PavoneRisorse

LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(28.11.2015)

Non solo per 500 euro
di Franco De Anna

 

Come agli albori del Movimento Operaio: qualche soldo dei miseri salari veniva dedicato a costruire le prime associazioni mutualistiche. La povertà alimentava il valore prezioso della autonomia. Da lì nacquero i sindacati, i partiti politici di massa; l’intera storia di un secolo ne porta il segno.
Un illustre collega che si sta impegnando per sviluppare sensate traduzioni della legge 107 in operatività declinabile nella cultura scolastica disponibile (e tradurre, come diceva Calvino, è sempre un po' tradire..) ha proposto che una quota dei 500 euro che dovrebbero incentivare/remunerare/ coprire economicamente, l’uso individuale da parte dei docenti di prodotti e sevizi culturali in rinforzo della loro formazione, sia (ovviamente volontariamente) destinata a finalità collettive e collettivamente determinate. (Mi riferisco ovviamente a Giancarlo Cerini)

Al di là delle polemiche di varia fonte e ispirazione (si va dal considerare i 500 euro una “mancia” sostitutiva di retribuzioni inadeguate e ferme da anni, alle discussioni sulle forme di rendicontazione e sui “consumi” ammessi…) trovo la proposta del collega di grande interesse soprattutto come innesco per riprendere una questione di fondo che cominciai ad affrontare un decennio fa con una piccola pubblicazione che proponeva le prospettive e l’applicazione della “filosofia” e degli strumenti della rendicontazione sociale nella scuola (F. De Anna “Autonomia scolastica e rendicontazione sociale. Dal POF al Bilancio Sociale”. Franco Angeli Editore, Milano 2005).
Sia pure lentamente la problematica ha assunto rilievo istituzionale come fase “a compimento” del modello di Sistema Nazionale di Valutazione, anche se, a mio modesto parere, con il rischio di una “lettura” parziale e non significante, che riduce la rendicontazione sociale alle categorie, pure fondamentali ma che rappresentano altra cosa, della trasparenza e pubblicità degli atti. Insomma una interpretazione prettamente amministrativa…

