(07.10.2016)
Il Piano nazionale
della formazione
Direbbe Totò: "Ma per dove vogliamo andare, per dove dobbiamo andare?"
Ridotto all’osso il concetto di piano strategico, consiste nel cercare di
rispondere a tre domande:
I.
Quali sono gli obiettivi che si intendono conseguire col piano?
II.
A che punto siamo del cammino sulla strada del loro perseguimento (Totò era in
piazza Duomo a Milano!)
III.
Come e con quali risorse possiamo arrivare alla méta?
Questo in letteratura (più o meno) è il
"piano", mi domando: dove sono i tre elementi richiamati dalla battuta di Totò
nel Piano presentato dalla Ministra Giovannini? Eppure esso ha una certa
consistenza testuale! Trattasi di 88 slides, fra l’altro assai poco “leggibili”
nella forma di slideshare: è buona regola che le slides debbano contenere solo
schemi o mappe con le parole chiave di un intervento; queste invece sono dei
veri e propri testi scritti in forma di saggio e di argomentazione, più che
presentazioni di idee concise e con un insight testuale immediato…..
Dove vogliamo andare? Pare che la meta sia il miglioramento del servizio
scolastico....; in letteratura gli obiettivi di un piano dovrebbero essere
quantificabili e rilevabili: non mi pare che il documento lo faccia.
Per andare da qualche parte, bisogna sapere dove si è: trovate qualche slide
dedicata a questa apparentemente banale considerazione? Dei venti anni di
esperienza pregressa della formazione in servizio dei docenti non trovo
traccia....possibile che l'esperienza non serva a nulla (nel bene e nel male,
s'intende)?
Ed infine la domanda chiave: come ci arriviamo (dove vogliamo andare)? Il
"corpo" del piano sembra essere questo, ma in realtà più che un corpo mi sembra
una accozzaglia gli elementi ammassati e talvolta interconnessi, ma non
certamente in grado di dar vita ad un "sistema"...
Che dovrebbe essere fatto da tre motori che lavorano in sinergia: il committente
(colui che progetta, organizza, gestisce e valute a le azioni del Piano); il
formatore e i destinatari…
Qui il committente è piarandelliano,
uno, nessuno, centomila...il Miur, le scuole (aurtonome, naturalmente!) o loro
reti (di scopo, ma anche di ambito!), i singoli insegnanti (chche "comprano"
formazione sul "mercato)....il tutto in coerenza (mi raccomando!) con gli
obiettivi di miglioramento del PTOF...il committente, poi, dovrebbe occuparsi
della organizzazione: serve un budget (quale, se nel dociumento ci sono solo le
cifre globali senza nulla al riguardo della loro ripartizione: vengono inventate
le Unità Formative, ma non si dice di quanrte ore siano fatte, nè tanto meno
quale sia il budget per ciascuna di essse....si parla genericamente di modelli
in presenza, su piattaforma informatica o "blended"...si mescolano attività di
formazione e ricerca...ed infine si dice che al MIUR sarà intallata una "cabina
di regia" con compiti anche di valutazione del piano, su quali basi (indicatori
e strumenti) vai a sapere.....
Non migliore sorte tocca ai formatori: tutti sono insieme formatori e
destinatari: le agenzie qualificate, quelle certificate, le quali sono
associazioni o agenzie formate da docenti e Dirigenti (ma non dovrebbero essere,
questi, i “clienti” della formazione, tra l’altro obbligati!)…Per tornare poi
alle verifiche: chi assicura l’intera operazione (non la chiamo sistema, perché
non lo è) circa la qualità dei formatori? Il mercato, forse? cioè il numero
delle scuole e/o degli insegnanti che si iscrivono ai corsi (pardon laboratori,
seminari, workshop….)? “ma mi faccia il piacere…..!” (Totò)
Ed infine vediamo come viene
tratteggiato il sottosistema dei destinatari della formazione: sono “tutti gli
inseganti di ruolo”, già perché gli altri non ne han no bisogno….Essi possono
scegliere di prender parte ad unità formative, purché facenti parte del piano (a
livello nazionale, territoriale o della propria scuola)….. il tutto in coerenza
con gli obiettivi di miglioramento che ogni scuola si è data nel Rapporto di
autovalutazione… E se un istituto ha scritto nel RAV che la scuola deve migliore
le pratiche dell’apprendimento cooperativo, mentre il Prof di Agraria ha bisogno
di approfondire la conoscenza delle tecniche di coltivazione del cavolo viola
(l’approfondimento delle competenze disciplinari è uno dei macroobiettivi del
Piano Nazionale!), chi potrà mai obbligare detto prof a lasciare da parte i suoi
interessi “colturali” a vantaggio di quella strana cosa che è il “cooperative
learning”? E il portfolio, nel quale ogni docente racchiuderà il “tesoretto”
delle sue esperienze formative, potrà considerarsi una prova del successo del
PIANO o servirà piuttosto a garantire al “raccoglitore” i punti necessari per
avere un incentivo in denaro al momento della valutazione del merito? E cosa
valuterà il Dirigente del portfolio: il numero delle Unità formative?, il loro
grado di coerenza con gli obiettivi migliorativi della scuola? e cosa ci metterà
nel portfolio il docente che ha fatto il formatore, invece che il destinatario
dei percorsi che ha frequentato? Ed ancora:
le certificazioni che saranno incluse nel portfolio cosa certificano? La
presenza (qualcuno più sfacciato direbbe: le ore di “riscaldamento della
sedia”)?, la soddisfazione (la formazione non darà la felicità, ma, forse,
aiuta!)?, gli apprendimenti (e da quando saperne di più aiuta a fare meglio?) ?,
la ricaduta sull’insegnamento (ovvero, i miglioramenti nella qualità delle
scelte metodologiche e didattiche in aula)?
