La prima reazione al documento fiorentino sottoscritto dal mondo accademico è...
un moto dell'animo. No, non un movimento dell'intelletto, come necessario nelle
argomentazioni dialettiche, ma un intenso sentimento di nostalgia: manca De
Mauro. Tullio De Mauro il linguista; l’insigne intellettuale che pur
denunciandone le criticità non ha rinunciato a sporcarsi le mani con la scuola e
alla cui cultura e ricerca la scuola sapeva di potersi riferire.
Mi fermo a riflettere.
E così, dopo il primo impulso a intervenire con un elenco di obiezioni nel
merito delle singole questioni, sono lì lì per rinunciare all'impresa.
C’è che la meritoria denuncia del fenomeno, sicuramente diffuso e da
prendere in carico (deficit di competenza linguistica negli studenti che
accedono all'università), dopo l’attenta lettura del documento, solleva in me
dei "però" forse non irrilevanti. E continuo a chiedermi se una
denuncia/appello, che chiama in causa il sistema scolastico su una tematica che
arriva quasi al cuore della sua stessa ragione sociale, non rischi di
sottodimensionare la problematicità della questione per via di analisi poco
impegnate e rimedi dalle coloriture nostalgiche.
Si rischia di rimanere imbozzolati in tesi i cui presupposti sono dati per
scontati e condivisi, ma che tali non sono. Nel nostro caso, l’assunto
implicito - che costituisce poi a
mio avviso il capo d'accusa fondamentale del gruppo fiorentino - è che
l'evoluzione della didattica della lingua, nelle sue innovazioni e negli sforzi
per superare le perentorie e anguste approssimazioni delle prassi tramandate,
abbia di fatto prodotto degenerazioni metodologiche e danni di risultato.
Ripeto: sento chiamata pesantemente in causa l’innovazione
dell’insegnamento linguistico, non nelle sbavature della sua pratica,
ma nella sua scelta di ridimensionare dettati ortografici e analisi morfologiche
e logiche, nelle forme canoniche a noi pervenute dal passato e
da tempo non più ritenute adeguate a
condurre gli allievi alla padronanza della lingua italiana. Perché altrimenti
l'appello alla revisione delle Indicazioni nazionali, che già dedicano
sufficiente attenzione agli apprendimenti ortografici e, più generalmente
grammaticali, e al loro consolidamento nel tempo? La rilettura attenta di
quest'ultimo documento me ne conferma la convinzione. Faccio salva la questione
del “corsivo” che è tutt’altra cosa e ha ben altre implicazioni sul piano delle
abilità cui si riferisce.
Mi toccherebbe difendere gli insegnanti più seri, aggiornati e competenti, di
contro a coloro che, incuranti di qualsiasi sapere professionalmente più elevato
e impegnativo, hanno continuato pigramente a utilizzare pratiche didattiche
consacrate dall'Italia rurale e stancamente reiterate nel tempo.
Quelle pratiche che nella loro semplicissima esecutività consentirebbero a ogni
persona, sufficientemente memore del proprio percorso elementare di molti anni
or sono, di salire in cattedra nella scuola oggi detta primaria: dettato
ortografico, analisi grammaticale, riassunto...
Quelle pratiche che hanno alimentato il pregiudizio che un insegnante, tanto più
elementare fosse il grado scolastico di intervento, tanta meno cultura potesse
possedere.
Il leggere, lo scrivere, e il far di conto, nella percezione comune non avevano
bisogno di colte (coltivate) mediazioni.
È come definire "inutili e persi" gli anni di intensa riflessività didattica,
di ricerca-azione, di tentativi volti a un sapere epistemologicamente fondato
benché elementare;
di strategie per sanare "didatticamente" quel divario spesso rilevato tra ciò
che nel tempo abbiamo definito competenza e ciò che chiamiamo conoscenza; tra
una buona capacità nell'eseguire esercizi di analisi grammaticale/logica e la
difficoltà ad usarne appropriatamente le
loro regole per scrivere ed esprimersi correttamente. La conoscenza è
indispensabile, ma occorre interrogarsi su cosa essa sia e come avvenga, se
l’obiettivo è quello di formare menti riflessive e attive.
