Il problema
Se per un attimo si riesce a prescindere dal dibattito
politico-sindacale, dal flusso di “opinioni” di illustri (e meno) “esperti”
sollecitati da avveduti (e meno) “opinionisti” e si guarda invece al confronto
più strettamente professionale e operativo che attraversa la vita concreta della
scuola (il che fare e il “cosa facciamo”) nella
sua operatività quotidiana, se ne ricostruisce una immagine composita (come
ovvio…) delle contraddizioni che l’attraversano,
ma anche dell’impegno e della volontà sia di far fronte ai problemi sia
di esplorare innovazione, che comunque e non ostante tanti ostacoli, molti
docenti riversano in tale operatività.
Un buon punto di osservazione è costituito dalle decine
di “gruppi” che riversano in rete sia elementi di confronto e discussione, sia
prodotti ed esperienze di lavoro. Si tratta di migliaia di docenti, di tutti gli
ordini di scuola che mettono in comune problemi, soluzioni, interrogativi,
materiali didattici, proposte, iniziative di formazione
Con tutte le avvertenze che in proposito è qui inutile richiamare rispetto ai
rischi e i limiti della rete e dei social, il solo dato quantitativo del
coinvolgimento dovrebbe essere oggetto di più attenta (e generosa…)
considerazione.
Ma è senza dubbio interessante l’arco degli argomenti e degli oggetti di
scambio: dalle esperienze sul campo delle applicazioni digitali, alle
problematiche della disabilità; dallo studio delle discipline, alle proposte di
“didattica per competenze”, alla discussione sulla valutazione e sui suoi
strumenti e condizioni di esercizio… Insisto: considerate i gruppi attivi in
rete e il numero di docenti coinvolti, prima di argomentare sulla decadenza
della scuola…
Naturalmente nello “scambio” si mescolano, sovrappongono, combinano registri e
qualità diverse.([1])
E, naturalmente, trovano qui conferma
“categorizzazioni illustri” del confronto collettivo, come quella proposta da
Eco degli “apocalittici e integrati”, o quella, parzialmente sovrapposta, dello
sviluppo inevitabile del futuro (evviva tutto è nuovo…), confrontata con la
speranza dell’eterno ritorno (era meglio un tempo…). La croce e l’anello,
Prometeo e il samnyasin..
Ma l’interrogativo che qui mi preme evidenziare è:
come fare a “mettere in valore”, a
confrontare e validare, anche a selezionare, ma soprattutto “capitalizzare”
(rendere ricchezza a tutti disponibile e capace di suscitarne altra come ogni
buon investimento) questa sotterranea e molecolare attività ed impegno
innovativo?
Le
esperienze innovative e la ricerca educativa
Forse per comprendere la portata dell’interrogativo
precedente, occorre capovolgere l’argomentazione. L’oggetto vero del problema è:
come costruire e riorganizzare un
“sistema” di ricerca educativa, capace di alimentarsi di quella animazione
molecolare, di riprodurla, potenziarla e capitalizzarla?
Con una precisazione semantica: intendo per “Ricerca Educativa” non quella che
possiamo comprendere nei termini della “ricerca Pedagogica” (dallo studio dei
processi di apprendimento, alla psicologia, alle scienze cognitive…) che ha la
sua sede “organica” nella Università.
Ma la ricerca “sul” sistema
educativo, cioè sulla operatività di una mega struttura organizzata che è
contemporaneamente un sottosistema sociale che coinvolge l’universo delle nuove
generazioni, e un segmento della struttura istituzionale del Paese.
Dunque una ricerca che riguarda principalmente l’innovazione dei
processi/prodotti nel sistema, la
formazione e valorizzazione delle professionalità operanti, le memorie/
documentazione e socializzazione dei processi e dei prodotti.
Ricerca Educativa come ricerca “sul”
sistema educativo che si realizza in un
“laboratorio di massa” (la scuola stessa) e con i paradigmi della “ricerca
azione”.
