(07.09.2015)
A prescindere. Ma sarà davvero un anno speciale?
di Franco De Anna
Inizia un anno scolastico che si qualifica (che sia vero o no..) come “speciale”. Tanti docenti che con percorsi più o meno accidentati accedono (finalmente) allo status di ruolo, tanti altri docenti accedono (loro sì come “nuovi”) a quello che in sostanza è un diverso “mestiere” (il DS); e su tutto ciò si estende (come un’ ombra, un ombrello, un dirigibile, una immagine di devozione… scegliete voi secondo giudizio..) una Legge appena approvata e che si porta appresso la qualificazione de “la buona scuola”. Purtroppo è un vezzo nazionale affibbiare qualificativi che poi si eternizzano nell’uso: pensate che i programmi del 1979 per la media sono rimasti i “Nuovi programmi” fino a ieri e che le ultime “indicazioni nazionali”, dopo oltre un decennio di gestazione sono e rimarranno per un pezzo le “Nuove indicazioni”…Teniamoci l’etichetta de “la buona scuola”: servirà come riconoscimento da un lato e come fonte di ironia dall’altro.
Sulle novità che caratterizzano (o incombono..) l’inizio di questo anno scolastico sono intervenuti in questi giorni molti e certamente più qualificati interlocutori. Cito tra tutti Antonio Valentino (www.pavonerisorse.it/buonascuola/punti_caldi.htm), Stefano Stefanel (www.pavonerisorse,it/buonascuola/senso_stato.htm) e Maurizio Tiriticco (www.edscuola.eu/wordpress/?p=65452) .
Mi permetto solamente una lettura (“riduttiva”?) delle incombenti novità che sarebbero legate alla applicazione delle contrastate e problematiche norme elencate (piuttosto confusamente purtroppo) nella Legge 107/15.A partire dalla lunghezza della legge e dalla sua “struttura letteraria” (decine di pagine, 1 solo articolo, 212 commi, altrettante pagine di note) e con il “realismo” che mi viene da oltre 40 anni di lavoro in rapporto con l’Amministrazione Scolastica (il “superiore Ministero vigilante” e le sue articolazioni periferiche), credo che i veri punti interrogativi non troveranno risposta nel testo della legge, ma nelle applicazioni operative che ne farà l’Amministrazione e che si misureranno con i vincoli insuperabili sia delle condizioni materiali che delle “culture organizzative” consolidate nella scuola e nel suo “manuale operativo”. (Mi piacerebbe per esempio lanciare una sfida, e perderla, valutando e calcolando, nei prossimi dieci anni, il portato operativo degli “incarichi triennali” ai docenti. Scommettiamo che il risultato non sarà diverso da quello, caratterizzato da forte immobilità, che riguarda i Dirigenti, i Dirigenti amministrativi, quelli Tecnici, che negli ultimi 15 anni sono stati vincolati a contratti rinnovati triennalmente?). Caccia alla volpe, come non mi stanco di ripetere… la preda non conta. Ciò che conta è che la gente galoppi. La preda “vera” è altrove.
Perciò il titolo del mio intervento si rifà alla saggezza del maestro De Curtis…Il potenziamento della Autonomia Scolastica.
Si tratta di una (delle poche..) affermazioni di principio chiaramente e inequivocamente espresse dalla legge 107: potenziare l’autonomia scolastica. Come conseguenza di tale affermazione si fanno modificazioni del Regolamento dell’Autonomia più o meno necessarie e opportune.
A mio parere alcuni interventi sono sia inutili (pleonastici) sia pericolosi, sia “fuori bersaglio”
Per esempio sia l’organico funzionale, sia l’organico “di rete” erano preannunciati nello stesso Regolamento. Si poteva partire da lì e operare oculatamente nella interpretazione operativa invece di proclamare l’innovazione epocale. Il motivo di tale richiamo è evidente.
