28.08.2012
Il disegno di
legge per l'autogoverno delle scuole
di Franco
De Anna
Confesso imbarazzo nel commentare
sia il Disegno di legge di riforma degli organi di governo della scuola, sia
il parere che su di esso ha fornito il CNPI.
Considerando il testo del Disegno di legge verrebbe da appezzarne un certo
equilibrio e il suo essere esito di un lungo processo di mediazione e di
confronto tra diverse proposte provenienti da diverse formazioni politiche.
Le proposte di merito dovrebbero essere inevitabilmente oggetto di analisi
più puntuali, e dunque di più puntuali proposte di modifica e/o di
convalida, di specificazione di ulteriori dettagli.
Ma anche in tal caso, pur riconoscendone la necessità (e proverò a
misurarmici più avanti) l’imbarazzo al commento non cessa.
Ciò che condiziona l’approccio è la considerazione che tale proposta arriva,
oggi, a colmare una assenza che si prolunga da 35 anni (dalla prima
definizione degli Organi Collegiali), e dopo oltre un decennio che è
iniziato con due veri e propri break point per quanto riguarda il
“Sistema Nazionale di Educazione, Istruzione e formazione” costituiti dalla
istituzione dell’autonomia scolastica da un lato e dalla riforma del Titolo
V della Costituzione.
Tale condizionamento opera quasi costringendo a misurare il senso e
l’appropriatezza di questo nuovo provvedimento, non tanto o non solo per il
suo dettato; ma soprattutto nel confronto con quanto maturato in quel lungo
processo di transizione istituzionale incompiuta.
Lungo tale incompiutezza l’assenza del legislatore si è accompagnata alla costruzione di una “costituzione materiale” che ha interpretato la transizione stessa attraverso “prassi” più o meno consolidate e contingenti, o applicazione di principi e criteri tradizionali, o come esito della dialettica di interessi più o meno conservativi, a fronte di condizioni di potenziale grandissima portata innovativa (i due break point segnalati per i quali non si sono attivati percorsi, regole, opportunità di break througth, di attraversamento, per realizzare l’innovazione potenziale).
Ovviamente non si è trattato della
sola assenza legislativa nell’accompagnare e tradurre il processo di
innovazione potenzialmente contenuto sia nell’autonomia scolastica sia in
quel tentativo che potremmo chiamare (con termini impropri, ma che propongo
per sintesi in prima istanza) di “federalismo scolastico” o di applicazione
di quel tanto di federalismo compreso nel Titolo V Cost. al sistema di
istruzione,
Sono altrettanto mancati i contributi della “cultura scolastica” e della sua
organizzazione (i soggetti politici, quelli dell’associazionismo, il
sindacalismo) che, con diverse rappresentazioni e “narrazioni”, hanno in
genere assunto, rispetto ai due temi innovativi posizioni di cautela e
salvaguardia degli assetti tradizionali spesso coniugati con dichiarazioni
generali di segno opposto (a parole, per esempio, tutti sono per l’autonomia
scolastica).
Ma, come ovvio, le responsabilità dell’assenza del legislatore sono le più
evidenti.
Tutte le fasi storiche di
transizione sono animate come noto, da una contraddizione fondamentale tra i
processi reali che modificano la materialità storica e gli assetti
istituzionali e formali che la vorrebbero “descrivere” e catalogare.
Il compito specifico del legislatore, specie se si auto attribuisce il ruolo
“riformatore” è proprio quello di accompagnare la transizione attraverso il
progressivo adeguamento degli apparati normativi, delle regole, dei
“contenitori” che determinano le condizioni di operatività dell’innovazione.
Quando ciò non accada l’esito incompiuto della transizione è soprattutto il
frutto dell’azione congiunta degli apparati tradizionali (la Pubblica
Amministrazione nel nostro caso) che sarebbero altrimenti sottoposti ad un
processo di decostruzione, e della rappresentazione di interessi (prima di
ogni altro delle persone che lavorano nel sistema) che non trovando diverse
rappresentazioni delle proprie convenienze rifluiscono sulle certezze
passate (molto sindacalismo scolastico ha così reagito lungo quella che
abbiamo indicato come transizione incompiuta).