Ben distinta dunque dalla ricerca accademica, ma ovviamente in rapporto
“confinante” con essa. (Ed anzi i rapporti di scambio
sul confine dovrebbero essere proprio
un oggetto di particolare attenzione. Su questo l’Università e la pedagogia
italiana non sono proprio “innocenti”).
Un poco di storia (non fa male…)
Nella storia della nostra scuola, il problema fu affrontato
molti anni fa, insieme all’ultimo tentativo organico di tracciare l’architettura
del sistema di istruzione. E mi riferisco ovviamente agli anni ’70 con la Legge
477/73 e i suoi Decreti Delegati. (Dallo Stato Giuridico del personale, agli
organi di gestione, alla sperimentazione e al “sistema” della ricerca
educativa).
Si tratta, ovviamente, di storia passata, e di condizioni assolutamente diverse
da quelle odierne. Tuttavia, proprio in quella fase storica, con la scuola
italiana che si stava configurando effettivamente come “scuola di massa”,
attraversata da una dinamica sociale marcatamente innovativa, con l’esigenza di
gestire una sperimentazione diffusa e una tensione altrettanto diffusa al
cambiamento, si ebbe consapevolezza della necessità di far diventare la
ricerca educativa una componente del
sistema.
Si costruì una “rete”, sia pure con le strutture e le
architetture allora disponibili: due Istituti Nazionali (allora CEDE e
Biblioteca di Documentazione Pedagogica; oggi INVALSI e INDIRE) e una “rete” di
istituti regionali (IRRSAE, poi IRRE) che operavano (avrebbero dovuto…) in
rapporto ravvicinato con le scuole del territorio. (Oggi scomparsi)
La configurazione dei soggetti così definiti era quella di enti strumentali del
Ministero P.I. dotati di autonomia “funzionale”, retti da Consigli direttivi
costituiti con la logica della “gestione sociale” che informava la filosofia
della legge istitutiva, e dunque con presenza equilibrata, selezionata e
ponderata di Università, Ente locale, Sindacati, Associazionismo Professionale.
Naturalmente tra “l’architettura ideale” presentata nella norma e la
realizzazione sul campo si verificarono le fenomenologie che caratterizzano
spesso il nostro Paese: difformità territoriali (sia per l’operatività oggettiva
sia per i condizionamenti politici locali), difficile rapporto tra gli
“equilibri politici” e le competenze scientifiche (si pensi che il personale che
operava era strettamente di provenienza scolastica e per “comando”), novità
delle funzioni assegnate costrette entro le “permanenze” di norme di
funzionamento, finanziamenti, regole amministrative…
Sia pure con difficoltà, tuttavia, almeno nelle esperienze regionali migliori (e
non voglio citare..) quella “rete” affrontò i compiti previsti sul piano della
sperimentazione, della innovazione, della formazione, in rapporto diretto, sul
campo, con le scuole e i docenti impegnati nelle scuole delle regioni.
Si tenga conto che proprio a partire dagli anni ’80 si sviluppò un periodo di
grande impulso innovativo/sperimentativo (spesso sostituendo così la paralisi
della politica di “riforme di sistema”. Vedi la storia della Secondaria
Superiore). L’elenco è consistente e lungo quasi un ventennio: la
implementazione dei programmi del ’79 nella scuola media; i programmi della
scuola elementare e la connessa “campagna di massa” di formazione dei docenti;
la “sperimentazione guidata” nella secondaria superiore e in particolare
nell’istruzione tecnica e professionale; poi il “Piano Nazionale Informatica”;
l’applicazione dei programmi della Commissione Brocca…poi la partenza
dell’autonomia scolastica.
La “rete” aveva configurazione “a stella”. In realtà si trattava di un
broadcast con al centro i due
Istituti Nazionali, anche se per la verità l’allora CEDE era più esterno e
defilato (la valutazione non aveva ancora “campo di azione” esteso: ci si litava
a partecipare alle ricerche internazionali) e in periferia la ventina di
terminali regionali (con le provincie autonome di Trento e Bolzano e le altre
articolazioni linguistiche).
E tuttavia c’era anche in quegli anni il supporto informatico cui facevano
riferimento le attività di “documentazione” previste nella stessa “ragione
sociale” degli Istituti regionali e nella Biblioteca di Documentazione
Pedagogica.