Gran parte delle affermazioni del Regolamento stesso disegnano potenzialità in termini di ricerca educativa, articolazione curricolare, flessibilità organizzativa, gestione delle risorse in stile budgetario, ancora da esplorare. Anzi in questi quindici anni l’azione amministrativa, sempre richiamando come un mantra l’autonomia scolastica in ogni circolare, ha provveduto a mortificare quelle potenzialità, contrapponendovi la rigidità della classificazione del lavoro docente e della determinazione statistica degli organici, il taglio delle risorse, ma soprattutto il venire meno di ogni possibilità di gestione budgetaria a fronte dei un regolamento contabile che da sperimentale che era all’inizio ha mantenuto e consolidato tutte le contraddizioni che segnano la contabilità pubblica, la complessa dialettica tra la flessibilità curricolare che per alcuni versi si è ampliata (nella superiore oltre il 50% del curricolo potrebbe essere gestito in autonomia) ma è rimasta imprigionata nella “epistemologia delle classi di concorso” e nella pratica delle “cattedre”. Eccetera…
Ricordo personale. Il confronto culturale e gestionale sull’organico funzionale si sviluppò nella fase di prima sperimentazione del Regolamento dell’autonomia. Nel passaggio di dicastero (Moratti) mi trovai a discuterne in un convegno alla LUISS alla presenza del capo dell’ufficio legislativo della Ministra, che sosteneva che “l’organico funzionale” andasse scongiurato perchè “troppo costoso”.
Sfidai ad una definizione e mi accorsi che ne ignorava la sostanza. Ma anche molti sostenitori si trovavano nelle medesime condizioni.
Il fondamento dell’organico funzionale è il rapporto tra il tempo scuola complessivo che impegna gli alunni e che corrisponde ad un livello essenziale di prestazione, o se si preferisce ad un “diritto”, e il tempo di lavoro complessivo che impegna i docenti.
Il valore del rapporto definirà sia lo spazio elettivo della flessibilità organizzativa della didattica, sia il costo di tale flessibilità. Più la didattica è segmentata per discipline, cattedre, classi di concorso, programmi vincolanti (che lo siano davvero o che operino come tali nell’immaginario collettivo professionale) più quel rapporto tende all’unità e restringe ogni azione sensata di programmazione (a partire dal rapporto costi/benefici o se volete mezzi/fini). Solo per tale motivo la variabile costo diventa fondamentale. Solo se la “macchina” rimane uguale a se stessa.
Mi scuso del dettaglio esplicativo, ma mi immagino come si comporterà l’amministrazione dovendo vagliare le proposte di organico provenienti dalle scuole… ( e si ricordi che già oggi, formalmente, chi firma l’organico e se ne assume la responsabilità è il Dirigente Scolastico. L’Amministrazione provvede a verificare congruità attraverso le sue tabelle, ma la firma è quella del DS..). Già ora, forse non per caso, invece di organico funzionale si dice “organico della autonomia” o “organico aggiuntivo”.
I qualificativi sono rivelatori: si considera la determinazione delle risorse necessarie per realizzare il progetto di scuola, (il POF triennale esaltato come potenziamento della autonomia) come “un di più”, non come una interpretazione strutturale della flessibilità operativa…L’Amministrazione, come l’intendenza, seguirà… (e, ahimè sarà accompagnata dai Sindacati..)Per questo continuo a pensare che invece di predicare innovazione epocale forse conveniva mettere in campo strumenti operativi e interpretativi di ciò che già era possibile normativamente nel Regolamento esistente. Rischiamo di avere dato uno strumento in più alla istanza riproduttiva della Amministrazione, piuttosto cha alla istanza innovativa della scuola. E allora il “campo è aperto”, a prescindere, appunto.
L’autonomia e l’ornitorinco
Spesso, facendo formazione o partecipando a dibattiti ho paragonato l’autonomia scolastica all’ornitorinco. Questo strano animale che ha caratteri di mammifero (il pelo..) di uccello (una sorta di becco da papera..), delle zampe palmate…
La scuola autonoma è contemporaneamente una “filiale” di una “super impresa” di carattere nazionale e pubblico, legata al Diritto Amministrativo e dunque improntata ad una “catena di comando” top-down (il superiore Ministero vigilante, si diceva un tempo..).E un “produttore” di un servizio finale che dà “materiale concretezza” alla fruizione di un diritto di cittadinanza come l’istruzione nel “qui e ora” di una realtà locale fortemente articolata
Da un lato deve dar conto alla “ragione sociale” formalmente unitaria da cui dipende (ma sulla effettiva “unità” del nostro sistema di istruzione basterebbe guardare attentamente i dati delle rilevazioni valutative, o i bilanci delle scuole..); dall’altro deve dar conto diretto, come tutti i “produttori finali” ai cittadini stessi ed alla comunità locale, mettendo inoltre in conto la strutturale altissima “permeabilità sociale” della scuola stessa.
