Pavone Risorse

Le Istituzioni scolastiche nel contesto delle autonomie

25.11.2013

Autonomia scolastica: breve cronistoria di una riforma
di Enrico Bottero

 (Questo articolo è disponibile  anche sul sito www.enricobottero.com e in lingua francese sul sito del Prof. Philippe Meirieu all’indirizzo http://www.meirieu.com/FORUM/forumsommaire.htm ) .

 

Nel corso degli anni Ottanta  e dei primi anni Novanta del secolo scorso si è avviata una lunga e articolata discussione sia tra gli esperti che nel mondo politico  sulla necessità di riformare il sistema scolastico italiano[1].  Il problema principale da risolvere era quello di far funzionare meglio la scuola pubblica diventata ormai una struttura elefantiaca difficilmente governabile. Essa, si diceva giustamente, non avrebbe più potuto continuare ad operare con un’organizzazione  centralistica e burocratica. L’esigenza di decentramento era anche legata al fatto che da tempo si includeva nel “sistema formativo”  una pluralità di soggetti pubblici e privati del territorio (sistema formativo integrato).  Queste ed altre ragioni imponevano nei fatti  nuovi meccanismi di governo decentrato del sistema. In Italia questo decentramento è stato realizzato  scegliendo la formula del riconoscimento di autonomia amministrativa, didattica e organizzativa direttamente alle scuole. Questa scelta ha avvicinato l’Italia ai Paesi dove le scuole sono Enti autonomi con ampi poteri decisionali. Si è trattato, tuttavia, di una scelta incompiuta che ha creato anche molti problemi. E’ necessario portarla a compimento  nella direzione indicata da molti tra coloro che l’avevano delineata o, sia per ragioni di principio che di realismo, è necessario  rivedere alcune di quelle scelte?  Il decisore politico è oggi chiamato a scegliere una di queste vie. Ciò che non potrà fare è lasciare le cose come sono, con le loro contraddizioni e col rischio di un implosione del sistema. Nelle  pagine che seguono cercherò di argomentare la mia posizione in merito.

 

La scuola non è solo un servizio, ma anche e prima di tutto un’Istituzione

 L’autonomia ha portato con sé un cambiamento sostanziale nella natura  della scuola pubblica. La scuola, lo sappiamo, è sia un’Istituzione della Repubblica che un servizio ai cittadini. Un’organizzazione che offre servizi, come tale, deve garantire efficienza ed efficacia. Anche la scuola è senza dubbio un servizio, ma un servizio “pubblico”. La scuola, infatti, è anche un’Istituzione. L’Istituzione è qualcosa di più di un servizio, è una realtà che  gode di particolare tutela essendo depositaria di valori fondanti la società e la convivenza civile. Il suo valore non sta solo  nella soddisfazione degli utenti ma anche e soprattutto nella sua fedeltà ad alcuni principi fondanti. Penso in primo luogo agli obiettivi di socializzazione,  ma anche alla promozione di uguaglianza di opportunità indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, dallo stato di salute, dalla provenienza etnica, culturale o religiosa, ecc. In quanto Istituzione, questi suoi principi fondanti non appartengono ai singoli utenti ma a tutta la comunità nazionale. I singoli utenti o gruppi di essi possono e devono contribuire a migliorare il modo in cui la scuola offre i suoi servizi ma non intervenire per modificarne i principi. Se la soddisfazione degli utenti, fatto contingente,  va a confliggere con uno dei principi fondanti sono inevitabilmente questi ultimi a dover  prevalere[2].

La tesi che intendo  argomentare è che l’autonomia scolastica, così come si è sviluppata nel nostro Paese, ha messo gradualmente in ombra i principi fondanti  che la scuola Istituzione deve invece garantire. E’ prevalsa invece una concezione della scuola come servizio, con ampie concessioni ad una sua versione consumeristica. L’ “utente” del servizio è diventato gradualmente sempre più “cliente”. La cosa è stata complicata dal fatto che questo modello in Italia è stato  adottato in una forma ibrida e contraddittoria. Ad esempio, mantenuti intatti istituti  precedenti in gran parte contrastanti con il nuovo modello organizzativo,  che avrebbe richiesto efficienza, velocità di decisioni e massima flessibilità (Organi Collegiali a struttura partecipativa sul modello di consigli politici, assenza di valutazione degli insegnanti, forte tutela  degli stessi anche a discapito del servizio e degli alunni). Si è creato così un ibrido che, al di là delle riserve di principio, ha dimostrato di non poter funzionare sul piano pratico. Il risultato è un sistema formativo che non ha guadagnato in equità e neppure in efficacia/efficienza.