A Firenze un 3270 dell’IBM (software proprietario ...programmazione con comandi
digitati a tastiera e video a fosfori verdi…) teneva collegati, in una rete a
“numero chiuso” di utenti, gli Istituti Regionali…
Le scuole, ovviamente, se coinvolte “passavano attraverso” i terminali della
“rete a stella”.
Poi naturalmente le cose cambiarono. E tuttavia le esigenze fondamentale della
“rete” che mantenesse in collegamento le esperienze, le istanze innovative
provenienti dalle scuole, i prodotti significativi del loro impegno, le
iniziative e le ricerche sul campo degli Istituti regionali, fu un problema
sempre presente… Ci si provò perfino con Videotel…(qualcuno ricorda?)
Il rivoluzionario costituirsi del Web (siamo ai primi dei
’90) cambiò le “carte in tavola”: dalla architettura “a stella” si poteva
passare a quella “ad anello”. (Anche se, i “diversamente giovani” come me
ricordano le velocità disarmanti dei modem allora disponibili…).
E soprattutto a quella più propriamente “a rete” che in realtà è una
combinazione di “stella e anello” con i diversi “nodi” che diventano soggetti di
legami multipli. Poi (oggi) si arriva alla “nube”.
Ricordo ancora, però, le discussioni che accompagnarono, proprio a Firenze,
presso la BdP, quel passaggio che era
“tecnologico e politico” congiuntamente. (L’amico Giovanni Biondi se ne
ricorderà certamente e meglio di me…)
Certo che il fatto che memorie delegate al mainframe attraverso il 3270 dell’IBM
diventassero disponibili in un PC, che il supporto della comunicazione
telematica diventasse il Web e che Windows da un lato e Apple dall’altro
rendessero obsoleto il digitare di comandi e i fosfori verdi dello schermo,
costituì una rivoluzione che metteva in causa professionalità e modalità di
lavoro… (penso ai tanti e
bravissimi colleghi documentaristi della BdP..).
Ma qui mi interessa rilevare che si poneva, contemporaneamente e
consapevolmente, un problema di “politica della sperimentazione e della
innovazione nella scuola” (della “ricerca
educativa” per usare la terminologia precedente) e della funzione dei
soggetti che a quella finalità erano stati creati, in quel nuovo contesto
“tecnico”.
A prescindere dal destino storico di quegli Enti (scomparsa, cambio di nome,
specializzazione funzionale…) si tratta di un (il) problema che abbiamo comunque
di fronte oggi.
Quale architettura di sistema occorre
configurare per sviluppare assennatamente le attività di ricerca educativa, di
innovazione e sperimentazione sul campo che le accompagnano e validano entro un
“sistema” come quello dell’istruzione?
Quali strumenti, condizioni operative,
condizioni di scambio e diffusione sono necessari? Come si promuove, diffonde,
verifica la ricerca educativa, le sue sperimentazioni, i suoi prodotti?
Questi interrogativi specificano e articolano le domande poste nel paragrafo
precedente.
L’innovazione,
l’algoritmo e l’epidemia.
Procedo ovviamente per “polarizzazioni concettuali”. E mi
scuso.
L’innovazione ha due sostanziali modalità di diffusione. La prima è quella più
storicamente sperimentata nella storia della nostra scuola. Si parte da un
progetto ben conformato elaborato nel “quartier generale” (dove si ha, o si
dovrebbe avere, la consapevolezza generale di ciò che è necessario innovare e
come) e si procede per “programmazione ”
top down”, costruendo
l’algoritmo della “traduzione
operativa” del progetto innovativo.
Si adatta cioè, all’innovazione, il “modello di comando” che è caratteristico
della Amministrazione. Coinvolgendo una catena successiva di presidii e di
responsabilità.
Un modello quasi obbligato quando si parta da condizioni di
rimarchevole povertà o di arretratezza. Un modello “sovietico” (o se preferite è
il modello weberiano del procedere amministrativo che adegua via via il
manuale operativo).
