(08.12.2016)
La nuova formazione tra punti di
interesse e aspetti critici e ambigui
di Antonio Valentino
Il Piano Nazionale per la Formazione dei docenti (PNF) si
configura giuridicamente come “atto di indirizzo adottato con decreto
ministeriale”.
Questo significa che è un documento impegnativo, non solo
perché vi si definiscono
– per il terreno della formazione - le priorità e le risorse finanziarie
per il trienni ‘16-‘19, ma anche (e soprattutto) perché vi
si delineano le strategie con cui si intende favorire e riconoscere lo
sviluppo professionale degli operatori del sistema di Istruzione e Formazione.
La parola chiave per cogliere la novità non è tanto
obbligatorietà, che pure è il termine
più gettonato per indicare il cambiamento in atto,
quanto “sistema”.
Nel senso che
la pluralità degli interventi e delle modalità formative
(dai seminari ai gruppi di ricerca didattica, dalle attività
on line alla documentazione e
realizzazione di buone pratiche …), ma anche gli strumenti e le strategie,
costituiscono, nelle previsioni,
un insieme organico nel quale
sono centrali il coordinamento e la
sinergia.
Quindi non solo pluralità di opportunità, ma anche
luoghi e risorse che - se le cose vanno a buon fine e non ci si perde per
strada o si svia – permettano (come dice il Documento”):
a.
di “leggere” e “rafforzare” i vari
aspetti della professionalità, lungo tutta l’arco della vita professionale dei
suoi operatori,
b.
di “armonizzare” le opportunità
formative dei piani delle singole
Istituzioni Scolastiche (IS), di quelli delle reti di scopo
e dei piani nazionali,
c.
di “documentare”, attraverso
dispositivi come il portfolio
professionale e il piano di crescita professionale,
il progressivo sviluppo di competenze previsti dall’Atto di indirizzo.
Nel Documento ministeriale c’è però anche – per chi ci crede
- un accenno “alle prospettive di carriera dei docenti in termini di
legittimazione strutturale delle attività condotte” (sic!
Tradotto dal burocratese ministeriale: possibilità di sviluppo di carriera,
senza spiegare come, attraverso percorsi di formazione
opportunamente attestati). Che fa il
paio con l’affermazione secondo cui il Piano nazionale “… costituisce il
presupposto informativo e strategico per affrontare il tema della valorizzazione
della carriera dei docenti.”. Di altrettanto apprezzabile e limpida scrittura.
Questi richiami solo per dire che ci troviamo di fronte a un
Documento nel quale è necessario distinguere la sostanza dal fumo.
Qui interessa
però mettere l’accento sulle tre
finalità precedenti, indicati nel
testo ministeriale come “la missione”
del nuovo sistema. E leggerle congiuntamente all’impegno finanziario del governo
(nell’ultimo capitolo del PNF si parla di circa un miliardo e mezzo nel triennio
– che non sono proprio bruscolini -
tra risorse previste dalla Legge,
fondi europei e quelli ex lege
440).
Che
l’Amministrazione poi consideri l’intera operazione sulla formazione come il
terreno su cui conta di più, anche per recuperare un po’ di immagine, lo si
capisce dallo strumento scelto per il documento – il decreto ministeriale -.
Si tratta con buona evidenza di
segnali promettenti.
Interrogativi e problemi
– come in tutte le operazioni di un certo peso - ovviamente non mancano: Come
funzionerà? Quali i punti controversi e le debolezze di sistema, evidenziabili
nella struttura del Piano? E ancora: Con quali strumenti, attenzioni e strategie
assicurare sinergie a livello di sistema
tra i vari soggetti interessati alla partita? Quali i punti di attacco da
privilegiare (eventualmente)? E più in generale: quali linee guida a cui dare
centralità per una formazione che conti? Ma, soprattutto: quale il modello di
scuola di riferimento?