Sicchè, questo è il senso di una esitazione al commento, questa iniziativa ritardata del legislatore si situa in una situazione reale che è il frutto odierno di tale incompiuta. Si misura cioè, al di là del dettato specifico di nuove norme, con gli interrogativi e con un contesto segnati da una fase di “disillusione” rispetto alle speranze di mutamento disegnate un decennio fa.
Gli irrisolti fanno riferimento a questioni nodali.
1. La fase di break point dell’autonomia scolastica fu contrassegnata dalla applicazione della Legge 59/97 e dunque la collocava in continuità e applicazione dei principi e della filosofia di un disegno complessivo di riforma della Pubblica Amministrazione. Di seguito vi fu la riforma del Titolo V che ricollocava spirito e lettera della Bassanini entro un quadro istituzionale nuovo e coerente. La scuola ne era pienamente investita, dunque proiettava le proprie prospettive in un ambito di senso più ampio e mobilitante.
2.
Il Regolamento dell’Autonomia recepiva elementi
sostanziali dello spirito di riforma della Pubblica Amministrazione rispetto
al riassetto delle Istituzioni scolastiche.
Dalla definizione stretta ed essenziale delle materie di esclusiva
competenza del Ministero a un larghissimo disegno di potenzialità ancora
inesplorate che andavano dall’autonomia organizzativa, al carattere
budgetario del modello di gestione delle risorse; dalla autonomia di ricerca
e sviluppo alla potenzialità delle reti; dall’autonomia di progettazione
alla possibilità di “organici di rete.
3.
La riforma del Titolo V Cost riconosce il ruolo
dell’autonomia scolastica non a livello di “principi generali” (come
l’autonomia della cultura e della scienza che fonda l’autonomia delle
Università) ma in sede di definizione dei poteri normativi e amministrativi
ripartiti tra Stato e Regioni. Dunque è una autonomia ascritta alle fasi di
“governo” del sistema e della produzione finale dei servizi al diritto di
cittadinanza all’istruzione.
Si configura così un potenziale ruolo delle istituzioni scolastiche nelle
conseguenti strutture di governance di un sistema a titolarità miste
e concorrenti.
4.
Il nuovo soggetto pubblico (in termini
classificatori un nuovo Ente Pubblico), sfuggendo in parte a repertori
consolidati di tassonomie del Diritto Amministrativo (vedi le esercitazioni
di “scuola” che pervennero ad una classificazione di “ente funzionale” per
altro priva di conseguenze nel passare dalla tassonomia alla individuazione
di organi, strutture operative conseguenti e regole di gestione
effettivamente “funzionali”) dava origine a una duplice semantica.
Da un lato Ente Pubblico servente del Ministero della Pubblica Istruzione,
secondo le istanze del decentramento e della razionalizzazione della catena
di comando di un macrosistema non più governabile secondo il modello
tradizionale di accentramento (una filiale del ministero per essere
sintetici).
Dall’altro soggetto pubblico operante in diretta prossimità dei cittadini e
dunque capace di interpretare i principi e la filosofia della sussidiarietà
(uno dei principi ispiratori del “federalismo possibile” delle nostre
istituzioni) rispetto alla produzione dei servizi corrispondenti al diritto
di cittadinanza all’istruzione nei confronti della comunità locale.
5. Lo sviluppo di tale dialettica, ha segnato, negli anni successivi il prevalere della prima interpretazione. L’azione amministrativa, in questi anni di transizione è stata sempre diretta a “delimitare” lo spazio e gli ambiti dell’autonomia e probabilmente, nel gioco delle parti della dialettica citata, non poteva che essere così. In particolare
- Non è stata data attuazione coerente alle parti del Regolamento dell’Autonomia che riguardavano i livelli di “padronanza” delle risorse materiali, umane e organizzative. (Carattere budgetario del Bilancio, flessibilità organizzativa interna per quanto attiene a tempi, spazi, utilizzazione del personale, solo per fare qualche esempio).