Nulla di eccezionale: molte megastrutture operative hanno la medesima configurazione. Le Poste per esempio, o una grande Banca hanno una “ragione sociale” unitaria e numerose “filiali” caratterizzate da margini di autonomia operativa più o meno elevati.
Ma qui le responsabilità sono direttamente connesse a diritti di cittadinanza. Una filiale di banca dovrà dar conto ai clienti e se non funziona questi ultimi si rivolgeranno altrove… Una scuola ha una “istanza operativa” a dare il meglio che non si misura con il mercato, ma con un diritto. Il significato della sua autonomia operativa è dunque qualitativamente diverso.
Per sintetizzare: a mia opinione l’autonomia scolastica è un segmento di sussidiarietà (valore costituzionale..); ha la doppia configurazione (per questo ornitorinco) di un elemento di “istituzione” (il segmento di “sistema”) e di “impresa sociale” che opera nella comunità locale.
Non pretendo che l’Amministrazione condivida tale impostazione (continua a pensare alle scuole come filiali.), ma credo che vi siano alcune questioni che anche una visione da “filiale” pone n modo stringente.
Le raccolgo in un unico capitolo, affermando che il grado ed il carattere della autonomia (che sia delle filiali o delle “imprese sociali”) si esprime attraverso il reale livello di padronanza dei fattori della produzione del servizio pubblico.
E i fattori di produzione, in qualunque organizzazione, pubblica o privata, sono fondamentalmente tre: le risorse economiche, il lavoro (le cosiddette risorse umane) e le forme di combinazione tra il primo e il secondo elemento, quanto a dire le forme, le strutture, le culture organizzative.
Più ampie sono le condizioni di padronanza di tali fattori, più l’autonomia si riempie di senso e di responsabilità.
Naturalmente non esistono condizioni di “padronanza assoluta” in nessun tipo di organizzazione. Tutte, anche la più spregiudicata impresa privata, hanno vincoli operativi con i quali si misura e commisura l’esercizio di padronanza: i vincoli di tecnologia produttiva (i mezzi disponibili rispetto ai fini), i vincoli dei rapporti di lavoro (dinamiche del mercato del lavoro e relazioni sindacali), i vincoli delle leggi varie (dalla sicurezza all’ambiente)…E soprattutto i vincoli impliciti nella strategia e nelle scelte produttive, dalle quali discendono le opzioni e le possibilità sul piano delle risorse economiche, di quelle del lavoro e dei modelli organizzativi.
Da tale punto di vista non vi sono differenze “qualitative” tra pubblico e privato: la definizione esauriente di una strategia, la individuazione delle risorse economiche necessarie a realizzarla, la individuazione delle risorse umane, i modelli di combinazione tra le risorse che tentino di realizzare la strategia, e confrontare il tutto con i vincoli esistenti (tecnologie, normative, mercato del lavoro, professionalità e culture organizzative disponibili…) sono passi obbligati sia per l’organizzazione pubblica che per quella privata. Mutano i vincoli e il loro carattere.Infatti, le istanze del “decentramento” nel settore della Pubblica Amministrazione sorgono storicamente anche (ma certo non solo) dalla constatazione che tale catena di fattori non sia agevolmente coordinabile quando si abbia a che fare con mega apparati centrali, la cui operatività sia però distribuita molecolarmente, come le scuole…
Anche solo in tale prospettiva (che è una “versione ristretta” del significato dell’autonomia..) occorrerà decidere quale livello di padronanza dei fattori si riconosce alla pluralità dei “produttori autonomi”, quali responsabilità si riconosceranno rispetto a tale padronanza, quali strumenti di controllo rispetto ai vincoli cui si collegano tali responsabilità, quali livelli di rendicontazione del prodotto…
Nella prima versione del Regolamento dell’autonomia, erano implicite sia la padronanza delle risorse (il carattere budgetario del finanziamento pubblico, almeno nelle intenzioni dichiarate), sia la padronanza dell’organizzazione (fatti salvi in vincoli delle prestazioni pubbliche, si affermava la flessibilità di tempi, cadenze, anche di parte dei contenuti curricolari e dei prodotti formativi).
