(17.01.2017)
Più
rose che spine per l’inclusione scolastica
Una prima breve analisi laica “e a caldo” del decreto inclusione ex Legge 107
Raffaele Iosa
Queste prima annotazioni sono
frutto di una mattinata intensa di prima analisi della Bozza di Decreto
sull’inclusione previsto dalla legge 107. Anticipo che la mia impressione
complessiva è positiva, con interessanti prospettive. Analizzerò qui soprattutto
i punti che mi sembrano salienti e di novità, sia positivi (rose) che negativi
(spine). Questa mia prima analisi a
caldo è ovviamente provvisoria come
primo avvio di discussione. Per farlo leggo laicamente il Decreto sorvolando sui
conflitti di questi due anni e le
polemiche politiche e sindacali. Vado
alla sostanza materiale e tecnica del testo. Per comprendere quello che scrivo è
utile avere a fianco il testo, non semplici sintesi giornalistiche.
Ovviamente mi soffermerò di più su alcuni particolari e
meno su altri, ma mi riservo ulteriori
approfondimenti in altri e successivi interventi perché il tema è vasto.
Articolo 1: Principi e finalità.
Il testo raccoglie le
migliori parole della tradizione inclusiva italiana, per esempio esalta la
finalizzazione dell’inclusione “..allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno”.
La parola potenzialità è nelle mie orecchie alternativa al tanto “speciale”
tecnico didattico (di tipo adattativo,
separativo, differenzialista, ecc..) della medicalizzazione di molta pedagogia
di questi anni che ho già aspramente criticato in questi anni. Si noti al
proposito, con mio grande piacere, l’assoluta assenza della questione BES
che qui viene del tutto ignorata.
Anticipo qui un aspetto
critico (una spina) che rimane troppo tra le righe circa la funzione degli
insegnanti curricolari: si parla certamente di “ impegno di tutta la comunità
scolastica” in cui tutti dovrebbero agire in corresponsabilità non solo morale
ma anche “fattuale”. Manca però una precisazione più forte (che io avrei messo)
circa il fatto che le cosiddette “attività di sostegno” e la relazione educativa
con l’alunno disabile sono impegno e azione
di tutti i docenti e non solo degli
specialisti in sostegno. Non solo. L’autonomia didattica può prevedere
articolazioni dei docenti su diverse strategie inclusive (es. modello docenti
bis-abili, utilizzo dei laboratori come strategie individualizzate e collettive
di sviluppo dei potenziali , ecc…) qui non esplicitati, anche se non impossibili
visto che c’è l’autonomia. Questa spina si accentua laddove (vedremo poi) sulla
formazione iniziale dei docenti nulla di chiaro si dice sui curricoli dei futuri
docenti curricolari sui temi inclusivi. Un emendamento a questo articolo o più
avanti sulla corresponsabilità e l’articolazione interna delle didattiche
inclusive in varie forme autonome io lo metterei proprio.
Articolo 2: Ambiti di
applicazione
Qui c’è, a mio parere, una
vera e propria rosa. Il comma 2 considera l’inclusione scolastica e in
particolare il PEI come “parte integrante del progetto individuale” (detto in
gergo progetto di vita) previsto dalla
Legge quadro 328/2000, la legge sull’integrazione locale dei servizi alla
persona. E vien da dire: finalmente! Per la verità questo stesso concetto era
previsto da un Accordo Stato Regioni del 2008 al quale e io e Giancarlo Onger
avevamo dato l’anima circa l’integrazione tra PEI e progetto di vita (nella
grigia epoca Fioroni), con una visione
multiprofessionale e sistemica comprendente non solo la scuola ma il tutto della
crescita di un minore disabile nella sua vita. Accordo poi del tutto disatteso,
anzi negato dall’epoca Gelmini e fino ad oggi! Questo comma apre invece alla
scuola finalmente il territorio progettuale dei piani di zona, prevede un doppio
piano: il PEI scolastico e il Piano individuale dei servizi sociali comunali
(art. 3 comma 5 di questo Decreto) che ovviamente dovrebbero essere visti come
integrati (anzi io lo farei unitariamente). Dunque il PEI non è solo della
scuola e gli interventi sociali non solo dei comuni (come quello terapeutico non
solo dei clinici) ma è nella visione unitaria del progetto di vita. Considero
questo comma persino una mia piccola vendetta personale per un passato che ha
preferito separare gli enti e i servizi, tra burocrazie pigre e piccoli poteri
ministeriali e locali. Tra il dire e il
fare però si apre una prospettiva molto complessa
ricca di suggestioni che la scuola e il territorio non devono mancare.