- Sono state al contrario decentrate alle scuole numerose incombenze burocratiche, mentre la struttura dell’Amministrazione, centrale e periferica, ha mantenuto un peso specifico notevole ed è aumentata la produzione “normativa” che ha alimentato la catena di comando tradizionale (circolari, note, monitoraggi, ordinanze ecc…)
- L’amministrazione ha consolidato un intervento diretto proprio sul piano della progettazione culturale e didattica che il Regolamento intesta alla istituzione scolastica autonoma.
In questi dieci anni è aumentato il numero e il peso dei progetti (culturali e didattici) promossi dal Centro e ai quali le scuole venivano invitate ad aderire, su un ventaglio estesissimo di materie: dai patentini per ciclomotore ed educazione stradale, alle attività di apertura pomeridiana delle scuole; dalle “letture di Dante” alla “cultura della sicurezza”, alla musica, alla diffusione delle TIC.- A tale impropria attività di progettazione culturale ministeriale (altra è la mission dell’amministrazione) ha corrisposto una sottrazione di risorse alla gestione diretta delle scuole e affidate alle direzioni generali (il MIUR ha 12 Direzioni Generali centrali ed una in ogni Regione: non proprio un esempio di deconcentrazione di potere); ma soprattutto uno strumento di consolidamento della “potestà di erogazione” esercitata dell’amministrazione centrale.
Potere di erogazione di risorse e di autorizzazioni. L’antico potere “della borsa e della firma” di cui parla Cassese, rideclinato attraverso lo strumento di controllo di elementi di progettazione didattica e culturale, che si aggiunge a quello relativo al controllo delle risorse umane, delle procedure amministrative, dei vincoli nelle norme di gestione economica. A tutto ciò si somma il progressivo contrarsi assoluto delle risorse, che ha ovviamente altre responsabilità.
6. Incertezze, lentezze, contraddizioni, confronto irrisolto di interessi, permanere di stratificazioni storico-culturali-politiche, hanno contrassegnato parimenti il decennio di applicazione del Titolo V Cost. al sistema di Istruzione. Un decennio contrassegnato da
§ Forte contenzioso interpretativo presso la Corte Costituzionale riguardante leggi Regionali e Leggi dello Stato.
§ Il legislatore regionale non ha provveduto coerentemente ai suoi compiti legislativi o lo ha fatto con tali elementi differenziali tra le regioni che non consentivano effettivi trasferimenti di potestà (si vedano riferimenti nelle pronunce della stessa Corte Costituzionale).
D’altro canto il legislatore statale ha emanato una sola legge di carattere generale, come previsto dalla Costituzione (la Legge 53/2003) le cui deleghe per altro sono ancora non completate (si pensi alle indicazioni per i curricoli); mentre è intervenuto anche “strutturalmente” nel sistema di istruzione attraverso strumenti normativi impropri o di tipo regolamentare(basti rammentare la modifica dell’obbligo scolastico attraverso una finanziaria). La sfida sostanziale contenuta nel Titolo V a carico dello Stato (la definizione dei livelli essenziali di prestazione da garantire a tutti i cittadini) non è neppure stata affrontata.§ L’istanza di governance (la Conferenza unificata) ha definito un masterplan nel 2008 ed è ancora alle prese con una raod map per giungere ad affrontare alcuni problemi nodali, tra i quali la gestione del personale e il trasferimento di funzioni, ruoli e potere dai terminali periferici dell’Amministrazione alla Regioni. Ma tra tali problemi vi è anche quello della rappresentanza, nello stesso sistema di governance, delle scuole autonome (e vi si tenta di rispondere con il Disegno di Legge che stiamo commentando).
§ Le stesse Regioni, anche nell’esercizio delle competenze ristrette per ora disponibili non hanno dato certamente prova di appropriatezza nella programmazione territoriale. Per molti versi hanno convalidato una idea di un necessario “federalismo differenziato” (si pensi ad una vicenda come il dimensionamento).