Rimanevano, e fortissimi, i vincoli relativi alla “risorsa umana”, anche se si cominciava a discutere (e sperimentare, ma soprattutto nella primaria) l’organico funzionale (vedi sopra).
Rispetto a tali enunciati, oggi si verificano due fronti innovativi: la triennalizzazzzione dei programmi-progetti contenuti nel POF e la “funzionale” determinazione con cadenza altrettanto triennale dei “fabbisogni” di “risorse umane”, con conseguenti incarichi triennali (Ripeto la cadenza triennale dei contratti individuali già caratterizza e da tempo sia i Dirigenti Scolastici che quelli amministrativi..).
Sulla formulazione di una progettazione triennale non ci sarebbe molto da dire in termini di novità. Per mestiere (ispettore) e per progetti a cui ho partecipato (dal primo monitoraggio dell’autonomia a tutti i progetti di valutazione) ho letto centinaia di POF e ne ho seguito le realizzazioni. I progetti a cadenza annuale in genere caratterizzano la parte progettuale dei POF di minore interesse e spesso di definizione “opportunistica” (interessi specifici di qualche docente, occasioni locali, ecc..). Spesso invece la progettazione si ripete nel tempo, sia perché le cadenze realizzative non si prestano ad essere annuali, sia perché effettivamente la progettazione si esercita su oggetti che “fisiologicamente” hanno lunga durata o si ripetono nel tempo. In questi casi la esplicitazione del carattere triennale può essere uno strumento per selezionare opportunamente le priorità e per consolidare le linee progettuali di lunga durata. Un impegno di “perfezionamento” dei modelli di programmazione, ma nulla di “rivoluzionario”. Un Dirigente Scolastico dovrebbe (dovrebbe..) essere abituato, all’inizio dell’anno, a definire una “ipotesi di indirizzo” da proporre al Collegio per rielaborare il POF. La sua “ipotesi di indirizzo” avrà orizzonte triennale. A prescindere…
Il secondo fronte è quello della “politica del personale” (vedi oltre)
Il terzo fronte è quello della gestione delle risorse economiche. E qui l’affermazione generale del potenziamento dell’autonomia segna il limite più evidente della Legge. Necessita di qualche riflessione non riconducibile al “a prescindere”.Debito pubblico e risparmio privato
Non c’è potenziamento reale dell’autonomia, se il modello di gestione delle risorse economiche rimane quello attuale.
Le scelte della 107 in proposito hanno fatto più che discutere sopratutto per lo spazio aperto al finanziamento privato e alle diverse forme che può assumere (dal 5 per mille alle agevolazioni fiscali). Le grida sulla privatizzazione si sono sprecate (con florilegio di emendamenti a rendere ancora più oscura e complessa la norma), ancora una volta scegliendo il bersaglio sbagliato: una sindrome particolare dell’opposizione. O meglio: è come quel tale che spara una fucilata di pallettoni su una staccionata, e poi disegna un bersaglio attorno ai fori lasciati dai proiettili e dice “visto che mira?”.
Il rapporto risorse pubbliche contributo privato, nella realizzazione di un servizio pubblico essenziale come quello alla fruizione materiale di un diritto di cittadinanza, assume una fisionomia particolare in un paese che ha congiuntamente il primato europeo del debito pubblico e quello della consistenza del risparmio privato.