Si è trattato di un’autonomia incompiuta, senza poteri reali e responsabilità connesse (salvo per il Dirigente Scolastico, che viene considerato “responsabile dei risultati” senza peraltro poter agire sulle leve necessarie ad ottenerli, un “Amministratore delegato” senza reali poteri sulle leve reali per raggiungere risultati). Nella direzione di una completa autonomia sono stati più coerenti i membri del cosiddetto “gruppo del buon senso”, composto di esperti facenti riferimento a diverse aree politiche (primi firmatari Vittorio Campione, Paolo Farratini, Luisa Ribolzi)[3].

Secondo questi esperti un’autonomia reale per funzionare deve comprendere l’assunzione diretta di poteri e responsabilità e quindi:

 Il documento, elaborato dal gruppo alcuni anni fa, è un esempio di coerenza, consequenzialità  e chiarezza. Si tratta solo di decidere se questa via (quella della vera autonomia di stampo anglosassone) sia quella utile e necessaria per l’Italia. Io credo di no, prima di tutto per ragioni di principio, che ho in parte già indicato, ma anche per ragioni  contingenti connesse alla nostra tradizione storica e culturale (debolezza  dell’unità del Paese con accentuato localismo, difficoltà ad assumere una cultura trasparente della valutazione e della responsabilità, rischi di gestione clientelare, ecc.). Molti di coloro che hanno posto fin dagli anni ’80 il tema dell’autonomia hanno dato per scontato “l’ormai definitivo consolidamento dell’unità complessiva del Paese, realizzatasi storicamente attraverso la costante accentuazione di un’ottica centralistica”[4]. Si è trattato, con ogni evidenza, di una  valutazione troppo ottimistica, come hanno dimostrato gli eventi successivi (i movimenti  secessionisti, la spinta verso un localismo chiamato impropriamente “federalismo”). La via più corretta, a mio parere, è il decentramento di poteri e funzioni, con particolare riferimento alla didattica e all’organizzazione dei corsi di insegnamento garantendo al contempo un significativo intervento pubblico nella formazione del personale e nel supporto tecnico pedagogico. Si può e si deve abbandonare la cultura dell’adempimento della vecchia scuola senza per questo  consegnarsi al  libero mercato dell’istruzione e lasciare le scuole abbandonate a se stesse. E’ certo  che non si può mantenere lo stato attuale, un ibrido che contiene aspetti in netto contrasto tra loro  e che  crea  più danni che vantaggi.


Le proposte del centro sinistra sulla scuola  nel 1995

 La svolta verso l’autonomia avviene nella seconda metà degli anni Novanta con il primo Governo Prodi.  Quali erano le proposte sulla scuola del programma dell’Ulivo e quali di esse si sono realizzate? Nel documento dell’Ulivo “La scuola che vogliamo” del dicembre 1995[5] si scrive che “l’istruzione è un bene di merito la cui fornitura non può essere lasciata al libero gioco della domanda e dell’offerta”.  L’istruzione è infatti l’esercizio di un fondamentale diritto di cittadinanza. Questo diritto viene garantito dalla scuola pubblica.  Si aggiunge però che è scuola pubblica quella “gestita  sia dallo Stato e da Enti Locali sia da soggetti privati (religiosi e non)”. Ciò perché “la scuola di Stato  non riesce a svolgere la decisiva funzione della perequazione delle disuguaglianze, ad assicurare a tutti i giovani pari opportunità, medesime condizioni di partenza”. Questa affermazione  è piuttosto sorprendente. Essa, al di là delle intenzioni degli estensori del documento, segna l’inizio di una resa che vedrà i suoi sviluppi negli anni successivi.  Lo Stato, prosegue il documento programmatico, garantirà sostegno economico alle scuole non statali che accetteranno le condizioni poste dal sistema pubblico (tra le altre, libertà di accesso per tutti gli studenti e assunzione degli insegnanti per concorso). La Legge sulla parità scolastica (L. n.62/2000)  farà proprie solo alcune di queste condizioni. Ne “dimenticherà” alcune essenziali: al personale docente si limiterà a chiedere l’abilitazione, mentre il trattamento economico sarà quello del settore, quindi differente da quello degli insegnanti di Stato. Alle scuole paritarie, ai sensi della L.62, viene riconosciuta piena libertà per quanto concerne l’orientamento culturale e l’indirizzo pedagogico-didattico. Lo Stato quindi riconosce la parità, attribuisce finanziamenti ma rinuncia a  fornire fondamentali  linee di indirizzo (salvo delle blande “Indicazioni”, sulla cui attuazione non si esercitano reali controlli se non con i test Invalsi).  La scuola Istituzione, tra autonomia scolastica e scuole private riconosciute come paritarie, tende a dissolversi in una moltitudine di scuole con indirizzi diversi, tutte “pubbliche”.  Si passa così da una visione universalista dell’istruzione ad una sostanzialmente comunitarista e localista.