Più in generale non pare siano in grado, o non tutte con la medesima capacità politico-amministrativa di interpretare il “federalismo possibile”.
Il federalismo non semplifica affatto la catena gestionale che parte dalla definizione della politiche, procede al reperimento delle risorse per terminare con la generazione di servizi pubblici. Dal punto di vista “funzionale” esso sostituisce un soggetto centrale (lo Stato) con tanti soggetti decentrati, le Regioni. Sempre in termini funzionali non è affatto scontato che le Regioni sappiano gestire le loro competenze meglio di quanto lo Stato o altri livelli amministrativi sappiano fare, mentre è certo che si moltiplicano i punti decisionali, i livelli di partecipazione, di mediazione e i relativi costi.
Due problemi dunque che rischiano di contrapporsi: la “narrazione democratica” della vicinanza ai cittadini da un lato e l’efficienza della produzione di servizi dall’altro; la scommessa che tale vicinanza sia in grado di sviluppare efficienza capace di “più che compensare” l’aumento dei costi connessi alla mediazione è la sfida democratica di questa fase. Inutile rammentare che, in questa sfida si confrontino il costrutto della “governance” con quello più tradizionale (e rassicurante) del “government”.
Sarebbe ingeneroso gravare di tale insieme di problemi irrisolti un disegno di Legge sugli organi di governo della scuola; e tuttavia alcune delle sue norme si inseriscono direttamente nelle problematiche rammentate più sopra, e dunque il commento non può astenersi da tali riferimenti. Mi limito perciò ad indicare alcune riflessioni relative a tali “snodi”, molti dei quali si articolano sul riconoscimento della potestà statutaria da parte delle scuole autonome.
1.
Già si è rammentata la difficile definizione
“istituzionale” di quell’atipico Ente Pubblico che è la scuola autonoma (ma
forse gran parte degli Enti Pubblici sono “atipici”. Si vedano i riferimenti
a S. Cassese), e i “due sguardi” che hanno caratterizzato il decennio di
applicazione dell’autonomia (ente strumentale del Ministero o soggetto
pubblico della sussidiarietà?). Qui si aggiunge un ingrediente ulteriore e
della massima importanza.
L’estensione della potestà statutaria sembrerebbe assimilare la scuola
autonoma all’Università e/o agli enti territoriali.
Si introduce ad un “modello” di soggetto pubblico che potrebbe avere
ampie conseguenze sia in rapporto alla determinazione delle sue “regole” di
funzionamento interno, sia delle rappresentanze, sia del suo rapporto con i
più ampio sistema di governance esterno (si pensi appunto alla
assimilazione con l’Università o con gli enti territoriali); sia in
particolare del suo rapporto con il Ministero.
Ma si riflette ovviamente anche sul ruolo e le attribuzioni di figure
essenziali come il Dirigente Scolastico o il Collegio dei Docenti.
Ma cosa ha “davvero in mente” il legislatore? La proposta si misura con
condizioni reali in atto? Cito solo un esempio per provocazione: a un ente
con potestà statutaria può essere impedito di avere un Conto Corrente
Bancario per la propria gestione?
L’interesse per tale innovazione, le sue prospettive rischiano di essere
compromessi proprio dalle contraddizioni che si aprono tra l’enunciato e la
realtà.
2.
Normalmente il “rappresentante” di un Ente a
potestà statutaria è elettivo (ciò vale per i Rettori di Università,
come per i sindaci ecc…). Nel nostro caso la rappresentanza è mantenuta ad
un dirigente pubblico che risponde, nel suo rapporto di lavoro e nelle sue
attribuzioni, al Ministero. Occorrerà riaprire una riflessione sul ruolo dei
Dirigenti Scolastici già oggi segnato da “atipicità” classificatorie (sono
gli unici Dirigenti pubblici che nelle loro attività e responsabilità devono
misurarsi con organismi di diversa potestà, come il Consiglio di Istituto o
il Collegio dei Docenti. Ora avrebbero interlocuzione con un organismo che
esprime anche potestà statutaria).
