Rispetto alla problematica che sta focalizzando l’attenzione
delle scuole secondarie di secondo grado in questi ultimi tempi, io penso che-
per capire fino in fondo l’opportunità di sostenere, con i dovuti aggiustamenti
da ambo le parti, l’autentica connessione tra scuola e lavoro- bisogna rendere
plasticamente accessibile il CAPIRE
insieme al RIUSCIRE, intrecciando perciò sempre queste due dimensioni,
rendendole quasi simultanee o comunque “contemporanee”.
Per poter tentare di rendere più chiaro il mio pensiero devo
fare riferimento all’intelligenza
connettiva, termine coniato da Derrick de Kerchove. Il
noto pensatore allude con questa
espressione alla connessione digitale di vari soggetti che pensano, si esprimono
e condividono insieme un sapere diffuso. Essi mantengono le varie individualità
ed anche le differenze, essendo però in grado di costruire una comunità di
conoscenza. De Kerchove però non prende in considerazione la declinazione di
Gardner delle intelligenze personali, che si articolano in
interpersonale ma anche in
intrapersonale: egli focalizza
infatti soltanto quella interpersonale tanto è vero che, secondo Nicholas Carr,
sottovaluta l’influenza negativa della digitalizzazione sulla nostra
intelligenza connettiva
intrapersonale. Carr infatti lamenta che la digitalizzazione depotenzia il
pensiero critico e riflessivo, che ci permette di creare autonomamente le
connessioni mentali, in cambio di un click che “connette”
al posto nostro.
Io allora intendo fare riferimento con questo mio contributo
proprio alle connessioni mentali non
soltanto interpersonali ma anche intrapersonali, che si mettono in moto quando
un soggetto cerca di creare legami, correlazioni
tra i dati a disposizione, anche se a prima vista questi possono
apparire sconnessi.
L’intelligenza connettiva, sia personale che collettiva,
allora, si sviluppa perché il nostro cervello funziona organizzando il sapere
attraverso la ricerca di analogie e differenze, sviluppando
competenze essenziali di elaborazione e
riflessività. Il pensare autentico consiste in fondo nel creare nessi e
relazioni tra i dati, gli elementi, le esperienze, vale a dire la pratica
illuminata dalla teoria, e la teoria dalla pratica, per ricondurre il discorso
al tema di apertura.
Il filo rosso allora che intendo afferrare è quello dato dal binomio
Capire/Riuscire, e viceversa,
partendo da alcune riflessioni dei grandi pensatori del secolo scorso. Se Piaget
infatti aveva superinvestito il termine
capire di energia speculativa, tanto da pretendere che nel capire fosse
inclusa la competenza dello spiegare,
Bruner invece connotava il capire da
una forza conoscitiva tesa al comprendere
profondamente. Per questo motivo egli avrebbe suggerito a Piaget di
sollecitare la “verbalizzazione durante l’azione” in riferimento, per esempio,
ai suoi esperimenti sulla conservazione, individuando nel linguaggio, che
“narra” l’azione, la chiave di volta per catturare il processo mentale
congruente. Riassumendo: l’azione riconducibile al RIUSCIRE, descritta
attraverso la narrazione, fa scaturire la mentalizzazione del CAPIRE.
Bruner
azzarda che in questo modo gli esiti degli esperimenti piagettiani sarebbero
stati ben diversi.
D’altro canto il paradigma culturale della
complessità, come ci insegna Edgar
Morin, ci induce a coniugare logiche diverse, anche contrapposte. Siamo noi, con
le nostre radici culturali immerse nel paradigma della
linearità, che obbedisce alla logica
binaria (o vero o falso, o capire o
riuscire,ecc.) che facciamo fatica ad attivare l’operazione logica della
“coniugazione”. Teniamo però presente che i ragazzi che occupano le nostre aule
oggi abiteranno domani una cultura
ancora più complessa.
