02.11.2015
Valutazione e miglioramento: il rischio anestetico
di Franco De Anna
Difficile mantenere lucidità di analisi su questione come la valutazione che coinvolge le paure i fantasmi le ansie, le attese, le voglie di fuga, ma anche le fatiche di chi ci si trovi impegnato. Ma ci provo. Stiamo parlando ovviamente di “valutazione delle organizzazioni” (nel nostro caso le scuole autonome) Anche se l’oggetto di questa riflessione (il miglioramento) confina e si sovrappone con un protocollo (in fieri..) di “valutazione delle persone” (i Dirigenti Scolastici).
Domanda di fondo: perché
si valuta?
La risposta vera è: si valuta per decidere. Un buon sistema di
valutazione (che sia auto o esterna) in una organizzazione è finalizzato a
supportare e migliorare la razionalità decisoria della stessa
organizzazione. Se, come nel caso della scuola autonoma tale organizzazione
è inserita ed organica ad un “sistema” la valutazione proietta la sua
funzione al supporto alla razionalità decisoria di decisori politici e
amministrativi di sistema. Si valuta per decidere.
Il “miglioramento” è solo una delle possibili decisioni di una organizzazione. Se vogliamo schematizzare i diversi ambiti di “decisione” rispetto ai propri programmi ed obiettivi una organizzazione ha sostanzialmente quattro ambiti possibili di decisionalità:
Non mi interessa in questa sede commentare i caratteri diversi di tali ambiti decisionali, quanto sottolineare alcune questioni che ogni organizzazione affronta quando assuma gli esiti di un processo di valutazione su se stessa, tanto che si tratti della conclusione di un processo autovalutativo, quanto se si tratti di una “diagnosi esterna”.
La prima questione è che se si valuta per decidere, a fronte di un esito valutativo, l’organizzazione viene investita comunque, in modo più o meno intenso o più o meno esplicito, da una domanda che investe i meccanismi ed i processi decisionali complessivi, i ruoli formali ed informali interpretati, sia riconosciuti che latenti. In una parola la “cultura organizzativa” specifica di “quella” organizzazione. Cioè a dire i significati e i valori scambiati e condivisi, i ruoli interpretati e riconosciuti, la comunicazione formale e informale che animano il lavoro collettivo. Tutto ciò che “sta sotto” gli schemi, gli organigrammi, e il sistema di deleghe formali, e che in realtà “regge” l’organizzazione (latenze… lateres….mattoni..). Sono le latenze a dare fondamenta all’organizzazione, non gli organigrammi.
Un certo esito
valutativo negativo pone l’organizzazione di fronte, se non ad un
fallimento, al fatto che un certo obiettivo, un certo esito atteso, non
corrispondono a quanto deciso e programmato, che l’operato di alcune persone
non è stato coerente con gli obiettivi, che le risorse non erano adeguate,
che le procedure (le tecniche) non sono state appropriate… ecc…
Come ovvio tale complessivo processo di ripensamento ha estensione e
profondità assai diverse in relazione all’importanza di ciò che viene posto
in discussione rispetto alla strategia dell’organizzazione, ma anche
rispetto al riconoscimento di affidabilità assegnato al protocollo
valutativo, al suo essere “fatto proprio” dal collettivo. Infine rispetto
alla congruenza tra il protocollo valutativo cui è sottoposta
l’organizzazione e la sua complessità.
Di ciò per esempio occorrerebbe tenere conto, impostando una politica per il
miglioramento, quando si pensi che il modello RAV ha carattere misto tra una
autovalutazione ed una “valutazione esterna” che non si esprime ancora come
tale (lo sarà domani?) ma come fonte esterna di dati e di comparazioni (dal
MIUR all’ISTAT, all’INVALSI) e con un grado di fidelizzazione almeno
problematico.
Ma anche che vi è un non del tutto risolto equilibrio nel protocollo
valutativo tra i diversi aspetti della vita organizzativa sottoposta
valutazione: enfasi su taluni aspetti (i comportamenti degli alunni per
esempio) e esilità della valutazione su aspetti gestionali ed economici
(l’analisi della struttura dei bilanci è di fatto sorvolata), assenza di
osservazione sui caratteri della direzione.