Saper distinguere un aggettivo da un nome o un soggetto da un predicato -
operazione di analisi anche importante per l'affinamento della capacità di
riflettere, purché non eseguita meccanicamente - non significa avere
un'aggettivazione adeguata o un lessico appropriato, né saper fare costrutti
sintattici accettabili.
È stato il grande problema, l'inciampo e anzi il macigno con cui sul piano
linguistico si scontrò una scolarizzazione che immise nel sistema i ragazzi del
popolo, la massa. La
grammaticalità (l'uso delle regole nel parlare la lingua nativa senza la
consapevolezza di esse) e il relativo retroterra concettuale che questi ragazzi
portavano a scuola erano ben difformi dai costrutti della lingua che in essa si
insegnava e con cui essa insegnava.
Gli intellettuali di sincera ispirazione democratica si misero in movimento e
con essi tutti quegli insegnanti altrettanto sensibili che avevano a cuore
l'efficacia della loro azione e l'apprendimento dei loro allievi. Corsi
"qualificati" di aggiornamento a proprie spese in tutta Italia, spesso promossi
da associazioni professionali di grande prestigio nazionale (Cidi e Aimc per
tutte), che potenziarono notevolmente gli apprendimenti linguistici delle classi
in cui i docenti operavano.
Una trentennale esperienza di direzione sul campo, guidata da una grande
passione personale per la didattica, ne è, spero, credibile testimonianza.
Erano piuttosto i docenti dei dettatini ortografici e degli sbrigativi
esercizietti di analisi grammaticale (classificazione), quelli i cui allievi
difettavano maggiormente di interesse e risultati. Tranne che non ci fossero
a casa modelli linguistici e livelli culturali ampiamente surroganti.
Tornando al Novecento, da cui si originano per nascita gli studenti
linguisticamente analfabeti già approdati all’università, occorre fare menzione
anche di quella categoria di “docenti di mezzo”, quei tanti docenti che, ahimè,
pur consapevoli della inadeguatezza delle loro usurate pratiche didattiche - e
però privi della passione necessaria a porvi individualmente rimedio - non hanno
incontrato sulla propria strada dirigenti scolastici avvertiti, né
occasioni serie di orientamento e
formazione all'innovazione, virando così verso ricettari confusi e formule
didattiche scarsamente incisive.
E il grado scolastico superiore, salvo rare eccezioni, distante per
obiettivi e contenuti da una didattica della correzione che non fosse il colore
della penna, ha proseguito nel dettame degli specifici programmi ministeriali.
Per carità, programmi già corposi di loro e, dunque, legittimamente invocati per
scongiurare rallentamenti di passo.
La storia più recente sta nelle vicende degli ultimi tre lustri:
l'erosione costante (fin quasi all'azzeramento) dei fondi per la formazione alle
scuole; una filosofia governativa che ha ridotto le ore del ciclo primario
considerando la sua quantità inversamente proporzionale agli apprendimenti
(Gelmini/Tremonti); riforme a ogni cambio di governo che, non metabolizzate,
hanno stratificato il sistema di una serie di visioni confliggenti.
E poi una zavorra di emergenze sociali che la scuola, per statuto pedagogico, si
è trovata a caricare nel proprio curricolo, spesso in modalità aggiuntiva, e che
riducono e sviano l'attenzione dalle competenze di base. E ancora, estenuanti
procedure scrittorio-burocratiche, non solo a uso interno, ma altresì quale base
difensiva per eventuali contestazioni familiari di voti e giudizi. Insomma, la
partita non è stata così semplice e la
semplificazione dell’analisi, davvero, non è utile.
Mi accingo a concludere, non tralasciando però qualche domanda come, ad esempio,
perché un Ministero all'istruzione,
preposto all'università e alla scuola insieme, non si preoccupi di mettere a più
stretto e organico contatto i due mondi, con un circuito continuo di
alimentazione e interazione.