28.10.2011
L'avventura della comprensività
Giancarlo Cavinato
Le persone non sono come le piante:
una volta recise, non ricrescono. Così pure le esperienze umane
significative. Per questo occorre fare estrema attenzione, nel progettare la
nuova collocazione in un istituto comprensivo, a non disperdere quanto di
positivo è stato fatto in entrambe o in tutte e tre le sedi coinvolte nel
passaggio.
Occorre cura, pazienza, dialogo e ascolto reciproco.
Ognuno deve potersi ricollocare nella nuova situazione in rapporto agli
altri e ad un contesto più ampio: va sviluppato il senso
dell’interdipendenza, della reciprocità, senza rinchiudersi nel proprio
recinto. La pedagogia istituzionale francese offre un apporto alla lettura
delle aspettative, a ridefinire norme e procedure, ad osservare i processi.
L’apertura agli altri viene agita e dà i suoi frutti se tutti i soggetti si
sentono co-protagonisti.
Ognuno deve potersi sentire accolto con le sue debolezze e i suoi punti di
forza, deve poter maturare un senso di appartenenza non solo ad una classe,
a un gruppo di alunni, a un ordine di scuola, ma leggere in prospettiva il
percorso. E’ affascinante pensarsi come parti in causa di un processo che si
avvia con i tre anni e prosegue fino ai quattordici. Lo sguardo si proietta
oltre il proprio raggio d’azione, alla ricerca di quanto di continuativo e
di evolutivo si possa garantire ai soggetti.
Ci sono delle buone domande che ci si possono porre insieme per costruire un linguaggio, uno sfondo istituzionale e narrativo, un terreno comune.
Ad esempio: cosa mi aspetto dagli
altri? cosa si aspettano gli altri da me? come garantire un itinerario
individuale e di gruppo che assicuri ad ognuno in prospettiva dignità di
vita, empowerment, conoscenze valori e orientamenti nella realtà? come e
quando riflettere insieme sul cammino che si sta percorrendo? come far
conoscere e riconoscere il senso del percorso unitario che si va a
delineare?
Il piano dell’offerta formativa, la progettualità, la valutazione, i
laboratori, il rapporto con il territorio, la ricerca azione, la
costituzione di una comunità di pratiche, la valorizzazione di tutti, vanno
reimpostati adattandoli a tempi, ritmi, età, aggancio alle esperienze
pregresse.
Serve individuare alcuni temi conduttori.
Ad esempio:
la scuola dell’infanzia è la sede preposta a stimolare, nell’incontro con gli altri e con le forme di rappresentazione dei vissuti, una fuoriuscita progressiva dall’egocentrismo, verso forme di dialogo, di reciprocità, di avvio al pensiero socializzato; ed è, sul piano delle competenze da formare, il luogo di una prima esplorazione di campi di esperienza, di impiego di linguaggi, di esplicitazione del senso soggettivo dell’esperienza;
la scuola primaria può stimolare forme di cooperazione, di co-costruzione di lessico, di regole di vita, di rispondenza agli altri delle proprie azioni; sul piano delle competenze, avvia a una strutturazione della realtà, e dei saperi codificati, per problemi e situazioni autentiche e per mappe di conoscenze via via più ampie;
la scuola secondaria di primo grado forma il senso di cittadinanza, di responsabilità, di impegno personale e collettivo; a tale scopo fornisce strumenti disciplinari via via più raffinati e analitici attingendoli ai corpus delle discipline codificate.
Leggere in questa prospettiva
evolutiva il percorso consente ad ognuno di sapere come e dove intervenire;
di attivare delle strategie orientative dei soggetti calibrate sulle fasce
di età, sui problemi che possono emergere, di rivedere il percorso
all’indietro recuperando le parti eventualmente mancanti e di proiettare le
proprie proposte nel successivo tratto senza che ciò sia letto come
intromissione o costrizione.
Chiedersi assieme cosa significhi a 4, a 5, a 8, a 12 anni ‘saper risolvere
problemi’, cercare assieme quali sono le difficoltà e le carenze e gli
eventuali rinforzi e aggiramenti per giungere a esiti soddisfacenti, è una
forma di co-progettazione che solo in un istituto con insegnanti di ordini
di scuola diversi è possibile.
A noi, nel futuro, saper sfruttare tali occasioni, cercando gli agganci, le
consonanze e le necessarie integrazioni fra le diverse progettualità
preesistenti negli istituti di provenienza. Non è facile, ma si può fare.
Françoise Dolto, in ‘Il bambino e la città’ (Armando), ci ricorda che
a partire dalla scuola dell’infanzia si possono instaurare atteggiamenti
collaborativi che trovano, nell’età per noi centrale, fra i 9 e i 13 anni,
la loro massima espansione come competenze di cittadinanza, forme di impegno
e responsabilità, apprezzamento del senso del bene comune.
Perchè tale ‘miracolo’ avvenga c’è bisogno di una grande partecipazione
delle famiglie e degli enti del territorio, di condivisione e lettura e
riconoscimento dei processi, di valutazione sociale.
C’è bisogno di nuovi saperi disciplinari e transdisciplinari, di
coinvolgimento di tecnici, operatori di diversi ambiti, di una diversa
formazione degli stessi insegnanti: dall’urbanistica all’antropologia, dalla
sociologia alla semiotica, dall’astrofisica alla narratologia, dall’estetica
alla cibernetica,...
Qualcuno potrebbe gentilmente
bussare alla porta dell’onorevole Gelmini e, con calma e pazienza, provare a
spiegarle che, come le persone non sono fiori ecc., così le scuole non sono
caserme, i docenti bravi non sono quelli di 60 anni fa, che i bambini e i
ragazzi non sono come lo era lei quando aveva le treccine e andava a scuola
con la baby sitter, che i dirigenti scolastici non sono manager alla
Marchionne, che gli istituti comprensivi non nascono per decreto da una
sommatoria o da una sottrazione, ma vanno pazientemente preparati con mesi-
anni di confronto?
Se no, tutto quanto si è detto più sopra è un’enorme bufala e una pia
illusione, e la trasformazione in istituti comprensivi con mille alunni
peggiorerà ulteriormente un corpo scolastico già duramente provato.