Occorreva partire con SNV e lo si è fatto anche soprassedendo ad alcuni
difetti del protocollo. Giusto così. Ma mantenere un pensiero-soglia a quei
limiti è necessario per alimentare criticamente le fasi successive (il
miglioramento, appunto, in questo caso).
La seconda questione
riguarda il nesso valutazione-miglioramento, che è stato proposto. nel
modello Sistema Nazionale di Valutazione, come “automatico e funzionale”, in
una sorta di riduzionismo concettuale che ha escluso proprio la complessità
dei processi decisionali cui si accennava sopra e che la valutazione mette
comunque in moto, espliciti o sotterranei che siano. In tale concezione
invece il miglioramento ha un legame causale immediato con la valutazione;
ne costituisce la “ragione” e ne rintraccia la funzione.
La semplificazione riduzionistica esclude cioè proprio la consapevolezza
della complessità del processo decisionale per qualsiasi organizzazione e le
dinamiche collettive e personali che si innescano nel misurarsi con un
insuccesso. Faccio un esempio, sempre tratto dal lavoro sul campo: molte
scuole individuano come area del miglioramento gli esiti delle rilevazioni
INVALSI sui livelli di apprendimento in italiano e matematica. (si deve
comunque partire dall’area degli esiti di apprendimenti per individuare il
progetto di miglioramento)
Non è difficile immaginare che se non si tiene conto, in un approccio
olistico, proprio della complessità della decisione da assumere, delle sue
componenti soggettive e collettive che vengono poste in gioco, anche con il
rischio di alterare rapporti e riconoscimenti interni tra il personale, si
rischia o il conflitto, o l’opportunismo o l’adattamento formalistico ad un
processo esclusivamente “dichiarato”. I dati si aggiusteranno in modalità
varie (già esistono in commercio tanti supporti didattici per far esercitare
i ragazzi al test…). Recuperare una consapevolezza che, per esempio
l’educazione linguistica non è esclusivo compito dell’insegnante di lettere
o che l’uso di strumenti come grafici, statistiche, comparazioni alimenta le
competenze matematiche anche coinvolgendo discipline come la storia, la
geografia, l’arte, l’educazione tecnologica richiede appunto che anche un
progetto di miglioramento apparentemente “settoriale” ponga sotto esame
l’intera cultura della organizzazione (significati, ruoli, valori condivisi)
Il motivo di tale riduzionismo funzionalistico tra valutazione e
miglioramento è di fatto “politico” il richiamo ripetuto che si “valuta per
migliorare” e non per punire o premiare, fare graduatorie, ecc… ha un
evidente funzione tranquillizzante rispetto al conflitto ed alle tensioni
che hanno accompagnato il tentativo di costruzione del Sistema Nazionale di
Valutazione. Anzi, una funzione anestetica. Ma è e rimane un errore
scientifico e tecnico che rischia di ribaltarsi sui risultati di questa
esperienza, conformizzandola, attutendo le responsabilità, deviando
l’attenzione critica.
Terza questione.
Coerentemente sono stati definiti dei “modelli” per la costruzione del
progetto di miglioramento da parte delle scuole. Sono strumenti utili per
formalizzare le scelte, le fasi, i controlli, il circuito di andata e
ritorno della valutazione dei risultati. (vedi materiale INDIRE).
Ma non sarà uno schema PDCA o qualche cosa d’altro di adattato, a sostituire
quella attenzione critica alla “cultura organizzativa” di “quella scuola” ed
in particolare ai processi decisionali che individuano il progetto di
miglioramento, restituendone la complessità.
Certo una attenta e “sagace” compilazione della modellistica PDCA si
proporrà come utile a gestire il progetto/processo, ma come è evidente, a
parità di compilazione formale, conterrà sia del bene che del male.
Qualche anno fa circolava clandestino in rete un modello di compilazione di
report valutativi per le scuole britanniche per tamponare l’azione degli
ispettori dell’OFSTED (e scusate se è poco). Nulla da invidiare al “facite
ammuina” della tradizione partenopea.
