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LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(11.09.2014)

Diversità, differenze, diffidenze
di Franco De Anna


La “diversità”, si dice, è un valore. Come in un detto del Talmud “Il Signore ha parlato, e io ho sentito due voci”. La diversità implica il dia-logo. Ben vengano dunque le diverse voci.
La “differenza” invece, richiama e implica la ”sottrazione”. Il “togliere” invece che l’unire. Il “ritrarsi”.
La “diffidenza” accompagna la differenza, costruendo il muro protettivo che allontana la doppia voce del dialogo e risparmia la fatica dell’ascolto. Non si impara nulla dalla diffidenza

La discussione attorno al documento del Governo sulla scuola mi sembra riproporre l’attenzione a queste categorie. Constatazione un poco perplessa, trattandosi di una discussione che avviene tra “addetti ai lavori”; in questo caso tra “intellettuali” la cui responsabilità fondamentale è quella di “produrre e riprodurre” significati sociali.
Una responsabilità che implica che, quale che sia la propria opinione sempre da rispettarsi, la sua espressione sia accompagnata da “pensiero e analisi” capaci di dare “ragioni” e ausilio alla significazione, al di là, ovviamente della condivisione.
Provo a ripercorrere i punti più problematici del documento in discussione e le reazioni che suscita, chiarendo fin da subito che non sarà il tentativo di esplorare e rintracciare “ragioni” a farmi classificare come un “renziano” (non lo sono..) o come un “antirenziano”.
Come in ogni contributo che si rispetti (e che sia sufficientemente noioso) pongo una premessa di fondo.
Mi sono fatto la convinzione radicale che il nostro Paese si trovi, non da oggi, a misurarsi con tre questioni di fondo maturate lungo tutta la sua storia, recente e meno recente: la prima è la presenza densa e articolata di oligarchie e corporazioni che si estendono sull’intera formazione sociale; la seconda è l’assenza di realtà e cultura del mercato e delle sue funzioni, sempre mortificate e compresse, in modalità tanto più efficaci ed occulte quanto più se ne predichi ideologicamente la funzione salvifica (e così rinunciando ad ogni effettiva  e reale regolazione del mercato stesso). Già Gramsci ricordava l’assenza di cultura liberale della borghesia italiana e, in parallelo, la sua permanente tentazione “eversiva”.
La terza questione è il carattere di un sistema di welfare che protegge i protetti e che, con il suo carattere previdenziale e assicurativo è lontanissimo da un welfare di cittadinanza. Ognuno comprende che le tre questioni sono largamente intrecciate tra loro nei caratteri del “compromesso sociale” che ha accompagnato lo sviluppo del Paese, soprattutto negli ultimi quaranta anni. Ciò che oggi non “tiene più” sia per il decadere delle risorse disponibili per quel compromesso, sia per le modificazioni della stratificazione sociale, sia per il mutamento delle strutture e dei processi produttivi.
Questa convinzione mi porta a confrontare e giudicare ogni politica pubblica sulla base della sua possibilità/capacità di modificare realmente “qualche cosa” rispetto a quelle tre “questioni” che rappresentano a mio parere la sfida per il futuro. Ad esse faccio richiamo anche nel caso della politica scolastica.