La logica delle multiprofessionalità e
dell’integrazione professionale implica metodi di lavoro e collaborazioni che
non sono oggi sempre facili, non solo per la solita “crisi di personale” ma per
pregiudizi culturali tra diversi soggetti professionali e per le solite logiche
proprietarie dei vari enti. Una governance orizzontale si apre davvero oltre i
formali accordi di programma provinciali?
Articolo 3. Prestazioni e competenze.
L’articolo definisce in modo
tradizionale le diverse competenze di
Stato, regioni, enti locali. Per lo Stato nulla di nuovo, se non una
precisazioni positiva sugli organici ATA rapportata al numero di disabili, e la
conferma che tocca ai collaboratori scolastici statali l’assistenza di base.
Meglio sempre ripetere. Le classi con non più di 22 alunni non sono una novità,
la questione più seria mi pare se questo limite sarà applicabile davvero in
relazione agli organici. Infine il contributo Miur riparametrato sul numero di
disabili in rapporto alla popolazione mi pare atto dovuto. Per i Comuni: non vi
sono novità su personale, servizi, strutture, trasporti ecc..
Alla faccia del sindaco De Magistris di Napoli che continua a negarlo: il
trasporto dei disabili tocca ai Comuni! Interessante
è la previsione di una definizione nazionale
di uniformità (attraverso la Conferenza Unificata Stato regioni) delle
competenze professionali degli educatori legati all’assistenza per l’autonomia
(comma 4). Tema caldo, che ha già da altra via un ddl in corso sulla figure
professionali degli educatori sociali e degli psicopedagogisti.
Servirà a superare la fantasiosa dotazione di alcuni comuni di educatori
à la carte, senza titolo specifico,
verso una omogeneità almeno di formazione (la laurea triennale in educatore
sociale e professionale) ma anche sulla loro gestione se nella logica degli
appalti (tutti al ribasso) o invece degli accrediti che dia anche alle scuole
opzioni di scelta tra varie proposte professionali.
Complessivamente questo
articolo è un dignitoso roseto. Ma ci
sono due spine:
1.
Vedo incertezza sulla gestione da parte degli enti locali delle figure degli
educatori e
delle risorse in relazione
alla scuola (comma 5 voce a) perché non è
previsto neppure dopo, negli articoli sul PEI e l’individuazione delle risorse
di sostegno, un momento unitario di governance tra ente locale e scuola sulla
gestione “nello stesso momento” dei
posti di sostegno e delle ore di educatore come “visione unitaria dei bisogni”.
Il rischio è che la dotazione di educatori sia spuntata
come “rabbocco” da parte del Comune solo
dopo che sono starti assegnati i posti di sostegno. Comportamento grave e
diffuso che rischia diseguaglianze di prestazioni
e confusione. Altrettanto non è
chiara la relazione tra PEI e
Progetto individuale del Comune che dovrebbero crescere parallelamente se non
unitariamente piuttosto che solo inviati. Su questi aspetti vi sono alcune
eccellenze in giro per l’Italia di assoluta rarità: a Ravenna ci sono a maggio
“tavoli di concertazione” USP, singole scuole e servizi sociali del Comune per
individuare, caso per caso sulla base dei PEI
la distribuzione “insieme e nello stesso momento” sia dei sostegni che
degli educatori. Con esiti soddisfacenti anche come valutazione pedagogica
dell’integrazione funzionale delle due figure. Sul caso del rapporto PEI -
Progetto individuale a Jesi (Ancona) da 7 anni si sperimenta un PEI-PATTO non a
caso ai sensi della Legge 104 e insieme della 328 dove nello stesso luogo-
strumento e con la stessa logica la scuola, il Comune, l’ASL, i servizi sociali,
il volontariato, le famiglie e in casi particolari anche gli adolescenti con
disabilità “descrivono insieme i diversi
percorsi inclusivi progettati” con una visione integrata multidisciplinare. In
questo PEI-Patto non c’è solo scritto la didattica e la scuola, ma anche le
terapie, la vita sociale, gli impegni extrascolastici come visione condivisa di
un progetto di vita reale.