Si delinea qui una contraddizione che rischia di mortificare o invalidare la
portata innovativa della potestà di statuto. O comunque si è in presenza di
una norma che non risolve, ma apre problemi.
3.
L’autonomia statutaria non può che rafforzare
il ruolo del “Consiglio dell’autonomia” che sostituisce il vecchio
“consiglio di Istituto” e, se non si tratta di semplice “cosmesi”, ciò non
può che ridisegnare diversi equilibri tra ruoli e funzioni tradizionali. In
particolare rispetto al Collegio dei Docenti.
Si veda comma 4 dell’art. 1 del Disegno di Legge: “Gli statuti delle
istituzioni scolastiche regolano l'istituzione, la composizione e il
funzionamento degli organi interni nonché le forme e le modalità di
partecipazione della comunità scolastica”. E ancora (art.6) “Al fine di
programmare le attività didattiche e di valutazione collegiale degli alunni,
lo Statuto disciplina l'attività del Consiglio dei docenti e delle sue
articolazioni”.
Io non ho, al contrario di molti (si vedano le precisazioni e le riserve di
qualche sindacato) alcuna preclusione rispetto a ciò. Mi limito a
rammentare, a proposito di capacità di governare le transizioni, che si
tratta di una “nuova narrazione” che mette in gioco modelli stratificati,
significati, identità professionali. Mi preoccupa il fatto che il
legislatore abbia davvero contezza di ciò, e sappia perciò rispondere alle
reazioni che la novità produrrà.
4. L’autonomia statutaria che investe la determinazione delle regole del proprio funzionamento concreto, si rapporta direttamente con la realtà attuale di un “ente strumentale” del Ministero. All’autonomia statutaria, sempre se non se ne vuole praticare una versione “cosmetica”, non possono che corrispondere effettivi livelli di maggiore padronanza dei “fattori della produzione del servizio” (risorse umane, risorse materiali, regole procedurali, modalità e vincoli della gestione ecc..). Voglio, per provocazione, fare un esempio. Supponiamo che uno Statuto approvato da un Consiglio dell’autonomia si articoli nelle sue parti nel modo seguente (i titoli del suo articolato)
§ Principi di libertà, autonomia professionale
§ Rispetto degli standard nazionali e promozione dell’arricchimento quantitativo e qualitativo del servizio di istruzione per il territorio e la comunità locale.
§ Perseguimento dell’efficacia e dell’efficienza nell’uso delle risorse economiche ed umane
§ Rapporto tra pubblico e privato per perseguire l’arricchimento dell’offerta formativa
§ Programmazione e dialogo permanente con i soggetti economici e sociali del territorio
§ Favorire e organizzare la partecipazione degli utenti e dei cittadini.
§ Rendicontazione sociale
Quanto nella declinazione di tali capitoli è effettivamente nella “padronanza” dello Statuto dell’Autonomia? E non si tratta solamente del rapporto con il Ministero, ma più complessivamente con la “cultura scolastica disponibile”, come più sopra ricordato. Non sfuggiranno ai lettori le cautele e le riserve espresse per esempio dal sindacalismo scolastico, che richiamano anche esplicitamente la necessità di avere “modelli standard” di statuto o procedure di “approvazione specifica”, mentre il disegno di legge prevede solo interventi ex post di carattere cautelativo e da parte dell’interlocutore regionale (solo provvisoriamente USR).
5.
Il valore della “partecipazione”,
nell’autonomia statutaria, esige rideclinazione opportuna. La realtà
attuale, in tutte le indagini sul campo, testimonia una diffusa
contraddizione tra la partecipazione dei genitori che è massima nei momenti,
spesso poco formalizzati o informali, dei colloqui, dei consigli di classe o
comunque laddove si affronta la “materialità immediata” degli interessi in
gioco, ed è minima nelle fasi elettorali di definizione dei Consigli di
Istituto.
Il testo del disegno di legge affida allo Statuto il compito di regolare le
modalità di partecipazione, compresi gli strumenti elettorali e di
formalizzazione delle rappresentanze.