In quella elaborazione affrontai il tema collegato del rapporto tra autonomia delle organizzazioni scolastiche e problematiche del terzo settore.
Al mio sguardo infatti l’autonomia scolastica ha una fisonomia “anfibia”.
Da un lato è parte di un sistema istituzionale che ha un’unica “ragione sociale”, nazionale, a garanzia della fruizione di un diritto di cittadinanza (l’istruzione) in modo eguale, garantito dallo Stato (vedi Cost.). Il Sistema Nazionale di Istruzione e Formazione
Dall’altro, sotto il profilo operativo, è una “impresa sociale” che nella “produzione materiale” di quel servizio che risponde al diritto di cittadinanza, garantisce quella offerta articolando un rapporto specifico con la comunità locale, gli interlocutori sociali ed economici del territorio, il mondo della ricerca e dell’Università.
Tale articolazione ispira i fondamenti del Regolamento dell’Autonomia. Nei quindici anni che ci separano dalla sua formulazione, abbiamo assistito alla dialettica di tale articolazione con momenti di avanzamento e qualificazione ed altri di ritorno a logiche di gestione centralistica.
In questi quindici anni, il carattere anfibio della autonomia delle istituzioni scolastiche si è riflesso su molti aspetti del loro operare e ha caratterizzato una dialettica permanente sia teorica che pratica in una sorta di transizione incompiuta.
Per esempio nella sua filosofia costitutiva (i riferimenti sono alla Legge 59/97 e alla riforma Costituzionale Titolo Quinto), l’istituzione scolastica autonoma è vincolata ad una definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione (una offerta di prestazioni corrispondenti alla eguaglianza del diritto costituzionale). In realtà nella scuola tali livelli essenziali non sono stati mai definiti: le indicazioni o i programmi nazionali sono altra cosa. Qui trattasi di “prestazioni” non di ispirazioni ideali o di “indicazioni”.
In tale assenza l’esercizio dell’autonomia sembra declinarsi in una sorta di dimensione ideal-volontaristica. E non è un caso che la dimensione economica è costantemente “deprivata” da confronti sensati sulla politica scolastica: che non sia il permanente “tagliare” da un lato, e il permanente “richiedere maggiore spesa”, dall’altro, che si rinforzano a vicenda, dimenticandosi che spesso si taglia con la medesima mancanza di razionalità e selettività con la quale si spende. Mentre “investire” è per definizione attività selettiva e “mirata”.
Contemporaneamente nel suo rapporto con tutti i soggetti costitutivi della Repubblica (i Comuni, le Provincie, le Regioni e le Città metropolitane e lo Stato) la scuola deve declinare il valore-principio della sussidiarietà, richiamato dalla stessa Legge 59 e, per altro, valore costituzionale fin dal 1948, in particolare nel confronto con comunità locale di riferimento.
Altro aspetto di tale dialettica: nel momento della creazione delle istituzioni scolastiche autonome fu fatta la scelta di configurarle come “Enti Pubblici” (e c’erano, almeno in dottrina, altre forme alternative di “organizzazione pubblica”..) quindi legati ai paradigmi di funzionamento del Diritto Amministrativo ed a una gestione economica legata al carattere “finanziario”( e non economico) delle forme di contabilità dello Stato.
Contemporaneamente la scuola autonoma è una organizzazione responsabile non di “atti amministrativi”, ma del “prodotto finale” offerto direttamente ai cittadini come interpretazione del loro diritto.
Dunque dovrebbe poter utilizzare criteri “economici” sia nella sua organizzazione, sia nell’uso delle risorse per garantire economicità, produttività, efficacia ed efficienza, e non solo rispetto del formalismo amministrativo. E in tale senso rispondere alla “domanda finale” dei cittadini.
Potremmo continuare ma non è una discussione sulla autonomia scolastica che qui mi interessa sviluppare (semmai dopo un quindicennio varrebbe la pena affrontare seriamente tale discussione evitando le accuse-lamentele dei delusi e traditi, esattamente come le rivendicazioni di chi l’aveva fin dall’inizio interpretata come una “via sotterranea” verso la privatizzazione). Mi bastano questi cenni per indicare su quale terreno interpretativo mi ponevo affrontando il tema del rapporto tra autonomia scolastica, terzo settore e rendicontazione sociale.

L’idea è tutto sommato molto semplice: la possibilità, nel sistema di istruzione, di dare vita a soggetti del terzo settore (una fondazione, una associazione professionale, una onlus) di carattere locale che affianchino la scuola (o le scuole) di una comunità locale, che costituiscano sia espressioni di responsabilità e di impegno della società civile nella sua autonomia organizzativa per interloquire, collaborare con la scuola del territorio, sia strumenti per supportare i suoi progetti e le sue iniziative.
In particolare essere il canale organizzato, trasparente, partecipato, collettivo, attraverso il quale risorse della società civile , economiche e non, possano raggiungere la scuola e aggiungersi a quelle direttamente erogate dallo Stato, superando anche ogni sospetto di “condizionamento”.
Naturalmente la semplice idea lascia il posto a qualche complessità di realizzazione (e si tenga conto che l’intero settore non profit attende una sua necessaria “riorganizzazione” normativa).