Scuola pubblica e risorse pubbliche

In Costituzione il diritto all’istruzione come fondamentale diritto di cittadinanza è articolato in (almeno) due affermazioni (art. 34).
“L’istruzione inferiore, per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Si tratta dunque di un diritto incondizionato: le risorse pubbliche garantiscono la piena fruizione di tale diritto da parte dei cittadini.
La seconda parte dell’art 34 garantisce a tutti l’accesso all’istruzione superiore; ma è un “diritto condizionato”, la cui fruizione non è gratuita. Richiede risorse da parte del cittadino che ne usufruisce, tanto è vero che l’articolo prosegue dicendo che per “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” la Repubblica provvede con contributi elargiti su base concorsuale. L’istruzione superiore è un diritto, ma non gratuito: risorse pubbliche e investimento privato (del singolo cittadino) si integrano.
Le proposte contenute nel documento governativo sono più che discutibili; ma francamente l’appello alla Costituzione di qualche “oppositore” perché i costi dell’istruzione siano integralmente coperti da risorse pubbliche è privo di fondamento. Certo le parole dei costituenti appaiono oggi in parte obsolete (quel “capaci e meritevoli” e quelle risorse distribuite per concorso appaiono di un “altro tempo”). Se ne può convenire (mah!!…); ma allora occorre essere disponibili ad affrontare una discussione seria su quantità, qualità e distribuzione delle risorse necessarie al sistema di istruzione. E forse anche realizzare che i padri costituenti (che certo non erano pedagogisti) dicono “istruzione inferiore”, non scuola elementare e scuola media, e con quei termini accennano certamente ad una “unitarietà” di quel livello di istruzione (la base minima di cittadinanza) che rappresenta un orizzonte tuttora da realizzare di fronte a ordinamenti permanentemente segmentati, differenze di culture ed immaginari professionali, stratificazioni di interessi di settore… (di salari e di orari..) Ricordiamo che ci si sta provando solo da poco e con strumenti surrettizi di tipo organizzativo più che ordinamentale (i Comprensivi). Per tacere del livello di sconsapevolezza e socializzazione della impostazione “unitaria” dell’obbligo scolastico attuale. (Intervistare in proposito, per esempio, una scrittrice di grande successo di massa come la Mastrocola)
D’altra parte se guardiamo alla distribuzione della popolazione scolastica relativamente ai livelli di istruzione e alla piramide che si restringe progressivamente dall’istruzione inferiore a quella superiore e fino all’Università, risulta evidente la contraddizione reale tra una ispirazione universalistica del diritto all’istruzione e la base sociale progressivamente ristretta che ne usufruisce: le risorse pubbliche necessarie alla istruzione superiore sono distribuite “controgradiente” rispetto alla distribuzione del reddito (capisco che sia una provocazione, ma ci si provi a confrontare “tariffe pubbliche”, dichiarazioni dei redditi e ….evasione fiscale in diverse Università.. Quanto ai capaci e meritevoli…)
Sia sufficiente tutto ciò, per ora, a ricordare che porre la questione del rapporto tra risorse pubbliche e private per il funzionamento reale del sistema pubblico di istruzione, è porre un problema reale (vedi oltre), per il quale occorre scegliere e discriminare risposte e soluzioni (non affermazioni “ontologiche”): non è affatto il “sintomo” di opzioni privatistiche e di dismissione del sistema pubblico, e tanto meno di vulnus costituzionale.

Istruzione pubblica e Pubblica Amministrazione

Quella che in letteratura si indica come “crisi fiscale dello Stato” è processo storico che investe i sistemi di welfare (almeno quelli europei) a partire dagli anni ‘80. In estrema sintesi si configura come la contraddizione tra l’ispirazione universalistica di quei modelli di welfare, la effettiva distribuzione sociale del reddito e dunque la distribuzione e l’entità del prelievo fiscale necessario a supportare la produzione di servizi sociali coerenti a quella ispirazione, e i costi interni di organizzazione, riproduzione, gestione dei grandi apparati pubblici che alla produzione di quei servizi dovrebbero provvedere  (costi interni di riproduzione spesso “autonomi” o comunque disfunzionali rispetto a quelli di produzione dei servizi).
Quella crisi ha dato spazio alla controffensiva storica, innanzi tutto politico-culturale, del neoliberismo (la “società non esiste” come diceva la Thatcher e dunque smontiamo il welfare) ma ha anche ispirato tentativi di riforma delle strutture e dei modelli di gestione degli apparati pubblici: perché si mantenesse il loro carattere pubblico e contemporaneamente si adottassero modelli gestionali capaci di dare produttività, efficienza, e di porre al centro la “produzione” del servizio di cittadinanza, piuttosto che la “riproduzione” degli apparati e dei loro “manuali operativi”. Cito solo la scuola del New Public Management, con le alternative tra stato producer e stato provider, categorie interpretative come il “quasi-mercato”, l’enfasi sulle attività di miglioramento organizzativo e di valutazione dei risultati.
Lascio ai lettori (eventuali) il compito di ricostruire il quanto, il come e il perché la “classe politica” (intera) del nostro Paese sia stata in-capace di affrontare quella crisi (quella sì “epocale”) dei modelli di welfare e di ridisegnare i caratteri dell’intervento pubblico nell’economia e nella “produzione” di servizi alla cittadinanza. Do solo un amaro suggerimento di riflessione storica.