Nell’affrontare questi interrogativi,
occorre avere anche la
consapevolezza – in primo luogo, penso, tra i DS - che si tratta di
un’operazione
tutta in salita. Perché,
dopo le vicissitudini dell’attribuzione del
bonus per i “meritevoli” e i pasticci
estivi sulla mobilità (a cui vanno aggiunte le incertezze sulle reti),
diventa una operazione
problematica coinvolgere soprattutto
i docenti.
Avere questa consapevolezza e trovare – a partire
soprattutto dai livelli alti - modi e
strumenti, per creare almeno
un clima di ascolto perché la comunicazione passi, si presenta – penso -
nell’attuale situazione come un punto non trascurabile.
È
convincimento diffuso che il discorso sulla formazione - data la sua centralità
- avrà senso e valore se riuscirà a passare, in modo significativo, attraverso
una informazione serena e un
conseguente e auspicabile
recupero di protagonismo
almeno della parte più attiva dei docenti.
Ma anche se, contestualmente, offrirà
garanzie e assicurazioni
a.
che non si tratta di una operazione dall’alto;
b. che non ci troviamo di fronte all’ennesimo adempimento
formale e a conseguenti “molestie burocratiche” (che è un rischio sempre
presente con l’Amministrazione che ci ritroviamo)
c. che (soprattutto)
la riapertura della fase
contrattuale, guardando ai cambiamenti richiesti dalla riforma e alla
situazione retributiva, sia un impegno non rinviabile.
Va però detto che, per quanto riguarda
la comunicazione, il Documento
ministeriale non aiuta, a partire dal numero delle pagine: 88 (ottantotto!).
E, per giunta, una modalità comunicativa sbagliata e sviante: per il
linguaggio, enfatico e pretenzioso; per la tendenza di partire sempre da Adamo
ed Eva; per le ripetizioni di
concetti così numerose che neanche
un tema insufficiente della maturità; per la presenza di contenuti che non
c’entrano o c’ entrano solo marginalmente;
per il tono diffusamente assertivo e quindi fastidioso: con tutti quei
“ci sarà”, “si dovrà”, “con questo
sistema sarà possibile ….” che sembrano dare
quasi per raggiunti o facilmente raggiungibili traguardi che sono invece
molto complicati.
Una
percezione non solo
percezione
Questo, in generale.
In particolare, il punto su cui si vuole qui ragionare è la
complessiva impostazione di tipo
sostanzialmente dirigistico e top
down del PNF: il livello nazionale
che detta le regole e fa le sue operazioni destinate a cadere a cascata sul
livelli sottostanti; il sottostante livello regionale che coordina e gestisce le
reti di ambito; queste a loro volta
che coordinano e promuovono
l’offerta formative delle reti di scopo.
In questa impostazione le scuole sembrano perdere il loro
ruolo di soggetti attivi e protagonisti – come dovrebbe essere -
dell’operazione.
Risulta
infatti
piuttosto opacizzata, se non proprio
rimossa - nonostante qualche
affermazione isolata del Documento[1]
- l’idea che la vera formazione
valorizza le esperienze e la
messa in comune di difficoltà e problemi;
e quindi la ricerca di
soluzioni attraverso modalità e percorsi
“situati”.
Non va certamente ignorata la situazione in cui ci si trova.
E cioè
a. che la formazione in servizio
non gode, in genere, né di buona
salute né di molta fortuna tra gli insegnanti. E questo
per una serie di ragioni, spesso, tra l’altro,
di tutto rispetto,
b. che le motivazioni al riguardo sono pertanto piuttosto
scarse,
c. che l’offerta interna alle scuole ha privilegiato, quando
c’era, un taglio tradizionale e poco si è preoccupata delle ricadute e delle
verifiche;
d. che idem si
può dire, con le solite lodevoli eccezioni, dell’offerta esterna;
e. che manca
una tradizione e quindi un repertorio diffuso di esperienze innovative e
significative su questo campo.
Non si può quindi far finta di niente di fronte ad un quadro
che si presenta problematico.