Per esempio: le fondazioni si formano attorno ad un  capitale iniziale, la cui entità varia nelle diverse legislazioni (hanno infatti una legislazione nazionale ma anche regionale); le ONLUS vengono registrate da alcuni tribunali (ma in altri le condizioni sono interpretate diversamente) solamente se hanno finalità di tipo assistenziale; tutto sommato le associazioni sono di più semplice definizione giuridica.
In questi anni alcune scuole hanno percorso queste strade, in modalità e contesti anche molto diversi. Si va da scuole che singole o in collaborazione tra loro hanno dato vita a fondazioni; oppure di associazioni di genitori che, specie in rapporto con scuole del primo ciclo di insediamento storico e delle quali erano essi stessi stati alunni (in molti piccoli centri è condizione comune), si sono configurate come soggetti giuridici del terzo settore e costituiscono un  interlocutore prezioso per le iniziative della scuola stessa.
Con un evidente doppio vantaggio: si tratta di soggetti assolutamente distinti dagli organi istituzionali e dalle loro gerarchie (consigli di Istituto, liste elettorali, rapporti con il Dirigente Scolastico) e contemporaneamente favoriscono i superamento dell’individualismo e corporativismo familistico (il “mio” figliuolo…) di cui sappiamo i limiti anche quando si maschera di partecipazione e democrazia (se si pensa che la media nazionale della partecipazione dei genitori alle elezioni dei Consigli è attorno al 20% si comprende quale orpello ideologico sia in realtà il richiamo alla “democrazia” della partecipazione”). E la gestione economica di tali soggetti fa riferimento al codice civile (non a quello amministrativo) e viene decisa dai soci, non da una autorità sovraordinata.

La connessione tra “scuola autonoma” (una “istituzione”) e “terzo settore” (la dinamica e l’autonomia della società civile, sia pure regolata e vincolata a rendicontazione) consentirebbe di aprire una esperienza di democrazia partecipata capace di reinterpretare, nelle dinamiche di questa fase storica, le intenzioni della “partecipazione” che oltre 40 anni fa (in tutt’altra fase storica) diedero vita alla “rivoluzione” degli Organi Collegiali, e che oggi si mortifica in una caricatura di democrazia.
Per la verità qualcuno, lungo questi anni, distorcendo tale prospettiva, ha provato a proporre di trasformare tout court le scuole autonome in fondazioni… Declinando in tale distorsione un implicito intento “de istituzionalizzante”. (Non uso il termine “privatizzazione” che considero argomento di confusione ideologica se raffrontato con la permanenza di un Ministero della Pubblica Istruzione che conserva la portata gravitazionale del nostro… In verità si può essere “statalisti” e “privatisti” contemporaneamente..).
Insisto: non le scuole che si trasformano in Fondazioni, ma che “danno vita” a fondazioni o altri soggetti del terzo settore.

Naturalmente l’intera elaborazione della rendicontazione sociale trova in tale proposta la sua immediata applicazione: il Bilancio Sociale, comunque si chiami, (per esempio per le fondazioni “Bilancio di Missione”), è un vincolo normativo per terzo settore, mentre è facoltativo per l’impresa o per la Pubblica Amministrazione.
Rimando a tutta quella elaborazione per ogni approfondimento di merito. Qui mi interessa invece esplorare le possibilità che si aprono (almeno in teoria) con il bonus dei 500 Euro vincolati ad un impegno/consumo che sia connesso funzionalmente, e con vincolo di rendicontazione, con la formazione culturale e professionale dei docenti.
Si potrebbe costruire una alternativa ad un uso “privato” e individuale di quelle risorse, come nella proposta fatta da Giancarlo Cerini, dalla quale siamo partiti? Credo sia possibile, ma credo anche sia necessario dare a tale scelta una configurazione organizzativa “forte”.
Superando non tanto il carattere “volontario” della scelta per una destinazione ed un  uso collettivo (che sarebbe comunque un valore), quanto il rischio di una sua declinazione episodica e “caritatevole”.

Sarebbe invece necessario dare a tale scelta supporto organizzato, ripetibile nel tempo, capace di innescare una attività ricorrente; contemporaneamente configurare tale forma organizzata in modo da valorizzare il valore volontario e di assunzione di responsabilità nell’esercizio di una autonomia di scelta, condotta collettivamente e dunque secondo regole comuni, convenienze e decisioni condivise, strumenti di rendicontazione trasparente e finalizzata.

E se fosse proprio la dimensione associativa “professionale”, costituita come soggetto giuridico appartenente al terzo settore, attraverso la quale un gruppo di docenti di una scuola, o di più scuole del medesimo territorio, riconoscibili in tale appartenenza, danno vita e organizzazione stabile ad una progettazione ed attività di formazione professionale, indirizzando verso tale progettazione e iniziativa le risorse che altrimenti avrebbero solamente destinazione “privata”?