Questi sono i fondamenti su cui si innesteranno le scelte successive. Ma come è stato realizzato questo programma? Gli estensori delle proposte del 1995 erano ben consapevoli che un tale progetto sarebbe stato realizzabile solo garantendo un bilanciamento tra sfere di autonomia delle scuole e sfere di controllo. Nei sistemi formativi decentrati, infatti, l’autonomia viene compensata da un potere di indirizzo e da un sistema funzionale di valutazione/controllo dell’efficacia dei risultati. Anche i sostenitori del mercatismo più spinto  riconoscono  che l’autonomia per funzionare ha bisogno di regolazioni.

Le  principali forme di regolazione indicate nel programma dell’Ulivo erano le seguenti:

 Ci si rese subito conto  che una scuola organizzata in modo autonomo avrebbe  dovuto prevedere al suo interno funzioni diverse tra gli operatori. Dunque questa organizzazione non poteva essere lasciata al caso. Si prevedevano pertanto sia insegnanti con funzioni aggiuntive (coordinatori di classe, di materie, di dipartimenti, ecc.) che funzioni alternative all’insegnamento, di supporto e servizio (staff, collaboratori, vicepresidenza). Queste proposte, determinanti per garantire un buon funzionamento della scuola autonoma, per la gran parte non diventeranno realtà. L’autonomia partirà senza adeguati sistemi di regolazione, con rischi elevati di dispersione  del sistema.


La formazione in servizio degli insegnanti

 Sulla  formazione in servizio degli insegnanti si privilegiarono fin da subito le autonome iniziative di innovazione e ricerca delle scuole.  Secondo il documento del 1995 esse avrebbero dovuto essere incoraggiate con un sistema premiante (crediti) autorizzato preventivamente dagli Organi Collegiali. Non si specificava il ruolo di CEDE, BDP e IRRSAE.  In pratica non erano previste strutture pubbliche di supporto e organizzazione della formazione e dell’aggiornamento dei docenti. Non verrà realizzato neppure il sistema dei crediti, che peraltro  sarebbe servito a poco (il suo esito più comune è un’inutile distribuzione a pioggia). In generale, si sosteneva il modello dell’autogestione senza interventi esterni  sistematici dell’Ente pubblico. La vicenda si concluderà con il CCNL 1999-2001 che farà propria la logica dell’autogestione da parte delle scuole (con finanziamenti distribuiti a pioggia da parte dello Stato). La formazione in servizio viene considerata un diritto-dovere per i docenti, una formula ambigua per dire  che non è più obbligatoria, com’era in precedenza (obbligo di 40 ore annuali). Non verranno neppure previste forme di incentivazione. Negli stessi anni gli IRRSAE (Istituti Regionali di Ricerca e Aggiornamento Educativi, un presidio dello Stato in ogni Regione con il compito della ricerca educativa e della formazione degli insegnanti) perderanno la loro funzione di Enti Statali per l’aggiornamento mentre emergeranno soggetti privati riconosciuti dall’Amministrazione  che svolgeranno iniziative di formazione su richiesta delle scuole.  L’Italia è  così diventata in pochi anni uno dei Paesi in cui non esiste di fatto un sistema pubblico e diffuso sul territorio di formazione in servizio degli insegnanti (la formazione online di Indire non colma certo questa carenza).  Si è trattato di un grave danno arrecato alla scuola pubblica, passato quasi in sordina e realizzato dal Ministero con il sostegno delle Organizzazioni sindacali, evidentemente all’epoca più interessate a tutelare  presunti interessi di categoria che quelli del bene comune. L’interesse particolare, mascherato da conquista dei lavoratori,  ha prevalso su quello generale.