Adottare
strategie formative diversificate, a seconda delle situazioni e del tipo di
bisogno
-
integrando virtuosamente i
processi di formazione strettamente connessi al lavoro
d'aula e alla progettualità di istituto,
con una offerta formativa "esterna", sia pure governata da Piani nazionali
- appare
pertanto una modalità operativa da cui non si potrà prescindere.
Ma la
percezione che si ha, leggendo il Documento,
è che la visione prevalente sia, anche sul versante della formazione,
di tipo centralistico. E questo rappresenta un elemento di debolezza e
quindi un limite a cui contrapporre - se la percezione è confermata nelle scelte
del MIUR e degli USR – idee guida che la ricerca e l’esperienza internazionale
indicano come più efficaci e interessanti.
Qualche
idea guida. La formazione che conta
Ne ho già accennato, ma è il caso di riprenderle e precisarle.
1. In primo luogo l’idea della valorizzazione delle
esperienze professionali: per sottolineare ulteriormente che la
formazione che conta è quella che si fa sul campo; che si cresce
professionalmente se si è aiutati a crescere dentro il proprio ambito
lavorativo, attraverso la capacità
di riflettere sulle proprie esperienze, di confrontarsi con i propri colleghi,
di saper ascoltare e ripensare il proprio vissuto professionale.
Questo significa concretamente
ripensare la scuola come organizzazione
che apprende (Learning Organization:
da quanto se ne parla!) e i vari spazi di lavoro (dalla classe ai Cdc, dai
dipartimenti ai gruppi di progetto ….) come
ambienti organizzati di formazione e
di “apprendimento continuo”.
2. Se i
ragionamenti più sensati sulla formazione partono allora dalla riflessione sul
proprio campo di esperienze (ovviamente dentro
spazi organizzati con queste
finalità), il primo e principale punto d’attacco (non l’unico, certo) è mettere
a fuoco l’idea di scuola come comunità
professionale, cioè luogo dell’appartenenza
e dell’identità (nozione
anch’essa presente nella L. 107, ma come specchietto per le allodole – mi
sembra -); all’intermo della quale promuovere e favorire vere e proprie “
comunità di pratiche”[2];
cioè luoghi dello scambio di conoscenze ed esperienze, della ricerca-azione
comune, della condivisione degli strumenti, dell’aiuto reciproco, visti come
momenti di formazione.
Nella prospettiva di una nuova formazione, l’attenzione
prioritaria dovrebbe perciò essere volta
soprattutto a sostenere le scuole nella progettazione e realizzazione di
Piani interni che privilegino queste
idee - chiave.
In tale
visione, le reti di ambito dovrebbero
quindi essere soprattutto strutture di coordinamento e servizio, più che
strutture sovra-ordinate.
Certamente un approccio che privilegi scelte di questo tipo
è indubbiamente più difficile. Perché
a.
si scontra con una visione ancora largamente diffusa dell’insegnamento come
spazio privato e dell’autoreferenzialità; e anche dell’individualismo come
merce preferita tra gli insegnanti ;
b. non
considera il peso dei modelli di
cultura professionale – centrati sull’insegnamento frontale, cattedratico – che
ci si porta dietro dalle esperienze scolastiche da studenti[3]”;
c. non c’è – come già dicevo - una tradizione di cui
avvalersi;
d. manchiamo di una cultura organizzativa e di una cultura
progettuale diffuse anche tra gli stessi DS e le altre
figure apicali – come si dice – del
sistema scuola.
Se ne potrebbe eventualmente parlare in una successiva
riflessione.
[1] ( “La formazione che lascia il segno si basa su un confronto tra pari e sulla rielaborazione critica delle esperienze didattiche …”. (punto 5.4 del Documento): Una affermazione solitaria che non trova sviluppi e traduzione organizzativa in un Piano che riporta addirittura le domande per costruire i modelli per la valutazione delle attività formative ed esempi di destinatari delle nove priorità nazionali!
[3]
Si rinvia alla lezione di Jack
Mezirow
e alla sua ricerca e elaborazione su
L’apprendimento trasformativo.