La prospettiva del decreto è
buona ma timida: io penso serva un emendamento che forzi di più una coesione di
co-progettazione tra scuola e servizi sia sociali che socio-sanitari.
2.
Vedo incertezza sulla questione dei sussidi didattici e per l’autonomia (comma
6), con il rischio di una confusione sulle “competenze” gestionali (a chi tocca
la spesa per il computer a scuola?) che tormenta varie regioni con comportamenti
difformi. Vedrei qui
bene un emendamento che obbliga a prevedere “piani integrati” di
responsabilità tra i diversi enti nella logica dei piani di zona.
Altrimenti l’impegno resta una pia
intenzione.
Qui mi
soffermo poco perché vorrei parlarne in un successivo saggio ad hoc. Si
affida ancora una volta all’INVALSI la predisposizione del metodo per la
valutazione. Gli oggetti da valutare sono corretti. Vedrei però anche una
lettura diacronica dell’inclusione fino alla vita adulta, che sappia leggere nei
tempi lunghi gli effetti reali della scolarizzazione. L’ISTAT fa qualcosa ma è
troppo poco e i dati sono sparsi. Ad es. quanti disabili lavorano per merito
della Legge 68/99, dove e come? Quale utilità e continuità c’è stata
dall’esperienza scolastica? La lettura
diacronica è assente ed è un male.
Noto,
en passant a proposito di valutazione e di standard, che è
assente nel Decreto la predisposizione di
LEA/LEP sull’inclusione, peraltro presenti nella delega. Non ne conosco il
perché, ma non vorrei che il Governo avesse pensato di spargere vari
Lea/standard dentro tutto il testo senza una precisazione del loro significato
operativo: l’obbligatorietà universale e la loro esigibilità. Ad esempio, è
scritto cosa sia oggi il PEI e chi lo deve fare: basta come LEA/LEP o va scritto
di più? Dopo il recente decreto sui LEA
in Sanità si poteva fare qualcosa di diverso?
Ma anche di questo scriverò in seguito.
Per questo Decreto una spina di cui non conosco le ragioni.
Art. 5 e 6
Certificazione
e valutazione diagnostico-funzionale.
Commissioni
mediche.
I due articoli
vanno letti insieme per le connessioni. L’art. 5
ri-definisce il percorso certificativo
dell’alunno con disabilità
semplificandolo. Interessante l’utilizzo ancora dell’ICD per la mera
certificazione clinica iniziale e non di strumenti molto chiacchierati oggi come
il DSM V (vedi nei miei saggi “La grande malattia),
e finalmente dell’ICF
per la costruzione della valutazione diagnostica-funzionale (Oms 1999).
La novità principale
qui sta in questo nuovo strumento
valutativo detto “valutazione diagnostica-funzionale” che è alla base di una
lettura dinamica della persona con disabilità secondo la logica
bio-psico-sociale che va oltre al mero dato diagnostico di base.
Questa valutazione eredita la
tradizionale diagnosi funzionale e Profilo dinamico, li assorbe e li supera
affidandone una visione sistemica alla logica ICF e gli attribuisce anche
compiti di indirizzo quantitativo e qualitativo per
le responsabilità degli enti (scuola e comune) circa le risorse. Importante
sottolineare come il Decreto attribuirebbe a questa diagnosi funzione giuridica
di superamento della mera certificazione data dagli artt. 3 e 4 della Legge 104
e quindi anche degli equivoci nati dalla sentenza della Corte Costituzionale sui
posti di sostegno in deroga (comma 4 art. 6), anche se questo aspetto è
per me ancora un po’ confuso. Resta il
fatto che questa diagnosi è predisposta dalla stessa Commissione medico legale
che ha predisposto la certificazione clinica, allargata
ad altre figure tra cui quella pedagogica (vedi sotto). Ha quindi valore ben
diverso e più pesante di quella svolta dai servizi neuropsichiatrici
territoriali, con un valore più cogente circa gli impegni che determina per
scuola ed enti locali.