Di tutto questo non c’è traccia nel
Piano, o, se c’è, è così sfumata da apparire evanescente… per cui confermo la
domanda iniziale: ma è un piano? O
non piuttosto un documento
programmatico, buono per tener…. buoni tutti i protagonisti?
Sopra tutte queste domande ce ne sta una che rende il PIANO NAZIONALE un gigante
coi piedi di argilla: non si può servire a due padroni, o si amerà l’uno e si
odierà l’altro o viceversa…. Non si può fare un piano con due obiettivi diversi:
o la Formazione è funzione della qualità del servizio scolastico o è funzione
dello sviluppo professionale di ciascun insegnante… tertium non datur!
Nel primo caso non c’è bisogno di statuire l’obbligo formativo, se non in
termini di sanzione per chi non adegua i propri comportamenti al principio dello
sviluppo organizzativo della scuola dove lavora. Inoltre non è l’insegnante a
scegliere i percorsi formativi, ma la scuola (o le reti di scopo), o,
addirittura, come già avvenuto per momenti particolarmente significativi, che
rappresentavano cambiamenti epocali nella struttura dei servizi scolastici, l’
Amministrazione centrale o Periferica: si veda il caso della legge 148/92 (la
famosa Riforma dei Moduli nella scuola elementare) o, prima ancora, il Piano
Nazionale di formazione ai Programmi del 1985. (sempre la scuola primaria,
comunque!)
Nel secondo caso, ogni insegnante sceglie la formazione che gli pare e raccoglie
i “punti-qualità” in un portfolio che, se il datore di lavoro ed i Sindacati
saranno d’accordo, potrebbe servire per un aumento di stipendio o lo sviluppo di
carriera! Il principio su cui si basa questa opzione è che inseganti più
preparati fanno una scuola migliore: il che è vero solo in parte. Nei paesi del
Nord Europa fatto cento l’investimento nel sistema scolastico, la regola è che
60 va in investimenti per il personale e 40 per ambienti, attrezzature
organizzazione e gestione (in Italia il rapporto è 90 e 10!!!!). Ciò significa
che la qualità della scuola dipende dagli insegnanti per poco più della metà
dello sforzo impiegato per l’educazione scolastica, in quelle culture; noi che
siamo ancora intrisi di gentilianesimo e che leggiamo l’articolo della
costituzione sulla libertà di insegnamento come un diritto individuale (….perché
ci piace così, non perché sia così….)