Parte l’autonomia

La vicenda dell’autonomia si concluderà con l’art. 21 della L. 59/97 attuata attraverso il  Regolamento successivo (DPR. 275/1999). Viene riconosciuta autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e sperimentazione a tutte le scuole che entro il 31/12/2000 avrebbero rispettato i parametri indicati dal DPR. 233/1998. Parte così l’autonomia scolastica, fortemente voluta dal Ministro Luigi Berlinguer. Il carro dell’autonomia, tuttavia, parte senza alcune componenti essenziali. Mentre scompaiono gli IRRSAE con funzioni di aggiornamento/formazione (sostituiti dagli IRRE, a cui vengono attribuiti compiti limitati e residuali) nascono gli Uffici Scolastici Regionali composti  quasi esclusivamente di personale amministrativo. Non nasce l’USR come struttura di supporto tecnico-professionale e pedagogico alle scuole (i magri distacchi di personale docente,  comunque  inquadrato in una struttura amministrativa, non sono affatto sufficienti a questo scopo).  Il sovrasistema non cambia ma contemporaneamente impone una riforma epocale alle scuole. Le altre forme di regolazione previste inizialmente non vennero realizzate al momento dell’avvio dell’autonomia alla fine del 2000. E’ partito l’INVALSI, anche se con molta gradualità. Solo negli ultimi anni  si è consolidata la sua funzione con compiti di valutazione del sistema (sui suoi compiti e sul ruolo dei test ci sarebbe da discutere ma il discorso qui sarebbe lungo).
 

Gli interventi sulla scuola dopo il 2000

  Dopo il 2001 la politica dell’istruzione in Italia è  stata segnata prevalentemente dall’azione dei governi di destra. I cambiamenti introdotti, com’era prevedibile,  andarono nella direzione di un ulteriore indebolimento del ruolo dello Stato nell’istruzione pubblica senza peraltro fare il passo decisivo verso il modello anglosassone delle autonomie. Queste azioni di scardinamento si potevano giovare di due importanti leve messe in campo dai governi di centro-sinistra: la Riforma del Titolo V della Costituzione (grazie alla quale l’istruzione non era più considerata competenza esclusiva dello Stato) e la L. 62/2000 sulla parità scolastica di cui s’è già detto. La Legge costituzionale n.3/2000 confermava la responsabilità dello Stato nell’istituzione di scuole ma ne assegnava la gestione e l’organizzazione alla legislazione concorrente con le Regioni. Allo Stato, in via esclusiva,  restavano solo i livelli  essenziali delle prestazioni e le norme generali dell’istruzione. Introducendo  la distinzione tra “Repubblica” e “Stato”, poi,  si legittimava costituzionalmente la separazione, già auspicata dal documento dell’Ulivo del 1995, tra “scuole della Repubblica” e “scuole dello Stato”.  Le azioni dei Governi successivi  partirono da queste premesse per esercitare la loro azione di disarticolazione. Mi soffermo qui solo sui punti principali delle Riforme avviate dopo il 2000.

Con il  D.L. n. 59/2004 le scuole primarie e medie inferiori sono tenute a fornire 891 ore annue di insegnamento e, se lo desiderano e i genitori lo richiedono, altre  99 (198 nella media). Il tempo scuola obbligatorio per tutti si riduce mentre nasce il servizio scolastico a domanda. La giusta esigenza di differenziazione didattica è la giustificazione di una soluzione “istituzionale”che promuove le disuguaglianze sociali e geografiche: la distinzione tra orario obbligatorio e “percorsi opzionali e facoltativi”.  Non ci sono più solo due modelli orari (tempo normale e tempo pieno o tempo prolungato). Si legittima invece l’assunzione di molteplici  modelli che accentuano le differenze, già consistenti, sia tra aree diverse dello Paese  che all’interno della stessa scuola.  Il tempo pieno della scuola elementare, che fino ad allora godeva di un riconoscimento  istituzionale, può così essere facilmente spezzettato e di fatto marginalizzato.  Queste scelte non riuscirono a polverizzare del tutto l’offerta formativa grazie all’azione regolativa messa in atto, non senza fatica, da molte scuole e dai loro Dirigenti.

