusione apollinea della inevitabilità naturale del sapere e della cultura? Come rielaborare “simbolicamente” la ferita  a fronte della realtà di ferite “vere”, patite nella carne e nello spirito (esclusione, selezione, emarginazione), in modo che la stessa ribellione contro l’ingiustizia conquisti una sua “disciplina”? Come rielaborare la dimensione sociale collettiva della formazione, dalla “fratria” (ormai la scuola è il solo luogo di incontro con “fratelli”, scomparsi dal contesto familiare), all’esperienza concreta del valore sociale di “ciò che sei e sai” per ciascuno, rispetto al contesto di riferimento (P. es. sono anni che richiamo l’idea del servizio civile obbligatorio..).
Due sole notazioni finali di un ragionamento difficile e complesso. Una seria, l’altra meno.
Si dice, guardando le immagini terribili  di esecuzioni a freddo, a bruciapelo, senza esitazioni: “devono avere avuto un addestramento militare”… Certo. A base di video giochi e di carneficine virtuali.  La virtualizzazione della realtà è un potente strumento di addestramento a ridurre l’impatto, fisico e psicologico, della realtà. Un cazzotto (vero) innesca un sistema di retroazione sensibile: ne porti il dolore sulle nocche per settimane… Non è un caso che una battuta di Francesco sia stata sufficiente a smontare tante elaborazioni…certo usa il linguaggio semplice della vita quotidiana, certo è spontaneo e immediato fino all’infortunio (apparente) mediatico. Ma è il primo papa della storia gesuita e, credetemi, nulla, neppure una parola, è rielaborata a caso…Sa quel che dice e vuol dire a differenza di tanti mosconi ronzanti che cercano di interpretare.
Un videogioco rovescia fiumi di sangue senza retroazioni se non sul piano emozionale di “accumulo di punteggio”. Bisogna pensarci in una formazione che, giustamente, tende ad integrare al massimo le potenzialità delle tecnologie della informazione, e i vantaggi della virtualizzazione. Virtualizzazione è processo nettamente diverso (opposto) da quello di “rielaborazione simbolica”.
La notazione meno seria è dedicata all’amico Tiriticco: “tutta colpa di Voltaire” era un modo di dire usato dai “benpensanti” durante la Restaurazione. Ma è anche un verso della canzoncina ironica che Hugo mette in bocca a Gavroche, il fanciullo barricadiero de “I miserabili”. A proposito dell’esercizio dell’ironia e della satira.
Bisognerebbe decidere quale versione adottare.

 

[1] Ho sviluppato più ampiamente l’argomento in Franco De Anna, “La/le geometrie del curricolo”, in “La scuola e l’uomo”, (periodico dell’UCIIM,)  n. 7-8, Luglio agosto 2014. Che la rivista cattolica ospiti il contributo di un ateo dichiarato mi pare un bell’esempio di tutto quanto andiamo dicendo

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