So già che questo punto
determinerà trambusto. So che vi sarà conflitto tra i “gravisti” e i
“funzionalisti”. Chiamo “gravisti” quell’area di associazioni di famiglie e
anche di gruppi di insegnanti che hanno la teoria “se grave nella
certificazione… tutto sostegno per tutto il tempo scuola a prescindere dagli
educatori”. E’ una teoria suggestiva che colpisce certe famiglie e chi cerca
posti. Capisco di più alcune famiglie, davanti ad esperienze desolanti di
docenti senza titolo e grande discontinuità dell’insegnante di sostegno.
Ma chi si occupa di pedagogia deve riflettere.
E’ in corso una tendenza che ho chiamato anni fa
“isolazione” provocata dal troppo sostegno e assistenza che rischia di
isolare (magari in buona fede) la scolarizzazione di un bambino. Questa
isolazione è anche favorita dai “sacerdoti” clinici delle tecniche riabilitative
che confondono didattica e relazione con metodo terapeutico. Curare e non
prendersi cura insomma. Suggerisco maggiore prudenza. Prudenza che hanno i
“funzionalisti” della cui schiera faccio parte (con prudenza) per varie ragioni
pedagogiche che sono alla base della filosofia inclusiva italiana: l’inclusione
a scuola con gli altri, non nelle
aulette speciali, ad esempio. Dal punto di vista scientifico e pedagogico vi
sono buone ragioni per sostenere la teoria del funzionamento:
è noto a tutti, ad esempio, che
non esistono due persone con sindrome di Down identiche, le loro condizioni di
funzionalità possono essere molto diverse.
Da molti anni la letteratura scientifica pedagogica e clinica mondiale
(Oms ICF 1999) considera il “funzionamento” nella sua tripla dimensione
bio-psico-sociale l’oggetto reale da conoscere per comprendere sia le strategie
inclusive migliori sia le risorse necessarie. Funzionamento
non come parole della meccanica fisica ma dell’insieme della persona (olistica)
in situazione reale di vita.
I gravisti temono che
l’approccio funzionale riduca i posti di sostegno. Ma non è affatto vero che una
valutazione funzionale “abbasserà” il numero dei posti di sostegno, esperienze
di sperimentazioni ICF dimostrano invece una gestione delle risorse più mirate
anche con il superamento del rigido
schema dell’art. 3 comma 3 della sola la gravità e della deroga. Vi sono casi e
storie di alunni con disabilità anche non grave che necessitano di maggiori
risorse e strategie più puntuali. In un
saggio successivo a questo porterò dati, casi esperienze che dimostrano la bontà
di un approccio sul funzionamento.
Presiedo da 6 anni la Commissione URP Emilia Romagna che propone ulteriori posti
di sostegno in deroga a seguito della sentenza della Corte. Un lavoro assurdo,
anche se umanamente comprensibile, che produce circa 1.000 posti/anno in più di
sostegno ma…a settembre per i tempi micidiali dell’amministrazione tra organico
di diritto, fatto, ecc. Così il
concetto di “deroga” riconduce a figure professionali “in deroga” cioè non in
organico stabile. Ma anche se si supererà questo assurdo con il nuovo metodo
della valutazione diagnostica-funzionale (lì infatti
ab initio della scolarizzazione si decide il bisogno di risorse), la
lunga e complessa esperienza ci ha insegnato un valore dinamico della gravità
che neppure sfiora la Sentenza della Corte. Un piccolo esempio preso dalla mia
esperienza in Commissione: un alunno Down di 1.a media F70 ritardo mentale
lieve, buona scolarizzazione, nessun sintomo di co-morbilità, ha 18 ore di
sostegno e 9 di educatore: si chiedono +3 ore per completare l’orario della
scuola di 30 ore. Vi pare sensato? In prima media neppure un po’ di sostegno
diffuso tra i docenti o di cooperazione educativa o di normale didattica
è possibile e forse utile per uscire dal rischio isolazione?