Contestualmente il Ministero introduce nella scuola primaria l’insegnante prevalente, che sostituisce  l’organizzazione modulare. Quest’ultima disposizione sarà realizzata solo in alcune scuole a causa della forte opposizione di gran parte degli insegnanti (che ormai avevano assimilato positivamente la formula organizzativa adottata dopo il 1991). Questi ultimi, in forza della riconosciuta autonomia didattica, avranno buon gioco nel contestare il dirigismo ministeriale sui modelli organizzativi.

Il ministro Fioroni lasciò sostanzialmente intatto il quadro predisposto dalla riforma Moratti. Si limitò a reintrodurre l’obbligo di istruzione (cancellato dal D.L. 76/2005) e ad emanare nuove Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo superando quelle precedenti (grande elemento di continuità: il personalismo cattolico, vera koiné della cultura pedagogica nazionale dal dopoguerra ad oggi).


Liberismo autoritario: ritorno all’ordine in nome della libertà dallo Stato

 L’ultimo atto, quello del Ministro Gelmini, segna il vero e proprio  attacco finale alla scuola di Stato. In questo caso, a differenza della Riforma Moratti, che comunque vantava un impianto pedagogico di tutto rispetto (per quanto,  a mio parere, molto discutibile)[6], le iniziative sono all’insegna della pura restaurazione e del risparmio di  risorse a danno della scuola pubblica. Con gli interventi proposti si invoca il ritorno all’ordine che sarebbe stato compromesso dalla stagione successiva al ’68. Dunque più meritocrazia,  selezione e  autorità.  Anche la pedagogia sarebbe stata responsabile, secondo il Ministro, insieme al ’68, di gran parte dei problemi dell’educazione di oggi. Questi sarebbero dunque i tempi della “giusta” selezione e del ritorno ai “buoni vecchi metodi”, alle “discipline” insegnate con severità.  Siamo stati inondati per anni da interventi e pubblicazioni in nome del ritorno alla serietà e al merito (e non è ancora finita). Come in  ogni periodo di decadenza si è ripiegato su un passato mitizzato e inesistente, l’età dell’oro della scuola “seria”  senza porsi le domande ingombranti e necessarie. Ad esempio, non si è detto che la scuola prima del 1968 non era affatto la scuola che premiava il merito  garantendo uguaglianza di opportunità. Era piuttosto una scuola selettiva che discriminava ampie fasce della popolazione e impediva di fatto  l’esercizio della sua funzione di ascensore sociale. Una scuola  a struttura piramidale tipica di una società premoderna e ben lontana dai sistemi liberali tanto auspicati a parole. Un “liberismo autoritario”, un’invenzione per nulla ingenua, figlia delle nuove forme di autoritarismo che si fondano su un’identificazione fusionale tra l’autorità e il popolo, entrambi uniti dalla fede nella civiltà dell’apparenza. Il problema di una scuola moderna è quello di trasformarsi da struttura selettivo-elitaria in una struttura comprensiva in cui il tema del merito fa tutt’uno con quello dell’uguaglianza. Qui, al contrario, si è saltato a piè pari il problema dell’uguaglianza  per consegnarsi a un’obbedienza che non è il frutto di una libera discussione e del patto sociale tra cittadini, ma di un’adesione a modelli consumistici e manipolatori. Un esempio devastante per le nuove generazioni[7].

Nella scuola  elementare  il Ministero Gelmini promuove il modello orario minimale di 24 ore settimanali. Contestualmente reintroduce la valutazione con i voti e, a partire dalla prima media, anche il voto di comportamento (che concorre alla determinazione dei crediti e può impedire il passaggio alla classe successiva in caso di giudizio inferiore a sei decimi). Imponendo alla scuola la valutazione certificativa  degli apprendimenti con cadenza annuale (DPR 122/2009) si impedisce di fatto l’adozione di cicli biennali/triennali. I cicli, come ci ricordano gli studi di pedagogia differenziata, potrebbero aiutare tutti gli alunni  a raggiungere meglio gli obiettivi prefissati. In linea con una concezione della scuola  di tipo selettivo, ma senza alcuna  promozione delle capacità di tutti, si appiattisce la valutazione sulla sua dimensione pubblica a scapito di quella formativa (essenziale, soprattutto nella scuola di base, al fine di promuovere l’apprendimento).