Per essere chiari: io ho grande fiducia nelle risorse sia di
professionalità che di etica del lavoro, che animano la nostra scuola, che
altrimenti sarebbe ancora più disastrata. Ma proprio per questo dico ai
decisori: non pensiate di sacrificare proprio quelle risorse dirottandole
sulla compilazione di schede, report, diagrammi, che nel loro formalismo e
nella frammentazione della fasi non sostituiranno mai una valutazione
autentica. Al massimo produrranno un effetto cosmetico consolante sia per
chi deve operare sul campo sia per il decisore. Un Istituto di ricerca come
l’INDIRE non può limitarsi a fare il diffusore di un modello PDCA o ad
aprire una “piattaforma” on line. Cose utili si intende. Ma deve prima di
tutto “produrre cultura”, coinvolgere, fidelizzare, dare padronanza di
strumenti ad una intera categoria professionale.
Per sintetizzare: in sistemi complessi e multivarabili più lo strumentario
formale si fa segmentato e complicato, più il pensiero critico e
interpretativo arretra. Come ripeto spesso: meglio strumenti semplici e
pensieri complessi, perché il reciproco strumenti complessi e pensieri
rudimentali o porta fuori strada o comunque toglie significanza a qualunque
modello valutativo.
Naturalmente la trama
delle considerazioni fin qui svolte può essere proficuamente utilizzata come
traccia di approfondimento per esplorare limiti e condizioni del proposto
nesso tra miglioramento e valutazione dei Dirigenti Scolastici, alle
condizioni tecnico scientifiche della “valutazione delle persone”
nell’organizzazione, ai rischi di riduzionismo e meccanicismo sempre
incombenti e paralleli a quelli di opportunismo cosmetico.
Non è questa la sede ma occorrerà tornare alla questione, Mi limito qui a
permettermi di citare un mio testo (F. De Anna “Valutare i dirigenti della
scuola”, Casa Editrice Spaggiari, 2006) nel quale la problematica è
affrontata in comparazione con esperienze nell’impresa o comunque in
organizzazioni diverse dalla scuola.
Qualche ulteriore
considerazione finale invece sulla necessità di guardare con attenzione
critica e acuta lungimiranza l’esperienza che oggi coinvolge le scuole nella
costruzione (appena iniziale) di un Sistema Nazionale di Valutazione,
dedicando in particolare tale attenzione critica alle
specificità/singolarità delle scelte compiute, in qualche caso non coerenti
del tutto con modelli consolidati, in altri casi rese oggettivamente
necessarie dalle condizioni politico-organizzative del sistema di
istruzione.
Alcuni di tali aspetti sono stati citati più sopra (da alcune “assenze” nel
protocollo RAV, al carattere misto tra auto ed etero valutazione non del
tutto pertinente, all’automatismo riduzionistico tra valutazione e
miglioramento). Riflessione più estesa si può trovare in diversi interventi
presenti in una area specifica di questo sito.
Qui, nello specifico della fase “miglioramento” rammento che le scuole
possono/devono utilizzare consulenza ed assistenza esterna in supporto sia
alla specificazione determinata del progetto in cui si impegnano, sia nella
fase esecutiva. Alcuni esperti di consulenza sono indicati dall’INDIRE, ma
le scuole possono rivolgersi a Università, altre organizzazioni ecc…
Vorrei, in proposito segnalare alcune “singolarità” delle modalità con le
quali si affronta la fase miglioramento nella costruzione del Sistema
Nazionale di valutazione. Nella cultura dell’organizzazione, le diverse
figure di supporto (dal counsellig, al tutoring....figure “confinanti” ma
non sovrapponibili) sono tipicamente “on demand”.
La singola organizzazione a fronte di una valutazione critica su alcuni
aspetti del suo lavoro cerca, trova “e paga”, la figura da impegnare nel
progetto miglioramento. Cioè “investe” in esso non solo l’attenzione
critica, la messa in gioco della propria cultura organizzativa, la
riconversione di attese e certezze, ma anche una parte (spesso consistente)
delle proprie risorse (giusto il richiamo iniziale alle “economie” delle
alternative decisionali).
Ciò consente di dare alla relazione di consulenza un rigore evidente e
vincolante per entrambi gli interlocutori. Tanto fondamentale tale rigore,
da essere paragonabile a quello che, almeno per un freudiano come me,
vincola l’esito dell’impegno psicanalitico al fatto che l’analista venga
“pagato” dal paziente.
Nel nostro caso stiamo costruendo una esperienza che si svilupperà su un
modello difforme rispetto al precedente per alcune ragioni evidenti.