So che la mediazione “ideale” tra i due termini (debito pubblico e ricchezza privata), in un ideale modello di “ridistribuzione” pubblica della ricchezza è la fiscalità. Ma non credo di avere bisogno di molte argomentazioni per affermare che nel nostro Paese vi sia la necessità di individuare, anche con creatività, strumenti che pongano in mediazione i due termini, attraverso una scelta di “finalizzazione” del contributo della ricchezza privata, capace di bypassare il problematico funzionamento del sistema fiscale e in attesa che quest’ultimo trovi un suo assetto ragionevole, tra aliquote altissime e altrettanto alta evasione.In passati contributi arrivai (fantasiosamente) a proporre l’idea di “bond” finalizzati allo sviluppo dell’istruzione pubblica ( molte Università degli Stati Uniti, per esempio si finanziano anche attraverso emissione di obbligazioni a lungo termine…). Oppure alla possibilità (reale) da parte delle scuole autonome (singole o in rete) non di trasformarsi in fondazioni (come voleva qualcuno), ma di “dare vita” a fondazioni o a onluss che affiancassero la scuola e le consentissero di accedere alle risorse ed alle modalità di gestione del “terzo settore”…
Ma a partire da ciò il problema non è di quantità delle risorse o della loro provenienza. Si sa che viviamo in una fase di contrazione e crisi delle disponibilità pubbliche e non solo nel nostro Paese (è la crisi fiscale dello Stato, bellezza..)
Il problema è di modalità di gestione. Per quale ragione una scuola che raggiunga buoni risultati nel found raising e trovi così modalità di finanziamento per le sue attività “pubbliche” deve “rendicontare” secondo le modalità della contabilità di Stato, cioè secondo i vincoli e ristrettezze di una impostazione ( lascio ai lettori il compito di risalire nel tempo a quando datano le regole fondamentali della contabilità di Stato) che, per esempio, ha un carattere finanziario e non economico? Come si armonizza una rendicontazione vincolata annualmente con la dichiarata programmazione triennale del POF? Le domande potrebbero moltiplicarsi…. E le risposte nella Legge 107 mancano.
Tutto ciò non c’entra con il fantasma della privatizzazione. La garanzia del carattere pubblico del lavoro di una scuola autonoma riposa essenzialmente sul lavoro di oltre un centinaio di docenti (mediamente), sulle responsabilità di un dirigente, sul controllo di una comunità locale…Tutti venduti/comprati?
Del resto, coloro che gridano al condizionamento degli interessi privati sembrano ignorare (o fan finta)
In qualunque organizzazione, pubblica o privata, la politica della gestione del personale (la Gestione Risorse Umane) ha tre assi da declinare opportunamente: il progetto/prodotto da realizzare, e il conseguente programma operativo; collocare entro tale processo la “persona giusta al posto giusto” con le opportune verifiche sia in itinere che finali; i vincoli interni (la cultura organizzativa disponibile all’organizzazione) e esterni (le normative, le relazioni sindacali, l’innovazione scientifica e tecnologica disponibile).
Sull’insieme di tali assi, “l’oggettività” è una aspirazione variamente realizzabile (innovazione tecnologica, vincoli normativi, ecc…per esempio sono etero determinati). La “cultura organizzativa” disponibile a quella specifica organizzazione è fattore di maggiore plasticità, ma ha tempi e modalità di espressione di lunga durata e legata a variabili non deterministiche. La scelta della “persona giusta al posto giusto” è certamente quella soggetta a maggiore incertezza e rischio.
Naturalmente su tutto opera l’azione di un vincolo ineludibile: si tratta di impiego pubblico, dunque “il posto” è acquisito per concorso, come da dettato costituzionale. Il resto, però, dalla identificazione di “quel” posto, alla “appropriazione” della “mia cattedra” non appartiene alla regola fondamentale, ma alla sua interpretazione declinata nella tradizione.
La letteratura tecnica relativa alla “gestione delle risorse umane” è ricca e variegata, ma sempre testimonia di tale grado di incertezza. Mi piace ricordare, invece che i richiami ad essa, alcune testimonianze letterarie come per esempio “Donnarumma all’assalto” di Ottiero Ottieri, maturata proprio nella esperienza di esercizio di funzioni di selezione del personale nell’impresa “avanzata” (l’Olivetti in quel caso..).