Questo impianto repressivo nei confronti degli alunni (i meno tutelati, senza corporazioni che li difendano e con un’opinione pubblica cloroformizzata) si accompagna a un radicale taglio degli organici degli insegnanti e del personale ATA (DL 112/2008 e L. 133/2009) e a una riorganizzazione della rete scolastica. I tagli non hanno risparmiato neppure la scuola dell’infanzia, ove la riduzione del personale non docente, che vi svolge un ruolo essenziale di supporto, rischia di produrre effetti devastanti. Nel solo a.s. 2010/2011 si è realizzato un taglio di circa 25.600 posti in organico docenti a livello nazionale.

Il nuovo Ministro Francesco Profumo non ha introdotto finora modifiche sostanziali. Qualche segnale positivo emerge dal bando di concorso per l’assunzione di docenti e dalla conclusione del Concorso dei Dirigenti Scolastici (quest’ultimo ha colmato, ma solo in parte, una carenza scandalosa che ha danneggiato il funzionamento delle scuole, essendo state costrette a operare per anni senza la presenza della figura più importante ma con Dirigenti reggenti). Le recenti disposizioni sul merito misurato e quantificato con un criterio economico prefigurano tuttavia una concezione della scuola ben diversa dall’Istituzione e dai suoi principi fondanti.[8]

 

Educazione, democrazia e ruolo dello Stato nell’istruzione

 Concludo con alcune brevi considerazioni seguite da qualche proposta. Nella vulgata collettiva comunemente accettata si è diffusa una nuova versione della teoria funzionalista dei sistemi formativi. Essi non sarebbero altro che la macchina per produrre il “capitale umano”, indispensabile a vincere le sfide della concorrenza globale. E’ la posizione liberista, il corrispettivo della versione estrema della teoria marxista (la scuola come agenzia di  riproduzione sociale, secondo la formulazione di Althusser). In entrambi i casi la scuola è concepita come un semplice sottosistema funzionale agli interessi  economici. In una democrazia autentica la scuola non è certamente esente dai condizionamenti dei poteri ed è sempre  in stretta relazione con lo sviluppo e l’efficienza economica, ma esercita anche un essenziale ruolo formativo ed emancipatorio degli individui. Essa non deve solo far acquisire un sapere e un saper fare, ma aiutare il minore a liberarsi dalla logica del tutto subito (il motore pulsionale del consumismo)  facendone così un cittadino libero, in grado di operare per una maggiore solidarietà tra le culture e tra le persone. In questo senso l’educazione è legata strettamente ai destini della democrazia. L’educazione così intesa non deve naturalmente ignorare le esigenze del mondo del lavoro. Non si può negare infatti che la scuola debba sviluppare conoscenze di cui gli allievi possano anche comprendere l’utilità,  se pur  non immediatamente (il problema della finalizzazione delle conoscenze è stato un tema ricorrente delle scuole attive che, pur non usando il termine “competenze”, di fatto le perseguivano).

La scuola pubblica, struttura complessa, richiede certamente un decentramento di compiti, ad esempio la distribuzione sul territorio di strutture di supporto,  indirizzo, formazione e valutazione. Nei sistemi meno autonomi queste strutture hanno anche una funzione di gestione amministrativa (è il caso della Francia, ove sono presenti entrambe le tipologie). In Italia, dove si è adottata l’autonomia, sono proprio gli Uffici amministrativi a continuare ad esercitare la loro funzione mentre sono  carenti le strutture pedagogiche  e tecniche di supporto, quelle nel nostro caso più essenziali. Sul solco della nostra tradizione  il diritto amministrativo continua a governare le esigenze pedagogiche e funzionali e non viceversa. Si è voluta lanciare la scuola nel mare aperto dell’autonomia ma il sovrasistema non è sostanzialmente cambiato nella  sua struttura e mentalità, con il risultato che a mancare è proprio l’autonomia che era più necessaria, quella didattica e organizzativa. Una scuola capace di”promuovere” il maggior numero di alunni deve essere favorita e  sollecitata a  pensare in modo flessibile l’organizzazione didattica (mettere in discussione le classi omogenee per età, la progressione per gradi annuali, sperimentare nuovi modelli organizzativi, ecc.). Su questo la scuola non è stata sostenuta né si è promosso uno sviluppo in questa direzione.[9] La carenza nel sostegno dello Stato viene in parte compensata, come nella nostra tradizione, dalle strutture associative di Dirigenti e insegnanti, dalle organizzazioni sindacali e dalle  più diverse strutture del territorio. Tutto ciò non è però sufficiente e soprattutto non giustifica l’assenza dell’Istituzione, l’unica che può programmare una politica su tutto il territorio nazionale.