Un secondo esempio: bambino di 2.a elementare con disturbo oppositivo
provocatorio, crisi di attaccamento,
balbuzie, in cura psicologica con la famiglia,
gravi crisi relazionali in classe, fughe frequenti. Ha 12 ore di sostegno
e 4 di educatore. Non è possibile considerarlo art. 3 comma 3 perché non è grave
per la clinica (infatti la sua condizione non è cronica), ma lo è per la scuola.
Perché non qualche ora di più di sostegno o di educatore che se ne prendano cura
con empatia?
La categoria “grave” nella scuola può essere meglio compresa
con una lettura da ICF che da ICD, sulla persona e non sull’organo leso o
mancante. Questa neo-valutazione è più ricca e complessa.
Ma c’è un aspetto in più a
favore della valutazione diagnostico-funzionale: il Decreto prevede che la
Commissione medica legale sia allargata ad un pedagogista esperto di inclusione
proposto dal sistema-scuola. E’ una grande novità, già proposta da noi nel 2008
ma di fatto cancellata. Una lettura che abbia anche lo sguardo pedagogico è la
rottura di vecchi steccati scientifici, una visione multiprofessionale e
multiscientifica all’inclusione, dà finalmente valore paritario allo sguardo
pedagogico con quello clinico. Il pedagogista del sistema scuola non sarà
l’impiegato amministrativo che prima si occupava di posti di sostegno, sarà ben
altro. E nella valutazione delle possibili migliori strategie e risorse
“funzionali” al “funzionamento migliore” della persona con disabilità porta un
suo sguardo essenziale per evitare la medicalizzazione della disabilità, che
come sa chi mi legge da tempo è la mia grande critica negativa di questi anni di
messa in un angolo della pedagogia. Dopo
la valutazione diagnostica-funzionale segue il delicato lavoro del PEI delle
scuole e del GIT territoriale con una lunga fase di progettazione e proposta di
servizi e risorse. Ovviamente intravedo molte spine gestionali: i ritardi, le
difficoltà di dialogo tra diverse professioni, gli scarti tra un territorio e
l’altro. Si prevedono lavori in
Conferenza unificata Stato regioni per evitare disparità che già oggi ci sono.
Comunque una soluzione più che giusta da seguire con attenzione perché non resti
tutto com’è o venga gestita male. Ma da perseguire per rompere automatismi
che sarebbero l’inaridimento dell’
inclusione scolastica verso l’isolazione.
Art. 7 Procedure.
L’articolo scandisce in fasi
il procedimento e i tempi dalla certificazione clinica al PEI. Forse queste
procedure possono essere intese un po’ come LEA, però… Una sola osservazione di
spine che riprende un concetto già espresso: al punto d si prevede che l’ente
locale predisponga il suo Piano individuale e lo “trasmette alla scuola”. Perché
non farlo parallelamente e in modo integrato? Mah. Questa separazione a due
canali paralleli mi pare pericolosa
e burocratica.
Art. 8. Il GIT.
Qui si fa presto. IL GIT è il
classico GLIP riciclato, niente di nuovo. Fintanto che la macchina ministeriale
si articola per li rami in questo modo non c’è molto da fare: sempre
provveditorati sono! Si poteva fare
diverso, per esempio per distretti socio-sanitari secondo Legge 328/2000 ma
pazienza, non è questo il problema principale.
Art. 9 Progetto individuale.
Ho già detto prima sui rischi
di canali separati tra Piano individuale del Comune e PEI. Il Progetto
individuale della Legge 328/200 obbligherebbe alla co-progettazione e
condivisione dei contenuti, quanto meno per non fare sovrapposizioni.
Anche qui servono pochi
commenti. Non cambia molto da prima. Interessante l’assenza dei BES nel Decreto,
per me felice soluzione. Ma questa è un’altra storia: la battaglia di alcuni di
noi contro la… besizzazione
eccessiva e formale degli alunni. A proposito dei quali BES, merita rilevare
come questo Decreto smorzi le demagogie di chi pensava e diceva che i docenti di
sostegno si sarebbero dovuti occupare anche degli altri BES.