Nel febbraio del 1992 il Governo italiano (Andreotti) firma il trattato di Mastricht che impegnava i Paesi europei a promuovere una convergenza reale nelle strutture dei propri bilanci pubblici (al di là delle discutibili parametrizzazioni), a partire proprio dalla consapevolezza della necessità di pervenire a modellizzazioni e strutturazioni diverse dal passato dell’intervento pubblico in economia e nella produzione di servizi.
Il trattato avrebbe dovuto aprire un decennio di “politica” e “politica economica” capaci di realizzare quell’idea di convergenza e arrivare alla moneta unica. Venti giorni dopo quella “storica” firma, nel nostro Paese partiva Tangentopoli; nello stesso anno le stragi di mafia, e a seguire la fine (ingloriosa) delle forze politiche che avevano gestito e governato il “compromesso sociale” su cui si era modellizzato l’intervento pubblico, la distribuzione della spesa, i caratteri del welfare, il diverso e variegato protezionismo della borghesia italiana. Nei vent’anni successivi la politica italiana ha fatto altro. E la società italiana, e la cultura italiana si sono adeguate.
Nello sfacelo politico, proseguito negli anni seguenti, la continuità degli apparati: la Pubblica Amministrazione, Il Consiglio di Stato, la Ragioneria, la Corte dei Conti, i Tar  (le stesse cose con cui dovrebbe fare i conti la riforma della pubblica amministrazione che si annuncia: molto di più complessa che non la predicazione della  mobilità dell’usciere o dei dirigenti, comunque necessari). Il “manuale operativo” della Pubblica Amministrazione garantiva la riproduzione. Altro che New Public Management…
Qualche cosa si tentò, alla fine degli anni ’90, per esempio con la “Bassanini” e, per la scuola, con l’autonomia scolastica. Ma forse affrontare quella svolta in termini di rielaborazione di New Public Management nell’istruzione era chiedere troppo (sebbene alcuni esempi nel settore della sanità siano più che confortanti). Nel quindicennio successivo Viale Trastevere si rimangiò tutto, non solo le risorse economiche, ma le stesse condizioni gestionali e organizzative.
Curiose e istruttive le alleanze sociali e politiche realizzate lungo tale “controffensiva”. In qualche intervento in questo dibattito l’autonomia scolastica sarebbe il frutto di un tentativo di destrutturazione sistemica e (notevole azzardo argomentativo) di una linea di continuità politica che unisce i vecchi “comunisti” e i giovani “renziani”. In mezzo alla “congiura”, morattiani e gelminiani variamente “funzionalizzati”. Per favore….

Proviamo a prendere per buona, fino a prova contraria (un ipotetico cartesiano…) quella che può sembrare una boutade del documento del Governo e che chiede di indicare le 100 norme amministrative da abolire… Proviamo a farne un terreno di battaglia politica e culturale che mira al bersaglio grosso: al superamento del “manuale operativo” che assimila la scuola (produzione di servizi alla cittadinanza) alla Pubblica Amministrazione (autorizzazioni, permessi, elaborazioni di “atti”, applicazioni di “norme”).
Una sfida che guarda alla scuola come ad una impresa (combinazione di risorse economiche ed umane, di strutture e di lavoro collettivo finalizzato ad un traguardo comune, da raggiungere nel modo più efficace ed efficiente) il cui obiettivo è “produrre” un servizio ad un diritto di cittadinanza… L’autonomia è questa sfida. Nei confronti di Viale Trastevere prima di tutto (la quinta colonna opera sempre nel quartier generale).

Debito pubblico e ricchezza privata

L’accostamento ha interpreti vari, da Bertinotti (probabilmente fu il primo ad utilizzarlo nella polemica politica) a Tremonti (che usava l’argomento per altri fini..). Ma indubbiamente si basa su dati oggettivi. Si consulti il periodico Bollettino dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia che regolarmente dà conto della ricchezza delle famiglie italiane, o si consultino le comparazioni internazionali. A fronte del dato nazionale del debito pubblico senza confronti, si erge il dato di una notevole e significativa consistenza del risparmio privato.
Ovviamente la sua distribuzione sociale è tutt’altro che omogenea e stabile ; ma il possesso di titoli di stato, di obbligazioni, di Fondi, e, soprattutto, di proprietà immobiliari, ha un “plafond sociale” significativamente diffuso ed allargato.
Naturalmente l’oggettività del “dato” abilita (come sempre se ci si limita ai “dati”) le interpretazioni politiche anche opposte. Per qualcuno la consistenza del risparmio privato è di conforto ad una politica fiscale più “disinvolta (che anche i ricchi piangano); per altri è l’invito a non drammatizzare i vincoli europei sulla “disinvoltura” della gestione dei bilanci pubblici (in fondo compensiamo..).
La domanda (eterna), di chiunque si misuri con i problemi di governo della “città” (da Pericle a Quintino Sella..) è quella di come “mediare” tra la ricchezza privata e le necessità, i bisogni e gli impegni del “pubblico”.