Credo, dunque, che sia necessario riscoprire la centralità dell’intervento dello Stato sia pur ridefinita. Lo Stato  deve rivendicare  il suo ruolo non tanto nel controllo burocratico  della regolarità delle procedure ma soprattutto nella definizione degli obiettivi politici del sistema educativo. Penso, in primis all’uguaglianza reale delle opportunità e all’azione sugli ostacoli per raggiungerla. Di qui l’attenzione alle differenze, la formazione alla cittadinanza democratica, l’orientamento degli allievi, l’autovalutazione delle scuole, ecc.  Abbiamo bisogno di uno Stato meno burocratico ed elefantiaco ma capace di adattarsi ai nuovi compiti di un’organizzazione complessa in collaborazione con gli Enti Locali e che sappia decentrare le modalità (in primo luogo la didattica e la sua organizzazione) pur restando fermo sugli obiettivi politici.  Lo Stato va  ricostruito all’insegna della valorizzazione dello spazio collettivo che legittimi gli obiettivi politici e dia sostanza alla Costituzione incompiuta. E’ quello Stato che gli italiani non hanno mai avuto  ma che prima o poi dovranno decidersi a costruire se vogliono restare uniti (non si può entrare in Europa con dignità se non si riesce ad essere nazione in senso politico e non solo culturale)[10]. Non dobbiamo rassegnarci, anche se si tratta di un’opera difficile, resa ancor più complessa dal fatto che  gli errori compiuti in questi anni hanno già prodotto alcuni frutti negativi.  Basti pensare alla deregulation localistica (Riforma del Titolo V della Costituzione che ha dato molti effetti negativi, non solo nella scuola, come testimoniato dalla cronaca più recente) e alla deregulation consumeristica (concorrenza tra le scuole, corsi e orari “on demand”, soppressione di fatto delle zonizzazioni per le iscrizioni a scuola).  La conseguenza  è stata  il rafforzamento dell’individualismo sociale e del localismo più esasperato. Non a tutti i danni è possibile rimediare in tempi brevi (si pensi alla normativa costituzionale). Su alcuni però è possibile agire fin da subito.

 
Alcune proposte

Azzardo dunque qualche  proposta di possibili correttivi a Costituzione vigente ben sapendo che con ciò mi espongo a inevitabili critiche. Credo in ogni caso che sia necessario guardare avanti non limitandosi a  segnalare ciò che non va. Una volta riconosciute le difficoltà dell’autonomia delle scuole così come si è realizzata fino ad oggi, si può partire per prevedere  alcuni interventi migliorativi. L’importante è che si apra la discussione.  

Il breve  (e incompleto) elenco di proposte è il seguente:

Non mi posso soffermare adeguatamente sulla questione complessa e delicata della parità scolastica, che richiederebbe  lunghe argomentazioni. Mi limito a osservare che sono possibili diverse soluzioni, a patto di salvaguardare un principio: nelle scuole che sono ammesse al circuito pubblico deve essere garantito il pluralismo culturale religioso e l’adesione alle norme  e ai principi organizzativi delle scuole dello Stato. Si tratta di un passo necessario e ineludibile verso la laicità dello Stato, una conquista civile dell’Europa moderna[11].  In pratica le scuole di Stato e quelle che accettano tutti i  vincoli posti dalla Legge devono essere il perno del sistema di istruzione e ricevere risorse adeguate per funzionare. Le altre scuole costituiscono  una ricchezza e contribuiscono al pluralismo culturale e religioso ma non potranno definirsi “pubbliche”. La questione dei finanziamenti andrebbe separata da quella del riconoscimento di accesso al circuito pubblico. Non si può dunque escludere di principio un finanziamento a scuole private (ci sono casi specifici di supplenza o di tutela delle minoranze che non possono essere ignorati). Resta inteso che ogni tipo di finanziamento a scuole private  potrà essere deciso solo previa un adeguato  e congruo sostegno  alla scuola pubblica.


