30.09.2011
Il
rischio del danno di immagine. E non solo.
A proposito di reggenze e Dirigenza scolastica
di Antonio
Valentino
La questione delle reggenze, che
costringerà la metà delle istituzioni scolastiche ad avere un dirigente
“dimezzato” (in alcune regioni la percentuale supera il 65%), pone problemi
che non riguardano solo la gestione delle scuole in quest’anno scolastico
(e, molto presumibilmente, nel prossimo).
A parte il fatto che l’emergenza “Istituti scoperti” non nasce oggi e che
solo la miopia e il pressappochismo del nostro ceto politico ha impedito di
intervenire con la necessaria tempestività, un primo interrogativo che
andrebbe posto è: perché, al riguardo, c’è stata così tanta
rassegnazione e accettazione passiva tra gli stessi dirigenti, oltre che
nelle organizzazioni e associazioni che li rappresentano? Pur essendo tutti
consapevoli delle difficoltà e dei rischi che le reggenze così diffuse
comportano?
Sappiamo che in alcuni casi, soprattutto nei DS a fine carriera, ci sono
state motivazioni di tipo economico: può far comodo, pensando anche alla
pensione, arrotondare lo stipendio con un’accettabile integrazione (che,
comunque, non riesce – ritengo - a compensare le responsabilità e lo stress
di gestire due istituti).
In altri casi è sembrato invece prevalere lo spirito di servizio e il senso
di responsabilità.
In altri ancora, ha pesato l’obbligo previsto dalla norma.
Quella che emerge comunque è la tendenza a evidenziare il meno possibile la
drammaticità – e pericolosità - dell’attuale situazione.
Qualche giornale ne parla.
Generalmente fanno notizia i casi eclatanti come quello della DS di Genova
che è a capo di due istituti - con 69 classi complessive e più di 1300
studenti - le cui sedi e sezioni (17!) sono dissseminate su ben 12 comuni
(“La Repubblica” di qualche giorno).
Nelle dichiarazioni attribuite alla DS genovese – non dissimili da quanto si
sente in giro da parte di capi di Istituto - colpisce la spiegazione
riportata: “Il DS di oggi non ha bisogno di andare tutti i giorni di scuola
in scuola. Deve amministrare e organizzare”.
Quello che conta, quindi, sarebbe una sorta di direzione circoscritta
sostanzialmente agli adempimenti di natura burocratica e gestionale; sono
questi che legittimerebbero e renderebbero accettabili impegni e
responsabilità di un DS con reggenza.
Ovviamente il richiamo alle
“perplessità” e alle “pesanti difficoltà” è una costante nei ragionamenti
tra gli interessati.
Comunque è prevalente l’atteggiamento che tende a considerare l’incarico
come “sfida” e “scommessa” per garantire un minimo di regolarità al servizio
scolastico, soprattutto sotto il profilo amministrativo e, in genere,
burocratico. Come se questo “abc” della funzione del DS potesse bastare a
dirigere scuole ormai divenute tutte piuttosto complesse. O come se
l’”esserci” anche fisicamente, dentro le situazioni e dentro le relazioni a
scuola, fosse una sorta di “optional” e non, invece, condizione “materiale”
necessaria per svolgere al meglio le varie funzioni dirigenziali.
L’idea che tutto questo induca a una certa svalutazione del ruolo del
DS agli occhi della gente e ad una sua visione riduttiva anche nella
percezione dello stesso dirigente, non sembra preoccupare granchè: non è
necessario un dirigente a tempo pieno; si può dirigere una scuola, per
quanto complessa, assicurandone la presenza a giorni alterni o anche meno.
Questo il messaggio.
Una visione, come si avverte, riduttiva anche rispetto all’immagine, da
nessuno teorizzata, ma qualche volta praticata, del DS come figura
preoccupata essenzialmente della correttezza delle procedure e del rispetto
delle norme generali..
Ma certamente ancora più riduttiva è tale visione rispetto all’idea del
Dirigente come leader che si connoti per la sua funzione di garantire
l’efficacia del servizio, puntando a sviluppare nelle varie componenti il
senso di una impresa comune e di traguardi condivisi e socialmente
importanti.
D’altra parte, la normativa vigente (D.L.vo 165/2001, art. 25) esclude, sul
punto, l’idea di una Dirigenza Scolastica – prefigurata in questa situazione
di reggenza diffusa - così poco “dirigente”. E non si vede compatibilità
anche rispetto allo stesso Decreto Brunetta sul personale della Pubblica
Amministrazione, che, come sappiamo, guarda al dirigente
essenzialmente come funzionario della Pubblica Amministrazione.