La “mediazione” tradizionale è quella fiscale: i cittadini pagano le tasse e in modo proporzionale e progressivo. Lo Stato usa tale “ricchezza” di provenienza “privata” ridistribuendola in servizi alla cittadinanza. Ma un’altra mediazione è costituita dall’acquisto di debito pubblico: se il privato acquista titoli del debito, finanzia lo Stato (ricavandone un beneficio assoluto ma anche relativo con un trattamento fiscale di favore). La situazione nazionale è nota: sono diffusi entrambi i tipi di mediazione, cui se ne aggiunge un terzo, consistente, che nega la prima mediazione (evasione) ed usa la seconda che garantisce un “di più” di trattamento fiscale di favore.
Non mi interessa, in questa sede, la polemica specifica: l’articolata fisionomia dell’evasione fiscale, i vincoli di altro tipo (mercato) che inibiscono l’indirizzamento della ricchezza privata in impieghi produttivi, il peso dell’intermediazione finanziaria e bancaria, la vocazione all’investimento nella casa (con le distorsioni che tale domanda ha indotto nello stesso mercato immobiliare)
Mi interessa invece sottolineare che il “patto sociale” che dovrebbe governare l’efficacia delle diverse mediazioni tra ricchezza privata e necessità pubbliche si destruttura per un insieme di concause: dalla elevatezza formale del prelievo fiscale (un serpente che si morde la coda con l’evasione), alla considerazione della scarsa efficacia ed efficienza dei servizi pubblici finanziati con il prelievo, alla inesistenza di strumenti di semplice gestione di mercato (i salotti buoni e le matrioske del capitalismo nazionale) per fare affluire ricchezza privata verso destinazioni finalizzate, produttive ed esplicitamente dichiarate e non semplicemente verso la indifferenziata macchina della spesa pubblica, alla inesistenza di forme di rendicontazione sociale da parte delle amministrazioni pubbliche, capace di coinvolgere i cittadini “finanziatori”.

Anni fa proposi, provocatoriamente, la emissione di bond finalizzati all’istruzione (lo fanno molte università americane, come MIT di Boston per es..), in modo che l’investimento della ricchezza e del risparmio privato con tale finalizzazione potesse testimoniare l’effettiva consapevolezza (e speranza) di ciò che, a parole, tutti sostengono: che le risorse impegnate in istruzione sono realmente “produttive”.
Pur con l’insopportabile deriva anglicista (ha ragione Vertecchi) nel documento del Governo si ripropone il tema della confluenza “finalizzata” di ricchezza privata nel funzionamento dell’istruzione pubblica (esenzioni fiscali, partecipazioni, fondazioni ecc…).
Il dato di realtà è difficilmente controvertibile: nei bilanci delle scuole (resi opachi dalla esistenza anche cospicua di residui dovuti ad una amministrazione pubblica creditrice inadempiente..), i contributi delle famiglie rappresentano risorse “effettive” da utilizzare per le diverse necessità: da quelle istituzionali di miglioramento dell’offerta formativa a quelle di gestione di cassa mortificata dai ritardi della Pubblica Amministrazione, anche per i consumi di gestione corrente.

