(07.01.2017)
Formazione: partire col piede giusto
di Antonio Valentino
Probabilmente
il
Documento ministeriale sul Piano Nazionale per la Formazione in servizio (PNF),
allegato al Decreto Ministeriale 797 del 19.10.2016, è quello destinato a
incidere più profondamente nella vita della scuola, se ovviamente funziona. Ne è
consapevole lo stesso Ministero che è ricorso allo strumento legislativo del DM
per sottolinearne il valore
strategico e che ha messo a disposizione dell'operazione formazione risorse
importante se paragonate a quelle degli anni precedenti.
Si tratta però, come è evidente da una serie di dati
sulla situazione attuale delle nostre scuole, di una operazione in salita, il
cui successo è legato soprattutto alla capacità del MIUR di fare chiarezza su
alcuni nodi concettuali e di rimuovere alcuni oggettivi impedimenti per il
successo del Piano[1].
Qui si richiamano per titoli gli orientamenti che il dibattito degli ultimi mesi ha fatto emergere come particolarmente rilevanti per superare opacità e contraddizioni del testo ministeriale. E cioè che:
la formazione che conta è soprattutto (anche se non solo) quella che si fa sul campo (formazione “situata”, che lo studio e la riflessione individuale rendono solida e promettente),
il successo del Piano dipende molto dalle modalità previste per la valorizzazione della professionalità e che, quindi, se queste non funzionano, la nuova formazione difficilmente potrà decollare,
le reti di ambito vanno viste soprattutto come strutture di coordinamento e servizio, più che strutture sovra-ordinate (che possono risultare ingabbianti se prevalgono logiche burocratiche e neocentralistiche),
l’obbligatorietà non risolve il problema dello sviluppo professionale, che è la sola prospettiva che dà senso e valore alla formazione.
La riflessione che segue intende
riprendere quest'ultimo orientamento
per approfondirlo sotto alcuni versanti che si ritengono particolarmente
rilevanti.
Tre passaggi obbligati
In questa fase, soprattutto tre
passaggi, in qualche modo obbligati e intrecciati, potrebbero contribuire a
costruire risposte persuasive ai dubbi su senso e appetibilità della formazione
e sulla sua fattibilità.
Il primo
: Rendere motivante la formazione
all’interno delle scuole, attraverso dispositivi, organizzativi e promozionali,
e supporti a richiesta, da parte delle reti di scopo operanti nell’ambito. Al
riguardo andrebbe definitivamente
accantonata in modo programmatico la modalità finora più gettonata:
le conferenze
cattedratiche tutte giocate
sulla lezione frontale. Le nuove pratiche dovrebbero pertanto attestarsi sulle
modalità innovative già sperimentate e documentate soprattutto nel sito
dell’INDIRE,
selezionando di volta in volta quelle più
adatte alle specifiche situazioni e studiandone le possibilità di successo.
Tra le modalità innovative particolare attenzione e impegno dovrebbe essere
dedicati a tutte quelle attività che siano in primo luogo risposta ai problemi
del fare scuola e modalità concreta per realizzare i miglioramenti previsti dal
PdM.
Va a questo punto ripreso e sottolineato ancora una volta
che fattore comunque determinante è il superamento dell’attuale modalità di
valorizzazione della professionalità che ha creato nella maggior parte dei casi
più problemi che situazioni
positive, attraverso meccanismi che
colleghino formazione e sviluppo di carriera e progressione economica. Se ne
dovrebbe cominciare a parlare da subito in termini propositivi e prospettando la
adozione di nuove misure a partire dalla conclusione della sperimentazione
triennale in atto.
Il secondo
(che potrebbe rientrare nel primo, ma che è bene abbia una sua specifica
collocazione, data la sua rilevanza):
riconoscere le attività
funzionali, opportunamente
strutturate e connotate, come attività di formazione – autoformazione sul campo
e come tali assolventi l’obbligo formativo (ci sono accenni anche nel
documento ministeriale).
È una idea, quest'ultima, non nuovissima, che andrebbe ripresa, approfondita e
precisata.
Il terzo:
“Rafforzare” (sostenere,
attrezzare) i "luoghi"del lavoro collegiale (CdC, dipartimenti, gruppi di
progetto ….), per rendere possibile la loro trasformazione in "comunità di
pratiche" (che non è una formula magica[2]).
Passaggio particolarmente impegnativo ma non impossibile come dimostrano
sperimentazioni realizzate anche nel nostro paese[3]
in quanto prevede una direzione dell'Istituto (Dirigente scolastico e figure più
coinvolte nella leadership educativa di Istituto), impegnata soprattutto a
1.
collocare
tempi e attività, a carico delle singoli “luoghi”,
nel contesto ordinario di lavoro collegiale dei
docenti. Il che significa guardare al
Piano annuale delle Attività
(che si delibera – come prevede il CCNL
in vigore - all’inizio dell’anno scolastico),
con intenzionalità che tendano a coniugarsi con le finalità del PNF;
2.
mettere a fuoco
strumenti operativi e prevedere
risorse che valgano a favorire
/promuovere comportamenti organizzativi e professionali indispensabili per la
prospettiva indicata, (dallo scambio
di esperienze come punto di attacco
nell’analisi dei problemi , alla
individuazione sistematica dei punti di debolezza o inadeguatezze del
gruppo; dalla disponibilità a forme di
aiuto e sostegno reciproco, a pratiche sostenibili
di ricerca-azione e
approfondimenti mirati);
3.
promuovere
una cultura professionale nei componenti dei
gruppi - attraverso strategie mirate da prevedere per le diverse situazioni –
caratterizzata da capacità di ascolto
attivo e spirito cooperativo, da lavoro di squadra ad
aperture ad azioni di sostegno e contributi formativi esterni, in grado
di integrare i momenti di sviluppo professionale "situato"
(cioè: sul campo e legati
al lavoro d'aula e alla progettualità di istituto) con la
offerta formativa "esterna ….