La prima:
le scuole riceveranno un contributo economico per il miglioramento,
attraverso meccanismi di finanziamento che sono appropriati ai vincoli del
Diritto Amministrativo (bando, selezione dei progetti, distribuzione di
risorse). Non voglio polemizzare: ma è come se si cercasse il “miglior
miglioramento”, e lo si fa attraverso un apparato formale di “dichiarato”.
In realtà si cercherà “l’atto” più conforme, non il progetto più pertinente.
E’ evidente, da quanto sopra che la relazione tra scuola in miglioramento e
consulente non è la medesima. E’ comunque “deformata” da tale inversione
rispetto alla relazione classica di consulenza.
La seconda:
comunque il contributo finanziario è poca cosa. Una scuola che voglia
davvero procedere alla individuazione di figure di supporto (e che dunque
voglia davvero innescare miglioramento) dovrà “metterci del suo”. E, nelle
condizioni di estrema esiguità delle risorse, per fare ciò dovrà spostarne
da altri progetti ed impegni. Dunque rimettere in gioco il complesso delle
sue scelte e della sua stessa storia e “retorica” progettuale.
In molti casi nulla di male (anzi). Ma come è evidente qui che il
ragionamento condotto sui rischi di una concezione meccanicistica del
rapporto valutazione-miglioramento ritorna alla ribalta
La terza:
io non vedo in circolazione molti “esperti” di organizzazione scolastica
capaci di offrire consulenza appropriata alle scuole e che abbiamo costruito
tale competenza in sede di ricerca sul campo, appresso ai processi. La
scomparsa di Piero Romei ci ha lasciati orfani da tale sensato approccio
alla “scuola come organizzazione”.
Vedo invece già in movimento offerte di consulenza (è l’economia bellezza…)
che vengono da più parti con i loro modellini PDCA e derivati.
Qui credo che il compito dell’INDIRE, come istituto nazionale della ricerca
educativa (o di sue parti), sarebbe fondamentale.
Personalmente non ho nulla contro un meccanismo che preveda la scelta
singola delle scuole su albi di esperti certificati. Ma credo che proprio il
“profilo professionale” dei cosiddetti esperti in consulenza andrebbe
curato, certificato e probabilmente (data la storica novità dell’impressa di
costruzione di un Sistema Nazionale Valutazione) dovrebbe “passare”
attraverso una formazione i cui caratteri assicurino una omogeneità
professionale (e deontologica).
Temo una offerta di “modelli” e “repertori” e “tassonomie” e “diagrammi”, ma
che nulla sappiano di un approccio “clinico”, psicosociale alla analisi
organizzativa.
La quarta:
dovendo comunque cominciare, io metterei alla prova, tra scouting e
formazione e selezione, il gruppo di docenti, dirigenti, giovani ricercatori
che in questi anni hanno seguito le sperimentazioni come VALSIS, o VALES, o
i progetti di Qualità.
E’ ben vero che hanno di volta in volta interpretato funzioni di
“osservatori”, di tutor, di valutatori e che tali interpretazioni non sono
equivalenti. Ma si tratta comunque di persone che si sono misurate sul campo
con la cultura organizzativa specifica delle scuole che hanno visitato,
assistito e valutato.
Le unisce cioè questo denominatore comune. Le diverse funzioni hanno margini
e ambiti di cultura comune sovrapposti. Da qui si potrebbe partire con una
attività mirata di esplorazione di competenze reali, di formazione e di
selezione.
Temo invece che abbia comunque prevalso il formalismo “del diritto
amministrativo”: chi ha fatto l’osservatore non può fare il valutatore, chi
ha fatto il valutatore non può fare il consulente… sono “bandi” diversi,
“contratti” diversi.
Un modo purtroppo conosciuto per affrontare “amministrativamente”
problematiche reali di una qualche complessità.
Questo è campo elettivo di esercizio di autonomia di ricerca scientifica dei
due Istituti Nazionali (INDIRE e INVALSI) che interpretano nelle loro
funzioni interconnesse (ci si augura…) le problematiche della “ricerca
educativa” nel nostro Paese. Mi piacerebbe che il decisore politico e
amministrativo avesse coscienza della fondamentale necessità di tale
autonomia di ricerca, e la considerasse non un vincolo alla propria azione,
ma una condizione per il successo delle sue scelte di politica pubblica.