A proposito: a quando una battaglia
culturale per rivedere la logica BES e quella sui DSA per ridurre la
medicalizzazione e ridare alla pedagogia il suo ruolo: avere cura
e non curare?
Anche qui niente di nuovo, se
non terminologie modernizzate rispetto al passato. Noto anche qui
l’assenza di una migliore conferma del
ruolo di tutti i docenti curricolari e di sostegno a svolgere il sostegno, che è
un’attività didattica e non un ruolo (fin dalla legge 517/77). Un’amnesia
rischiosa di una conferma della delega dei docenti curricolari al sostegno
dell’altro.
Una spina grande e dolorosa è
l’assenza delle famiglie in tutte queste fasi di progettazione. La famiglia con
un figlio disabile è una parte importante del Progetto di vita e va sentita, va
coinvolta, va resa protagonista anche per ridurre i troppi conflitti presenti
oggi spesso perché ci si è parlati poco e di corsa.
Nel caso dei PEI-Patto di Jesi, descritto prima,
la famiglia non firma e basta le carte, ma ha un suo spazio nel PEI-Patto
di progettazione familiare e interviene assieme a tutti gli altri soggetti a
discutere e condividere strategie, azioni, valutazioni dei percorsi.
Altrimenti che integrazione è?
Un’attenta lettura di tutto
il testo fa capir bene che la decisione reale sulle ore e i posti di sostegno
assegnate in ogni scuola rimane in mano al GIT o meglio all’ufficio di ambito
territoriale del MIUR. Certo lo fa sulla base della valutazione
diagnostica-funzionale, delle proposte contenute nei PEI di ogni singolo alunno
e del PAI complessivo definito dalla scuola. Ma alla fine della fiera decide un
monte complessivo di posti o di ore….il MIUR! l In
genere si fa assegnando un certo numero di posti o un certo numero di ore e poi
la scuola si organizza di conseguenza
con una suddivisione interna di persone e di ore. Quindi non cambia nulla
sui vari soggetti decisori.
Nulla viene detto su livelli di
concertazione tra posti di sostegno e posti di educatore né sui modelli di
relazione tra singola scuola e GIT. E questa è una brutta spina. Quindi cambia
molto poco nella materialità degli atti. Spero invece cambi almeno nella
gestione delle relazioni, nella comprensione più efficace dei processi, e in
un’integrazione concertata con le altre risorse del territorio. Il fatto che non
venga citato il GLH non è, a mio parere, segno che sia stato annullato, ma che
lo si consideri un’articolazione funzionale della scuola.
Dunque nascono quattro nuove
“cattedre ad hoc” per il sostegno. Non posso che dirne bene soprattutto per
l’istruzione superiore che aveva 4 ridicole classi di sostegni (sempre vaganti
perché non titolari) conforme alle discipline. Un salto necessario anche per
definire diversamente dal passato i posti effettivi e la formazione iniziale.
Questa formalizzazione dei ruoli dovrebbe aiutare a chiudere definitivamente
l’epoca dell’organico di diritto e poi di fatto, con un’assegnazione più
razionale delle risorse.
Molto interessante e insieme
coraggioso è il comma 2 che prevede l’aumento da
5 a 10 anni la permanenza dei docenti di sostegno per passare alle cattedre
disciplinari, addolcito dalla possibilità di recuperare gli anni pre-ruolo fatti
nel sostegno. Presumo di capire dalla prossime nomine, non da quelle appena
effettuate, ma non ho qui approfondito. Vediamo invece l’aspetto pedagogico: i
ragazzi con disabilità hanno sofferto in questi anni una discontinuità dei posti
e delle persone di sostegno semplicemente scandalosa. Nessuno c’era riuscito a
contenerla nè il ministero né la contrattazione sindacale. Tra i diritti
dell’alunno e gli interessi legittimi del docente vinceva sempre quest’ultimo
per svariate e gravi ragioni di pigrizia ministeriale e sindacale.
Questo passaggio a 10 anni aumenta la continuità, assieme al comma 3
dell’art. 16 che prevede anche la contrattualizzazione biennale (mi sarebbe
piaciuta triennale) di quei docenti di
sostegno a tempo determinato ma in possesso di titolo e in servizio in un anno
dato in una scuola qualora il posto non venga preso da docenti di sostegno a
tempo indeterminato. Una misura di giusta continuità.