Bisogna però esser consapevoli che questa prospettiva (i
"luoghi" della scuola come comunità di pratiche), per quanto promettente e
fondata su elaborazioni e sperimentazioni più che ventennali , presuppone
modelli organizzativi, standard di funzionamento e una diversa declinazione del
principio di responsabilità, che stentano a entrare nella cultura
scolastica.
Due condizioni. A proposito di modello organizzativo, cultura professionale e
leve prioritarie
·
il modello organizzativo che meglio può favorire la formazione sul campo e il
suo legame stretto con il lavoro di ogni giorno dentro le classi e tra colleghi
·
la cultura professionale che caratterizza in modo diffuso le pratiche didattiche
e formative dei nostri docenti e il conseguente ruolo di una formazione volta a
portare a consapevolezza l’inadeguatezza – spesso inconsapevole – di quei
comportamenti e di quelle
pratiche non più adatti a
coinvolgere i giovani e a renderli tendenzialmente protagonisti.
Riguardo al primo campo,
l’attenzione va posta su alcune
caratteristiche dei diversi modelli
organizzativi (per il nostro caso, soprattutto: strutture e loro articolazioni,
funzioni e figure, relazioni interne e distribuzione dei poteri, livelli
di autonomia e responsabilità, percezioni dei ruoli ….) in vigore nei vari
ordini di scuola; e quindi le loro
potenzialità e criticità.
Con riferimento, ad esempio, alla scuola secondaria, le linee di analisi - e
quindi gli interrogativi -
riguardano essenzialmente, a mio avviso: a. le forme della collegialità e il
coordinamento dei compiti, dei lavori e dei risultati;
b. la costruzione delle decisioni e la cura della loro implementazione ai
vari livelli; c. le pratiche auto valutative e valutative: sia quelle interne
alle varie articolazioni, sia quelle generali di istituto.
Si tratta di capire, al riguardo:
·
con quali misure e a quali condizioni le attuali asfittiche forme di
collegialità potranno evolversi verso modelli di comunità professionale e
le sue articolazioni (CdC, dipartimenti, commissioni, ecc) potranno
funzionare come “comunità di pratiche” ;
·
a quali condizioni e in quali forme
queste articolazioni possono
coordinarsi tra di loro e avvantaggiarsi reciprocamente (crescere
professionalmente attraverso la riflessione su esperienze proprie e altrui);
·
con quali strumenti (risorse, dispositivi, meccanismi) - già esistenti o da
prevedere - tendere a
superare le attuali fragilità degli organismi collegiali dei docenti ,
ridefinendone senso, modalità di lavoro e organizzazione interna.
L’altro campo
è quello della cultura professionale, nel senso di modi di vedere e vivere la
professione:
Di cui continuano a essere tratti prevalenti la difficoltà a fare squadra tra
colleghi della stessa classe, ma anche a sentirsi dentro al progetto educativo
di istituto; l’autoreferenzialità spinta e un senso di responsabilità debole
rispetto agli esiti del proprio lavoro; oltre ad un disciplinarismo asfittico.
Tratti che fanno correre rischi seri
alla previsione di formazione continua (strutturale e sistemica) che ha,
soprattutto nella collaborazione coi pari, nella ricerca-azione e nella
disponibilità a input esterni, i suoi elementi strutturali e caratterizzanti.
Si tratta di scogli molto rischiosi che solo l’attenzione
- da parte di chi ha competenze e responsabilità – alla motivazione e
agli elementi di contesto (nei termini esemplificativi sopra proposto) può
cercare di aggirare con qualche possibilità di successo.
Su questi terreni entra molto in gioco la capacità sia di visione strategica del
DS e del gruppo dei “disponibili” e competenti (che nelle nostre scuole non
mancano mai), sia di una leadership programmaticamente inclusiva .
Penso che partire nella formazione col piede giusto significhi prioritariamente
fare i conti in concreto con queste
problematiche e creare un clima attrattivo attraverso misure e dispositivi
all’altezza. O no?
[1]
Ne ho parlato in precedenti contributi
(soprattutto in:
La nuova
formazione: tra punti di interesse e aspetti
critici e ambigui e
Non basta
dire: “obbligatoria”. A proposito di formazione
in servizio e questioni connesse),
apparsi su questo sito rispettivamente il
27-11-2016 e il 13-12-2016)
[3] V. Ivana Summa, Se il docente fa “comunità professionale”, in “Rivista dell’Istruzione” n. 6 -2014.