La comparazione internazionale ci dice che in Italia tale contributo è assai più basso di quanto avviene in Gran Bretagna, in Spagna, in Francia…Dunque non è problema isolato e inaudito, ma comune. Di fronte a tale realtà, invece che una invettiva frustrata avverso al pericolo di privatizzazione, mi pongo tre problemi.
Il primo: l’autentico impegno (e fatica) democratico è dare conto alla comunità locale, ai cittadini che fanno affluire risorse nella scuola, sia attraverso la fiscalità che in forme finalizzate, di come queste sono impegnate e spese, e non spedire un documento di bilancio verso un cassetto della rispettiva Direzione Scolastica Regionale. Certo in tale impegno sta anche la dignità del “funzionario” pubblico che sa iscrivere e ricondurre l’interesse locale entro quello generale. Altrimenti a cosa servono i dirigenti pubblici?
Il secondo: posto che tale contributo di ricchezza privata sia così significativo, cosa è meglio per salvaguardare da eventuali pericoli di “privatizzazione” il carattere pubblico della produzione del servizio alla cittadinanza? Raccogliere contributi individuali, segmentati, parziali e dispersi, oppure caratterizzare tale contributo in termini di consapevolezza e socializzazione? Meglio un contributo che proviene da una associazione di cittadini, da una fondazione (con i loro organismi di gestione, controllo, socializzazione) o quelli legati alla discrezionalità di un “privato individuale”?
Il terzo: se il contributo delle famiglie e dei privati è già oggi così significativo quantitativamente, e essenziale per la produzione di esperienze e progetti qualificanti per la produzione del servizio, per quale straordinaria ragione si deve darne conto utilizzando gli strumenti della contabilità pubblica? Cioè nella formazione di un bilancio di natura squisitamente finanziaria e non economica come quello pubblico; di difficile, se non impossibile, approccio analitico e di rielaborazione dei costi effettivi; di carattere formale e formalizzato (il controllo è in realtà la corrispondenza delle poste in entrata e uscita: che cosa si sia davvero fatto sfugge e/o non interessa ai revisori).
Domanda resa ancora più cruciale dal fatto che il “contributo pubblico” è oggi spesso fonte di opacità dei bilanci delle scuola dovuta al cumulo dei residui e del ruolo debitore della Pubblica Amministrazione.
Di nuovo invito: accogliamo la sfida a indicare norme amministrative inutili e dannose puntando sulla necessità di rivedere l’applicazione pedissequa dei modelli di contabilità pubblica (amministrazione) alla “produzione” di un servizio ai cittadini come l’istruzione. Del resto il “regolamento” economico e finanziario fu assunto come provvisorio e passibile di verifica successiva nel momento dell’autonomia… è diventato “altro” nel frattempo (quindici anni…).

Il modello selettivo, autoritario, gerarchico e discrezionale del merito e della valutazione.

Alla fine del mio primo anno di servizio come docente (1970/71 un istituto professionale) il Preside, dandomi la “nota di qualifica” ( la valutazione annuale) mi disse, per giustificare un “distinto” invece di “ottimo”, e con molta tranquillità “ Sa professore, è il suo primo anno di lavoro, non posso, darle un “ottimo”, anche se sono molto contento di lei… Il prossimo anno, se proseguirà così..”. Incassai e… basta.
L’anno successivo ero entrato in ruolo e nelle mani del mio Preside (diverso dal precedente), depositai la promessa solenne e poi il giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle Leggi dello Stato. Da comunista ero formato alla ribellione e congiuntamente alla “disciplina” della ribellione.  Ne avrei avute di cose da dire su entrambe le procedure, ma le accettai.
Quale immagine della autorità e della “discrezionalità” dell’esercizio della dirigenza pubblica è paragonabile a quella qui presentata. E (quasi) più quella simbolica di chi raccoglie il tuo giuramento (per la vita e la professione) che non quella di chi ti da la nota di qualifica…
Come sappiamo quell’incastellatura di gerarchia è stata smontata: non si valuta più, ma neppure si giura più… ( e non voglio commentare i pro e i contro…). Ma certo la tendenza pluridecennale è stata quella della destrutturazione della piramide gerarchica. Affermare il pericolo del contrario, oggi, è descrivere una realtà inesistente.
E’ sempre possibile sostenere che frequentiamo scuole diverse: così si potrebbe comprendere come mai per qualcuno le scuole siano oppresse da una domanda di partecipazione da parte di  imprese e privati che vogliono determinarne, fino ad impadronirsene, la gestione e conduzione; allo stesso modo per qualcuno vi sono dirigenti scolastici scrupolosi che resistono a fatica ad offerte di finanziamento privato che, in modo occhiuto ed interessato, vorrebbero determinare indirizzi, modalità di gestione, uso delle strutture e dei  prodotti. (!?)
Ed allo stesso modo vi sono Presidi che non vedono l’ora (!?) di misurarsi con la fatica ( e la responsabilità) di andare a caccia, sul mercato del lavoro caratterizzato da una sproporzione enorme tra domanda e offerta, degli insegnanti che effettivamente siano di loro gradimento. Poco importa che anche nelle imprese la assunzione del personale sia una delle attività più gravose, incerte e meno gratificanti, soprattutto a fronte della incommensurabilità tra domanda e offerta, (c’è letteratura su questo: da Ottieri a Volponi); ma da noi fanno testo Rembado e le sue giaculatorie.
Per alcuni tutto ciò è un pericolo implicito nel documento governativo.
Non c’è come costruirsi da sé i bersagli per essere sicuri di centrarli…

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