Ho troppe storie dolorose
sulle spalle di famiglie e ragazzi in crisi per la volatilità del sostegno per
comprendere come questa misura sia
utile. Forse non sufficiente, ma ridurrà
la volatilità dei sostegni. Se qualcuno ha altre idee ben vengano, ma
ricordiamoci che il fallimento
dell’inclusione spesso inizia dalla discontinuità dell’intervento. Ci pensino i
sindacati ad eventuali salari diversi per questo impegno, ma non deroghino al
principio della continuità. Dieci anni per un insegnante passano e poi ne
vengono altri, per uno studente passano una sola volta e non tornano più.
Dunque la soluzione
trovata, dopo un aspro dibattito tra
vari soggetti, è un percorso accademico di 120 crediti formativi composti da 60
da acquisire durante il quinquennio di formazione di base per la laurea
“disciplinare” e altri 60 con un anno in più (il 6° della carriera accademica)
per il titolo di specializzazione, aperto ovviamente solo a chi ha acquisito i
primi 60 crediti.
Al momento fatico a vederne
la praticabilità operativa nel curricolo accademico e devo chiedere qui lumi ai
miei amici universitari docenti di pedagogia speciale. Sottolineo in questo
primo commento come si sia cercato di salvare la composizione unitaria della
funzione docente che rischiava di avere invece due lauree parallele,
quella disciplinare e quella
specialistica di sostegno. E’ nota la mia posizione contraria ad una laurea solo
specialistica perché temevo la
medicalizzazione di un ruolo e la perdita di connessione col pedagogico.
Ma vorrei vedere meglio l’articolazione
del curricolo. Fatto è che uno studente universitario intenzionato a percorrere
il sesto anno per il sostegno dovrà
scegliere discipline e tesi di carattere inclusivo nel suo curricolo.
Art.
15. Formazione in servizio. A me pare
già tanto vi sia un articolo ad hoc sul tema dopo anni di amnesie e di
casualità. L’articolo brilla però per genericità.
Rischia, ad esempio, di creare
una formazione come convegnistica senza
riferimenti a ricerca-azione, gruppi riflessivi, ecc.. Approfondirò in altro
commento successivo. Non mi piace comunque. Spine
Articolo interessante ma
controverso. Ho già detto il mio parere favorevole sul comma 3 che prevede la
contrattualizzazione biennale dei docenti a tempo determinato di sostegno. Farei
triennale ma è comunque un passo.
Vedo invece spine culturali
sull’utilizzo dei docenti per attività di sostegno all’interno di tutto
l’organico dell’autonomia per svolgere attività di sostegno su proposta ma solo
se… in possesso del titolo di specializzazione! Qui
dobbiamo capirci culturalmente: il sostegno è attività di tutti i docenti e può
esprimersi anche in forme flessibili (Regolamento autonomia artt. 4.5.6) che
prevedano, ad esempio, le forme dette “bis-abili” o di “cattedra mista” dove i
docenti di sostegno e i curricolari si mescolano secondo progetti definiti. Vi
sono esperienze che io apprezzo molto e che da questo articolo non vengono
vietate ma…mimetizzate da questo mito del sostegno “solo se hai il titolo” che
rischia di ridurre il sostegno stesso ad angolo specialistico. Non sempre serve
un sostegno di per sé specialistico, serve un sostegno come individualizzazione
didattica dentro un percorso di flessibilità della classe e non del solo alunno.
Quindi il comma 2
potrebbe essere interpretato o come una specie di “ricatto” ai titolari
se non vi sono nell’organico docenti specialisti di sostegno o come un
isolamento dell’attività del sostegno solo a chi ha il titolo. Il sostegno
diffuso e consapevole è possibile e necessario per tutti. Capisco che la
questione riguarda la scuola media e superiore, incasinate di per sé dal
disciplinismo tayloristico, alle primarie e alle scuole dell’infanzia si è molto
più flessibili e aperti. Ma batterci per il sostegno diffuso e flessibile è
questione non solo di qualità ma anche di civiltà pedagogica.