Si apre un terreno importante per sperimentare forme e modalità nuove. Ma
temo che, sic stantibus rebus, sia più che presente la tentazione di
“riformalizzare” (secondo tradizionali canoni elettorali) invece che di
“riformare”.
Accenno solo alla considerazione che le istanze attuali alla partecipazione
sono assai diverse da quelle che si tentò di interpretare negli anni ’70 con
gli Organi Collegiali. Allora si pensò di rispondervi articolando fasi ed
istituti della “intermediazione” attraverso i quali rielaborare consenso e
significati comuni. Oggi le persone tendono a guardare alla partecipazione
attraverso la metafora della “rete”. E la rete, per definizione è percepita
come “disintermediazione”. (Vale più, in termini di partecipazione, un buon
sito della scuola visitato giornalmente da qualche centinaio di genitori,
per le informazioni puntuali che fornisce e le discussioni che stimola, o il
numero di elettori, sempre più scarso nelle elezioni del Consiglio di
Istituto? Come sapremo rideclinare le due forme, posto che siano entrambe
necessarie).
Anche in tale caso un interessante prospettiva di cambiamento, che va ben al
di là delle minute prescrizioni di salvaguardia “corporativa” (absit iniuria
verbis) che molti commentatori avanzano. La sfida della transizione
continua.
6.
L’art. 1 del disegno di legge contiene una
affermazione di grande (potenziale) interesse per tentare di rimodellizzare
il ruolo della scuola nel sistema di governance e dunque i suoi
rapporti tanto con il Ministero, quanto con il sistema delle autonomia
territoriali. Testualmente “Ogni istituzione scolastica autonoma, che è
parte del sistema nazionale di istruzione….”.
Sembra una ovvietà. Ma si consideri questa affermazione “…per
amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato,
ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni
educative…” dal D. Lgs.vo 165/2001, che disciplina “l’organizzazione
degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche” (e sappiamo la sua influenza nel determinare gli
assetti reali degli Enti Pubblici ed il loro funzionamento. Per esempio per
inquadrare il ruolo dei Dirigenti Scolastici).
Le due affermazioni corrispondono evidentemente a due “filosofie” non solo
diverse, ma contrastanti che bene rappresentano un irrisolto già citato (la
configurazione delle scuole autonome come enti pubblici).
Voglio assumere l’inciso dell’art. 1 del Disegno di Legge sull’autogoverno
delle scuole, come una provocazione e rilanciare.
Uso la configurazione del Servizio Sanitario Nazionale (dunque qualche cosa
di esistente e di facente parte del settore pubblico e parimenti rispondente
ad un diritto di cittadinanza) come metafora che mi risparmia il dettaglio
analitico qui impossibile.
Alla “fondazione” del servizio Sanitario Nazionale sta una affermazione
fondamentale (Legge 833/1978) “il servizio sanitario nazionale è costituito
dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi, e delle attività
destinati alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica
e psichica di tutta la popolazione…. L’attuazione del servizio sanitario
nazionale compete allo Stato, alle Regioni e agli enti locali territoriali,
garantendo la partecipazione dei cittadini”.
Tele impostazione fu ribadita successivamente (D.Lgs. 502/1992), quasi con
le medesime parole.
Secondo tale impostazione il servizio sanitario non è una funzione, una
struttura, un servizio dello Stato; ma non è neppure un ente pubblico o una
persona giuridica (e così si fuoriesce dalle strettoie definitorie del
tradizionale Diritto Amministrativo[1]);
è invece una organizzazione complessa cui lo Stato ed altri soggetti danno
vita per garantire un diritto costituzionale. E si disegna così il
territorio di un “governo misto” per la produzione di un servizio ai
cittadini. (Come si vede le affermazioni del Titolo V hanno illustri
precedenti)
Attendo (una sfida) che il legislatore ponga in qualche suo intervento una
dichiarazione fondativa simile rispetto al “Sistema Nazionale di educazione,
istruzione e formazione”, e da lì faccia conseguire lo sforzo di
ridefinizione di soggetti, enti ambiti di decisionalità, di governo, e di
produzione del servizio concreto, ridisegnando radicalmente competenze,
attribuzioni, responsabilità. Per ora ci si esercita “cominciando dalla
coda”. Nulla di male, ma si rischia di perdersi in particolari (e “occhiuti”
e parziali interessi) e trascurare l’essenziale.