pensiamo che per i nove decimi il successo della formazione scolastica
dipenda dalla qualità degli insgnanti…discutibile, per me, ma se la pensano così
al MIUR, perché non fare un piano per sviluppare le competenze professionali
individuali, senza bisogno di inventarsi finte coerenze tra bisogni individuali
dei docenti e obiettivi di miglioramento delle scuole? E perché non usare
l’obbligo di formazione come uno strumento “recuperativo” delle buone pratiche
di insegnamento per quei docenti che palesemente manifestano carenze e lacune
anche gravi nell’adempimento dei loro compiti professionali? Quando facevo
l’ispettore, un venti per cento del mio lavoro era dedicato alle cosiddette
“ispezioni disposte”, che per il 90% riguardavano insegnanti in forte
disagio nella conduzione della classe, nelle relazioni coi genitori ed i
colleghi, nella conoscenza delle materie del curricolo e le loro didattiche….Il
guaio era che al termine di una sia pur accurata ricognizione dello stato delle
cose i solerti “tutori” dei diritti della persona e della professione
prevedevano solo sanzioni (risibili fin che si vuole, ma sanzioni; peraltro con
la cosiddetta Riforma Brunetta e successive integrazioni si arriva alla sanzione
definitiva, il licenziamento, per i giustizialisti, siccome è previsto per
legge, va bene… anche se mette sulla strada una persona a rischio di
disoccupazione perenne!). Ebbene, ricordo che più di una volta nei miei rapporti
alla Amministrazione che mi commissionava tali compiti suggerivo di fare come
faceva Pol Pot in Cambogia : mandare il/la maestro/a (o prof) in un “campo di
rieducazione” (metodologica, relazionale o tecnica, a seconda delle carenze
rilevate)…. Fuor di metafora ( ma una volta che usai per davvero quella metafora
in un rapporto, ci fu un provveditore agli studi che minacciò di denunciarmi!)
intendevo dire che la persona in difficoltà, se aiutata ed accompagnata con una
formazione adeguata e mirata alle sue effettive carenze avrebbe potuto rientrare
nella normale qualità delle prestazioni professionali delle/i sue/i colleghe/i.
Questo per dire che esiste anche una funzione “recuperativa” della formazione in
servizio, di cui il piano non parla; proprio perché, come diceva Totò, non ha
ben deciso se l’obiettivo è avere insegnanti migliori, o fare in modo che
inseganti più preparati creino le condizioni perché la scuola dove lavorano sia
migliore.
Ho detto che rispetto ai due macro-obiettivi del Piano di formazione: tertium
non datur: non datur per la logica e l’organizzazione per il documento Giannini,
al contrario, si tenta di saldare i due corni della fiamma, arrampicandosi sui
vetri di una raccolta-punti individuale, temperata dalla auspicata (e
indimostrabile) correlazione tra domanda individuale e bisogni di miglioramento
della scuola.
L’ultima nota critica la voglio fare sull’obbligo di formazione: tutti noi
sappiamo (anche per esperienza diretta di insegnanti e formatori) che senza
motivazione non si impara nulla e men che meno si modificano i propri
comportamenti ed atteggiamenti sul lavoro. Allora la domanda sorge spontanea:
obbligare delle persone, per di più adulte e che hanno fatto anni di anticamera
(senza nessuno stimolo -quello sì che sarebbe stato auspicabile!- ad
incrementare le proprie competenze per entrare finalmente, grazie ad un
portfolio ricco di scienza ed esperienza nella stanza del “ruolo”) a frequentare
iniziative decise dal Collegio Docenti e magari lontane anni luce dagli
interessi culturali e professionali del singolo, è un buon investimento? Quale
tasso di probabilità ha di essere una impresa di succeso e non una spesa
inutile? Ancora: che senso ha obbligare (e spendere denaro pubblico) per docenti
che sono sulla soglia della pensione? e per quelli che partecipano regolarmente
alla vita associativa di gruppi professionali (anche se non codificati nel piano
di miglioramento della scuola dove lavorano)? per non parlare di quelli che
fanno i pubblicisti su materie attinenti la loro attività di docenti o fanno i
formatori per conto di enti ed associazioni certificati/e e qualificati/e…..
Se il piano fosse un piano, e non un
documento da leggere per vedere cosa ne pensa l’amministrazione della formazione
in servizio dei 750.000 docenti italiani, avrebbe previsto sistemi incentivanti
all’accesso alla formazione: o in termini di sviluppo di carriera personale e/o
incremento salariale, qualora avesse optato per l’obiettivo: migliorare le
competenze dei singoli inseganti; o in termini di sistemi premianti per scuole
che, grazie alla formazione del personale, acquisiscono crediti come centri
permanenti, specializzati in determinate forme di innovazione scolastica e con
essi denaro per mettersi sulla strada della ricerca e sviluppo diventando
davvero scuole-polo di riferimento per il sistema e per il mondo accademico e
della ricerca. L’idea delle “scuole innovative” della legge 107/15 sembra
adombrare questo, come il portfolio sembra esse qualcosa che va nella direzione
di un sistema premiante…. ma si tratta di passaggi quasi parentetici, quindi
irrilevanti, in un mare magnum di considerazioni spesso inutili, certamente
ridondanti…..