Mi si dirà che le “associazioni professionali” già esistono e non son poche. Posso solo ricordare che molte di esse disegnano “appartenenze” settoriali (per esempio per ambiti disciplinari, o per ordini di scuola, per tacere di quelle di “orientamento politico e sindacale”); inoltre la loro presenza e iniziativa è spesso emergente nelle grandi città, ma il nostro è un Paese di piccoli e medi centri, dove tale iniziativa arriva attenuata e di difficile partecipazione.

Io intendo invece un associazionismo diffuso, su base territoriale locale o addirittura di singolo istituto, dove l’autonomia culturale, progettuale, di iniziativa formativa sia sagomata nei caratteri specifici della comunità locale e dei suoi problemi e dei suoi interlocutori, e della sua storia.
E dove (cosa tutt’altro che secondaria) i processi decisionali, di scelta e indirizzo  delle iniziative e di impegno delle risorse siano alla “portata di partecipazione” la più diretta e responsabilizzata possibile, e la più “orizzontale” possibile.
In questo senso l’istituzione scolastica dovrebbe essere semplicemente il riferimento di appartenenza; ma l’associazione creata da un gruppo di docenti, e regolarmente registrata come soggetto giuridico del terzo settore (la procedura è semplicissima) è svincolata da ogni rapporto subordinato o gerarchico con l’istituzione stessa.
Sarà invece quest’ultima, sollecitata dalle stessa associazione, a misurarsi con l’eventuale riconoscimento dell’interesse delle iniziative formative che l’associazione progetta e organizza; esattamente nella medesima prospettiva dovrebbero essere sollecitati gli altri interlocutori locali, dal Comune alle diverse associazioni che animano la vita culturale di tante città anche di piccole dimensioni.

Per dare vita ad una in iniziativa di questo tipo non occorrono grandi risorse. Sarebbe sufficiente una quota molto piccola del bonus che viene erogato ai singoli e destinato a scelte individuali, per partire con una iniziativa di formazione e un programma di sviluppo realisticamente proiettato nel tempo.
Naturalmente occorre un “orientamento politico e culturale” che favorisca questa possibilità di “autorganizzazione” professionale da parte dei docenti, facilitando le procedure e, per esempio, garantendo il riconoscimento di tale impegno tra quelli “rendicontabili” del bonus.
Di tale orientamento dovrebbero farsi carico diversi interlocutori: quello istituzionale innanzi tutto, per garantire i riconoscimenti; ma anche quelli dello stesso associazionismo culturale, professionale e sindacale esistente: vedere nella capacità di autorganizzazione non il pericolo di una concorrenza, ma il segno di una vitalità diffusa capace di ridare anche linfa e vitalità a organizzazioni spesso non proprio confortate da grande partecipazione.

Del resto la storia di realtà nelle quali l’autonoma capacità di organizzazione e iniziativa della società civile (penso al mondo anglosassone) è parte costitutiva del modello di democrazia e di esercizio di una “cittadinanza societaria” ci dimostra che la pluralità delle forme associative, del volontariato, del “privato sociale” alimenta anche un fitto scambio e rapporto tra soggetti diversi, l’uso di momenti di “convention” o di “forum” tra le diverse associazioni.
Da noi, con iniziative associazionistiche  storicamente marcate da appartenenze di diverso tipo (politico, religioso, culturale..) anche il mondo dell’impegno della società civile è stato tradizionalmente segnato e deformato; ma forse è giunto il tempo (e i segni vi sono..) di superare tale condizionamento, di “bonificarlo”, e di recuperare la funzione essenziale della capacità di auto organizzazione dei cittadini rispetto allo sviluppo della democrazia.

Dunque non solo 500 euro, ma, volendo, una occasione di rivitalizzazione “molecolare”, “mutualistica”, della cultura e dei valori della professione docente.
Quale risposta migliore, del resto, a chi semplicemente considera i 500 euro come un modo per “rilanciare i consumi” o peggio ancora per tacitare esigenze salariali da troppo in sofferenza?

 torna indietro