Mi basterebbe anche una affermazione di principio che sancisse che
l’autonomia, da singolo requisito della singola organizzazione scolastica
costituisce invece una “regola di funzionamento” dell’intero sistema.
7.
E’ di grande interesse il tentativo di
riorganizzare la dimensione “territoriale”, e trovo corretto che tale
ridefinizione sia affidata alle Regioni. Ovviamente si aprono diverse
questioni di dettaglio (rappresentanze, organismi più o meno formalizzati,
Consulte o Consigli, ecc…). Anche tali questioni vanno affrontate tenendo
conto dei principi generali (quelli ai quali si è tentato di raccordare
l’argomentazione precedente) ma con la preoccupazione di “inverarli” nelle
condizioni materiali del sistema. Qui molto dipenderà dalle culture di
governo delle Regioni.
Accanto livello delle corrette definizioni istituzionali e del passaggio
effettivo di poteri e competenze, vi è quello essenziale degli assetti
amministrativi, l’organizzazione concreta dell’amministrazione regionale.
Mi limito solamente ad alcune considerazioni generali che riguardano
l’impresa che ogni Regione deve affrontare a fronte dell’ampliamento delle
sue competenze
§ Maggiore è il trasferimento di funzioni (e di risorse) più essenziale diviene il problema di comprendere, dal punto di vista tecnico, politico ed economico, se l’assetto organizzativo sia adeguato. Soprattutto nei casi in cui le classi dimensionali dei soggetti non riescano a garantire, possibili economie di scala.
§
Regioni con prerogative e forti e dichiarate
ambizioni “programmatorie” e con deleghe operative a livelli inferiori,
(Provincie, Comuni, ambiti territoriali di servizi…) misurano la propria
funzionalità non negli “istituti” formali, ma nelle effettive economie di
scala nella produzione di servizi di cui hanno la competenza esclusiva sul
piano programmatorio.
Definire i medesimi contenitori territoriali attraverso “organismi formali”
in territori di scala dimensionale assolutamente diversa significa solamente
introdurre elementi di costo e di inefficienza in più.
Dunque, poste alcune affermazioni generali di valore,
l’intera materia delle rappresentanze e dei ruoli territoriali (reti,
organismi di governance locale, ecc) deve essere filtrata dalle condizioni
materiali di economia di scala, o che comunque tengano conto della variabile
dimensionale che condiziona la produttività e qualità dei servizi (la
“sussidiarietà praticata”).
Non possiamo predefinire per legge nazionale gli stessi organismi, e
individuati con il medesimo meccanismo, per la Lombardia e per una Regione
con meno abitanti complessivi di un quartiere di Milano.
Naturalmente su questo piano il dato “tecnico” si confronta con la
narrazione storico istituzionale e con un passato e tradizione che è diversa
da Regione a Regione. Ma appunto ciò che non si può pensare è l’uniformità
di dettaglio di una norma nazionale.
8. Della questione che sembra più far discutere (l’organismo di valutazione interna) non entro. Si tratta di tradurre un obbligo esistente da tempo, per tutti gli enti pubblici, e sempre disatteso. Semmai va detto che laddove le scuole lo hanno sperimentato si tratta di cosa assi più complessa di quanto descritto dalla legge in discussione. Si tenga conto della ricchezza di quelle esperienze nella traduzione operativa della norma
[1] Un vecchio maestro mi diceva sempre, provocando: “il diritto civile si occupa degli interessi delle persone, il diritto penale si misura con le passioni.. il diritto amministrativo è il “nulla”, la pura forma. Peccato che ad esso si affidi la “produzione reale” di cose importanti per i cittadini”