Anche
il metodo “dell’apprendistato cognitivo”, impregnato di didattica vigotskiana,
descritto molto bene nella raccolta “I
contesti sociali dell’apprendimento”
a cura di C.Pontecorvo, A.M.Ajello, C.Zucchermaglio, offre un esempio
incomparabile di riuscire-capendo ma
anche di capire-riuscendo. Il
riferimento, per quanto attiene la competenza della comprensione del testo
scritto, trasversale ed essenziale per ogni disciplina, è
alle ricerche di
Brown e Palincsar che utilizzano
l’insegnamento reciproco insieme all’espediente di
pensare a voce alta. La strategia
infatti descritta dagli autori suddetti utilizza le quattro fasi vigotskiane
dell’apprendistato tradizionale (modellamento,
assistenza, sostegno, progressiva diminuzione dell’aiuto) ma le
rielabora ponendo l’enfasi sui processi cognitivi e metacognitivi che,
attraverso appunto la funzione del pensiero a voce alta, non rimangono taciti e
nascosti nella mente del docente, dotato di
expertise, ma vengono messi a
disposizione dell’allievo apprendista.
Scorrendo l’indice del testo in questione troviamo inoltre
il saggio interessante della Resnick “Imparare
dentro e fuori alla scuola”. Dice la Resnick:
Ho identificato quattro tipi generali di
discontinuità tra l’apprendimento a scuola e la natura dell’attività cognitiva
fuori della scuola. In breve, la scuola si concentra sulla prestazione
individuale, mentre il lavoro mentale all’esterno è spesso condiviso
socialmente. La scuola è finalizzata a incoraggiare il pensiero privo di
supporti, mentre il lavoro mentale fuori della scuola include abitualmente
strumenti cognitivi. La scuola coltiva il pensiero simbolico, laddove l’attività
mentale fuori della scuola è direttamente coinvolta con oggetti e situazioni.
Infine la scuola ha il fine di insegnare capacità e conoscenze generali, mentre
all’esterno dominano le competenze specifiche per la situazione”.
La prima osservazione da fare è che se la scuola utilizzasse
più spesso attività laboratoriali e progettasse, insegnasse e valutasse
“competenze”, e non solo conoscenze generali e capacità, già si avvicinerebbe a
colmare il
gap tra apprendimento a scuola e
fuori dalla scuola.
Se poi, come affermavo più sopra, a scuola si utilizzassero
metodi come l’apprendistato cognitivo, allora si può pensare che la preparazione
a trarre beneficio mentale ed operativo dall’alternanza scuola-lavoro,
diventerebbe più accessibile ed efficace. Nell’apprendistato cognitivo infatti l’autoefficacia
che sperimenta l’allievo nel cimentarsi attraverso l’imitazione nel compito
sollecitato, dopo aver assimilato i processi riportati, corrisponde al passaggio
dialettico tra CAPIRE/RIUSCIRE.
Bisognerebbe che anche nell’esperienza lavorativa
gli studenti venissero accompagnati da un
tutor, formato ad hoc, vale a dire in grado di sollecitare la riflessione
sull’esperienza, man mano che questa viene affrontata,
rielaborata, ne viene colto il
senso, viene collegata con i saperi
già acquisiti e con altri di cui eventualmente si avverta la necessità di
approfondimento.
Anche nell’acquisizione della
competenza le Indicazioni per la
scuola dell’infanzia chiedono “la riflessione sull’esperienza” come modalità
paradigmatica dell’avviamento di tutte le competenze in genere, su cui poi dovrà
avvenire l’attività dell’allenamento. Che cos’è questo se non riuscire/capire?
Il nostro sistema scolastico è sempre stato caratterizzato
da una grave scissione: da una parte
la scuola del capire, i licei,
dall’altra quella del riuscire, gli
istituti tecnici e quelli professionali. Secondo me l’obbligo di organizzare
l’alternanza scuola-lavoro in tutti gli ordini di scuola secondaria di secondo
grado va nella direzione di attenuare questa scissione a tutto vantaggio
dell’apprendimento e della formazione delle nuove generazioni e della sfida che
si sta parando davanti alla scuola. Sfida che il nostro sistema scuola,
organizzato intorno alle conoscenze ed alla lezione trasmissiva,
fa fatica ad accettare, rischiando di non tenere il passo con i tempi e di non
assumere in debita considerazione i nuovi bisogni formativi dei nostri giovani.
Bibliografia
Nicholas Carr,
Internet ci rende stupidi?,Cortina, 2011
De Kerckhove DerricK, La rete ci renderà
stupidi?, Castelvecchi, 2016