E l’Amministrazione in tutto questo?
Certamente le vanno imputate, in primo luogo, una gestione sbagliata degli
organici e l’obiettivo del risparmio a prescindere. Ma, nei suoi
comportamenti e nelle sue scelte, non si vede anche, in controluce, la
volontà di fare dell’”esperienza reggenze” una sorta di prova generale
rispetto a nuove logiche di dimensionamento? Volte a configurare
istituzioni scolastiche dimensionate su parametri più elevati, desumibili,
per esempio, dall’accorpamento delle sedi di titolarità e di quelli di
reggenza?
Le disposizioni contenute nella manovra finanziaria del luglio scorso - che
fissano in non meno di mille studenti (attualmente, oscillano tra i 500 e i
900 studenti) i termini del dimensionamento delle scuole del primo ciclo –
temo si muovano in questa direzione. E prefigurino, quale che sia la
valutazione al riguardo, una diversa connotazione della leadership
scolastica rispetto al passato.
Non credo, chiarisco subito, che sia scandaloso in sé il fatto che
“crescano” i parametri del dimensionamento scolastico.
Negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, il preside Angelo Malinverno, figura
storica della scuola milanese, sulla scorta anche di studi sui modelli
europei (soprattutto di Gran Bretagna, Francia e Germania, dove gli istituti
superiori sono megascuole con popolazione scolastica anche oltre i 2000
studenti), aveva ipotizzato che una figura di “superpreside” - con una serie
opportuna di misure organizzative facilitanti - fosse quella più adatta a
valorizzare la funzione dirigenziale del capo di Istituto, potenziandone il
prestigio a livello di territorio, ma anche creando le condizioni per
“stipendi dirigenziali”, a motivo del diminuito numero di dirigenti
scolastici.
Nella visione di Malinverno però la leadeship doveva continuare ad essere –
ma non era chiaro come - anche di tipo educativo, secondo la migliore
tradizione del nostro paese.
Se ne parlò a suo tempo senza eccessive drammatizzazioni, insistendo molto
su senso e fattibilità della proposta in quella fase.
Questo per dire che, anche oggi, a maggio ragione, non ci devono essere tabù
al riguardo. Ma, paletti che non tendano a ridurrre la dirigenza scolastica
a pura managerialità e la figura del DS a semplice funzionario
dell’amministrazione, questi sì.
La stortura che vedo, è, ancora una
volta, quella di prendere provvedimenti importanti senza le dovute analisi e
riflessioni - dentro la categoria e con chi la rappresenta, oltre che tra
gli esperti -. E si tratta, come si capisce, di provvedimenti importanti
perché riguardano cambiamenti di ruolo del DS, i nuovi assetti
organizzativi che tali cambiamenti comportano, le ragioni che possano
giustificare – anche sul piano dell’efficacia e della economicità -
dimensioni diverse degli istituti scolastici.
D’altra parte, il provvedimento - anche questo, nella manovra finanziaria
del luglio scorso - di abolire la deroga per esoneri e semiesoneri rispetto
ai parametri previsti è, da questo punto di vista, una spia abbastanza
preoccupante che quello a cui si interessa l’Amministrazione non sono i
ragionamenti su un modello diverso e migliore di scuola, ma semplicemente la
quadratura di un cerchio che con queste logiche non si chiuderà mai, come i
fatti dimostrano.
Non sembri quindi una forzatura partire dalla questione “reggenze” per
evidenziare rischi e timori sottesi a operazioni di ben altra portata, visto
che riguardano i modelli di “governance” - interni e di sistema - del
pianeta “scuola e formazione”.
Di operazioni striscianti, dentro scelte apparentemente dettate dalla
necessità, ne abbiamo viste fin troppe in questi anni. La descolarizzazione
della società, nell’edizione Tremonti/Gelmini - di cui ci hanno reso
avvertiti nei mesi scorsi Tiriticco e De Anna – non è una, e forse la più
preoccupante, di queste?
Fondamentale è quindi che il gioco si svolga a carte scoperte e sia condotto
“sine ira et studio”: atteggiamenti alla Brunetta o alla Sacconi, sono, non
solo indecorosi, ma anche perdenti. E soprattutto con l’occhio rivolto più
alla qualità dei processi che si vogliono attivare e meno ai risparmi sul
breve periodo che si intendono realizzare.
E’ d’obbligo più che mai la consapevolezza delle poste in gioco e l’impegno
a evitare a tutti i costi che il gioco sia opaco e furbesco. O
approssimativo.