[1] A titolo di esempio ricordo il numero monografico dedicato all’autonomia scolastica dalla Rivista “Scuola Democratica (n.4,1987), con contributi di Luciano Benadusi, Mario Gattullo, Umberto Margiotta, Giorgio Franchi e altri;  la Conferenza nazionale sulla scuola organizzata dal MPI a Roma dal 30/1 al 3/2/1990 (con contributi, tra gli altri, di Sabino Cassese e Siro Lombardini); il n. 4,1991 degli Annali della Pubblica Istruzione.

[2] Sui principi della scuola come Istituzione rinvio alle chiare analisi di P.Meirieu (P. Meirieu,, Faire l’École faire la classe, Paris. ESF, 2004, pp. 22-24).

[3] Cfr. V. Campione, P. Ferratini, L. Ribolzi (a cura di), Tutta un’altra scuola. Proposte di buon senso per cambiare i sistemi formativi, Bologna, Il Mulino, 2005. Del gruppo hanno fatto parte, tra gli altri, Luciano Benadusi, Giuseppe Bertagna, Alessandro Cavalli, Roberto Maragliano, Claudio Gentili, Silvano Tagliagambe, Luigi Bobba.

[4] A.A.V.V. Per un progetto di autonomia scolastica, in “Scuola Democratica”, 4, 1987, p. 136. Il documento collettivo  è frutto delle ricerche del CIRSES diretto da Umberto Margiotta per conto del M.P.I. Il documento delinea una proposta articolata e dettagliata di attuazione dell’autonomia scolastica. La proposta va nella direzione di scuole fortemente autonome che si pongono sul mercato  adeguandosi a criteri di efficacia e di efficienza.

[5] Il documento La scuola che vogliamo, con la presentazione di Romano Prodi, a cura del Comitato Operativo per la Convenzione dell’Ulivo sulla scuola e la formazione, è stato pubblicato nel dicembre 1995. Alcuni membri del Comitato si ritroveranno poi nel “gruppo  del buon senso”(v. n.2).

[6] Cfr.,a questo proposito, Giuseppe Bertagna, In nome della complessità. Riflessioni sulla riforma del sistema educativo  di istruzione  e di formazione attualmnte in discussione, in “Scuola e Didattica, 18, 2002, pp. 22 – 42. G. Bertagna, Dietro una riforma. Quadri e problemi pedagogici dalla riforma Moratti al “cacciavite” di Fioroni,  Reggio Calabria, Rubbettino, 2009.

[7] Su questi temi rinvio alle lucide argomentazioni di Philippe Meirieu. Cfr. P.Meirieu, Pédagogie: le devoir de résister,  Paris, ESF, 2007, pp. 83 – 91. Per una critica dettagliata della  « Riforma Gelmini » cfr. anche M. Baldacci, F.Frabboni, La controriforma della scuola. Il trionfo del Mercato e del Mediatico, Milano, Angeli, 2009.

[8] Sulla questione cfr. l’articolo di Nadia Urbinati su “La Repubblica” del 6/6/2012 (La scuola del merito è la risposta giusta?)

[9] Fanno eccezione le Indicazioni nazionali in cui gli obiettivi sono scadenziati per obiettivi triennali o biennali. Ma  ciò non è sufficiente  se al contempo non si promuovono i necessari cambiamento organizzativi.

[10] Sulla necessità di uno Stato democratico con istituzioni forti e solide insiste nel suo ultimo libro persino Francis Fukuyama. Cfr. Francis Fukuyama, The origin of political order, New York, 2011.

[11] Nella direzione di questa conquista civile si dovrà affrontare anche la questione dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche. La soluzione attuale, figlia del rinnovato Concordato Stato – Chiesa Cattolica del 1984, non risponde certamente alle esigenze di laicità di uno Stato moderno.

 torna indietro