Direzione didattica di Pavone Canavese |
(20.02.2004)
Elogio del (mio) palmare -
di
Marco
Guastavigna
Qui
sopra un "giocattolino" niente male: un palmare di fascia alta (ossia,
davvero un po' più di un'agenda elettronica), collocato sulla sua
tastiera portatile. Con un aggeggio del genere, corredato già all'origine dai
fondamentali programmi di automazione d'ufficio di un programma
per rappresentare la conoscenza e di software e dispositivi per
la connessione wireless a Internet, si lavora pressoché dovunque (compresa
l'aula in cui si fa lezione) con una riduzione davvero minima delle
potenzialità e dei risultati.
La tastierina standard e lo stilo, poi, consentono di elaborare appunti,
scalette, testi rapidi: la configurazione minima è quindi molto funzionale per
una riunione, un convegno, un collegio docenti, il lavoro estemporaneo in
genere.
La pila tiene per molto più tempo di quella di un notebook.
Non sta però in questa serie di possibilità la ragione vera dell'elogio annunciato nel titolo. La questione è più profonda, perché interessa il versante delle pratiche tecnologiche e della rappresentazione mentale che ciascuno di noi ha ormai consolidato del modo di funzionare di un computer.
Il
palmare è infatti un piccolo (nelle dimensioni soprattutto) calcolatore, ma ha
alcune differenze che lo rendono un oggetto logicamente diverso, di fronte al
quale è necessario che anche il più smaliziato e supponente utente di computer
tradizionali si ristrutturi dal punto di vista cognitivo e procedurale, ovvero
si costruisca nuove strategie tecno-logiche di approccio e d'uso.
Il "cuore" dell'architettura del funzionamento di un palmare sono,
come molti sapranno, le sincronizzazioni: è attraverso queste operazioni di comunicazione con un PC
"tradizionale di
riferimento che avvengono le installazioni di programmi e driver diversi dalla
dotazione di partenza, che vengono consegnati alla stampa o ad ulteriori
elaborazioni i files prodotti e che sono trasferiti nella memoria del palmare
quelli provenienti da altri computer.
Quando lo riaccendiamo, poi, un palmare ci riporta immediatamente alla sessione di lavoro
che abbiamo abbandonato nello spegnerlo, senza dover necessariamente passare da
un desktop centrale. Più che sull'accesso a diversi programmi, insomma, esso si fonda sulla
gestione di differenti oggetti digitali; quando scegliamo
di creare un nuovo documento dobbiamo infatti prioritariamente indicarne il
tipo: solo allora (e solo con questa procedura) viene avviato il programma di scrittura, di
presentazione o di calcolo necessario; simmetricamente, quando riapriamo un
documento, dobbiamo agire a partire dal "file" (termine per altro non
presente, per lo meno con il mio sistema operativo!).
Per quanto riguarda quanto andiamo via via producendo ed elaborando, mentre ne resta molto importante il nome,
ne diventa
pressoché indifferente la posizione (il terribile "path", tremendo
intrico di pseudocartelle, elemento ansiogeno per molti utenti soprattutto se di
sistemi dos-windows). Perfino la distinzione tra RAM e memoria di massa con cui
vengono ammorbate molte vittime dei percorsi ECDL perde di significato: è
davvero importante solo conoscere quanta memoria complessiva si ha e sapere quanto sono grandi i vari
oggetti prodotti.
Torniamo alla tastiera pieghevole: essa è opzionale, ma non è affatto un gadget, bensì una testimonianza molto efficace di come non debbano essere gli uomini ad adattarsi alle tecnologie, ma viceversa. Si tratta insomma della rappresentazione macroscopica di una questione ergonomica, risolta con la produzione di un dispositivo che, nel caso si affrontino con un palmare elaborazioni e "scritture" impegnative, ripristina accettabili condizioni di lavoro, dal punto di vista posturale e mentale.
Insomma: il (mio) palmare è un'(ennesima) occasione per capire come l'apprendimento dell'uso delle TIC non possa avvenire in modo addestrativo, attraverso l'insegnamento e la memorizzazione di procedure. Tale apprendimento va piuttosto concepito come permanente sfida cognitiva e operativa su base critica e costantemente problematica, mai appagata e mai appagante: consiste cioè essenzialmente nella consapevolezza che sarà sempre necessario interrogarsi sul nuovo e di esplorarlo, ovvero mettere in preventivo di dover compiere modificazioni attente e coscienti delle strategie e degli automatismi logico-procedurali precedentemente conseguiti.
Per
questa medesima ragione trovo poco convincente l'assunzione delle
pratiche tecnologiche a competenze, come avviene su questo medesimo
sito nei contributi di Marchisio su TIC docenti
e allievi,
o la proposta di costruire addirittura statiche tassonomie
adatte ad una valutazione delle "competenze" tecnologiche in quanto
tali, per di più per livelli, concepiti come tappe da conseguire una dopo
l'altra, quasi che per ciascun utente fosse obbligatorio il medesimo percorso,
indipendentemente dall'esperienza culturale e dal percorso di vita complessivi.
In tutti i casi, inoltre, l'uso dell'espressione "competenza" è
del tutto improprio, perché mancano definizioni precise del contesto e delle
finalità dell'uso delle tecnologie, che continuano invece ad essere
individuate e descritte come campo di conoscenza e di azione a se stante.
Questa dimensione certamente esiste, ma è quella appunto delle semplici
pratiche, che solo assumendo un senso ed un significato comunicativo preciso e
definito, situandosi e interloquendo con soggetti identificati, divengono
"competenze". Credo insomma che la prospettiva debba essere
decisamente un'altra, e che si debba partire dalla consapevolezza che ciò che
dobbiamo perseguire a scuola sono le competenze comunicative della piena
cittadinanza (inter)culturale, alcune delle quali possono trarre vantaggio
dall'impiego di pratiche tecnologiche. Faccio un esempio: la descrizione che
ho trovato nel contributo sulle tassonomie, "Usa
internet per raccogliere informazioni, esplorare argomenti specifici,
comunicare, collaborare, cooperare e condividere, risorse
a distanza", ai fini della definizione di una competenza è totalmente
priva di significato sia dal punto di vista formativo sia dal punto di vista del
progetto di vita del singolo se non sono chiariti (situati in un contesto)
"natura" e scopo delle informazioni, degli "argomenti
specifici" e soggetti con i quali si "comunica", si
"collabora", si "coopera" e si "condivide".
L'autoinganno a cui induce una visione separata e statica delle tecnologie
è evidente anche in un contributo
scritto sempre su questo sito dal collega Albertini, quando,
nell'ironizzare sui contenuti tecnologici inseriti nei vari documenti relativi
al percorso formativo previsto dalla riforma (pessimi e confusi, sono d'accordo
con lui nel giudizio di sintesi, ma per altre ragioni) egli dice: "Si approfondisce
la videoscrittura e si creano semplici pagine web personali o della
classe: qui si dovrebbe necessariamente utilizzare un qualche software per
html, sempre che naturalmente lo si sia individuato, analizzato e riconosciuto,
immagino.". Bene, Albertini immagina male. Per creare pagine web
personali o della classe - come probabilmente tutti i nostri lettori sanno -
non è assolutamente necessario ricorrere un editor html: ci sono servizi
per realizzare blog, diverse piattaforme cooperative e altre soluzioni, comprese
quelle per bambini, che consentono la
pubblicazione di materiali sul web in forma diretta, lavorando cioè sul web
stesso.
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