C’è un fattore che manda fuori campo anche il più preparato esercizio di scientificità nella scelta del personale: quando la sproporzione tra domanda e offerta chiude un imbuto a collo stretto, le modalità di selezione accentuano inevitabilmente i caratteri dell’arbitrarietà. Applicare metodi scientifici ad una moltitudine di offerta è assai costoso… La selezione preliminare (alto grado di arbitrarietà) diventa espediente fondamentale. La scuola ne sa qualche cosa di tale condizione nelle modalità di organizzazione dei concorsi.
Possiamo recriminare, battagliare, batterci per diverse modalità, ma dal realismo di tale considerazione non si sfugge: e allora occorre riconoscere tale inevitabile arbitrarietà selettiva che ciò che è presente in ogni settore, pubblico o privato.
Inoltre si tenga conto di altra considerazione di verità comprovata: più è elevata la composizione tecnico scientifica di una figura professionale, più è basso il “valore predittivo” della sua consistenza rappresentato da una graduatoria “quantitativa e oggettiva”. (Un voto di laurea, l’esito di un concorso..) E se pensiamo alla figura di un docente, tale considerazione è più che convalidata.
Tale consapevolezza dovrebbe indurre tutti a “non scherzare” con termini come “oggettività”, “diritti”, “graduatorie”, “neutralità”…
Del resto proprio questa “oggettiva discrezionalità” della politica delle risorse umane rappresenta il campo essenziale dell’esercizio della responsabilità dirigenziale. Di qualunque dirigente, pubblico o privato. E a maggior ragione di responsabilità per quello pubblico che opera su risorse pubbliche.
Rispetto a tale responsabilità, la “gestione delle risorse umane” rappresenta un esercizio essenziale di capacità professionale, che vale sempre, quindi prima e dopo e oltre la Legge 107. Il Dirigente era ed è e ancor più sarà responsabile della congruenza tra l’impiego delle risorse umane, quello delle risorse economiche e i risultati che si raggiungono nel confronto con il diritto dei cittadini (non dei clienti, ma dei cittadini..)
La differenza è che ora, stando alla Legge 107, tale sua prerogativa ha un risvolto operativo concreto, mentre prima aveva un mero riflesso gestionale interno (ma non meno vincolante sotto il profilo dell’impegno e dell’etica professionale).Avremo da discutere e rielaborare nei prossimi anni, poiché si propone una rideclinazione dei temi della valutazione del personale, della gestione degli incarichi, dell’uso di strumenti promozionali, insomma del governo del mercato del lavoro “interno” all’organizzazione se vogliamo usare termini della cultura di impresa...
Una “ristrutturazione” della competenza professionale del Dirigente Scolastico di grande portata, non totalmente nuova perché comunque iscritta nel suo profilo etico-professionale, ma con riflessi operativi prima defilati e/o impraticabili.
Accenno qui solo ad una considerazione “oggettiva”: La Gestione delle Risorse Umane in una organizzazione di dimensioni non ridotte e di architettura complessa, è sempre posta in capo al Dirigente per la decisione finale, ma necessita di attività e procedure “specialistiche” che devono fornire al Dirigente l’istruttoria pertinente. (Rinvio alla letteratura specialistica..).
Qui la Legge 107 è gravemente carente e ciò ha promosso purtroppo le semplificazioni ricordate e amplificate mediaticamente. Se davvero si vuole muovere in tale direzione ci sarà da lavorare in termini di ricerca e di formazione. Anche “smontando” alcune modellizzazioni del “profilo di ruolo” del Dirigente Scolastico, spesso di valore “confortante” (la leadership pedagogica, quella “diffusa ecc..ecc..) ma che sono in realtà riconducibili a quella parte della scienza organizzativa che si occupa della “gestione del lavoro di gruppo”. Forse i compiti nuovi che si presentano per il DS ci obbligheranno a riconoscere realisticamente che i 100, 150 lavoratori di una scuola non sono “un gruppo” e che la loro “collegialità” è in realtà un “artificio” poco meno che mitologico.