Lo abbiamo utilizzato in passato per alcuni progetti di innovazione che
partivano da zero (o quasi). Per esempio il Piano Nazionale di Informatica. Con
investimenti assegnati alle scuole a destinazione d’uso vincolata per
l’hardware, formazione dei formatori a cascata dal centro alla periferia,
secondo un modello standard. Diffusione conseguente e controllata
dell’innovazione.
Modello efficiente certamente, che pose rimedio alla sostanziale estraneità
della cultura scolastica nazionale all’uso della strumentazione informatica che
si andava diffondendo nel mondo. (Certo, piccoli gruppi spontanei di docenti si
misuravano con il Logo, anche nella scuola primaria… ma…). Efficienza; ma
“efficacia”? Cosa, quanto e come si produsse di cambiamento “molecolare” nella
cultura professionale dei docenti, di tutti i docenti? Lascio alla riflessione
del lettore la risposta.
Ma prolungando il paragone precedente, ricordo una
“vignetta” che circolava in Unione Sovietica ai tempi della accelerata
meccanizzazione dell’agricoltura, che pure fece aumentare enormemente la
produttività del settore. Rappresentava una giovane contadina perplessa che
tentava di mungere un trattore, e non sapeva come fare… La testa e la
consapevolezza delle persone non mutano con
l’algoritmo…Una vignetta che mi torna
sempre alla mente quando leggo certe interviste di certi
maestri di pensiero che tuonano
contro il digitale “nemico della cultura”.
L’altra modalità di diffusione dell’innovazione è
l’epidemia, la contaminazione. Si
parte da una idea e da una iniziale implementazione del progetto e si favorisce
la diffusione per contagio, per “copiatura”, per adattamento, simulazione,
concorrenza, invidia (non ci sono solo buoni sentimenti nell’innovazione).
I problemi di tale modalità sono sostanzialmente due: il primo è costituito
dalle misure e strumenti di “incentivazione” (poiché il comando dell’algoritmo
viene sostituito dalla “promozione”); il secondo proviene dal fatto che il
risultato finale non è scontato e controllato attraverso il processo stesso (non
c’è l’algoritmo). Come nelle epidemie si deve correre il rischio della
“mutazione” e della evoluzione adattativa dello stesso fattore innovativo… Il
risultato può divergere dal progetto iniziale…
Il vantaggio è invece certamente costituito dal fatto che “i contaminati” sono
coinvolti così profondamente da mutare essi stessi.
Se si opera in un “sistema” (e non in una impresa) con le
caratteristiche di quello dell’istruzione che è congiuntamente una macro
organizzazione ed una “istituzione” (dunque non opera sul mercato ma ha una
missione ed un indirizzo dettati da diritti e da valori di eguaglianza di
cittadinanza) è del tutto evidente che occorre un progetto comune, degli
obiettivi determinati e condivisi, coinvolgenti proprio perché afferenti a
“diritti”. Ciò sembrerebbe escludere la via della “epidemia” a favore di quella
del “algoritmo”.
Ma per chi abbia responsabilità di “governare” il processo di innovazione non
può sfuggire l’efficacia, soprattutto a lungo termine, che ha il secondo
modello…. Forse è possibile/necessaria una attenta e sapiente combinazione…
Ma bisogna proprio “governare” il processo? Oltre alle
considerazioni precedenti occorre considerare che a monte di qualunque “impresa”
innovativa (vale anche per l’impresa in senso stretto) sta una attività
essenziale di ricerca. E questa, soprattutto nella fase applicativa, “deve”
essere in grado di implementare “sensate inferenze”, verificare ipotesi,
controllare risultati, selezionare e validare modelli operativi.
Dunque non basta la contaminazione, la pur essenziale diffusione epidemica…
Occorre probabilmente la sapienza e l’abilità di combinare i due paradigmi:
guidare e contagiare..
Spingere e tirare
Rappresentano altre due metafore applicabili alle modalità
di promozione e diffusione della ricerca educativa e dell’innovazione,
interpretabili da chi abbia responsabilità di sistema nel governare i processi.
In parte si sovrappongono ai paradigmi precedenti.
Ci si immagini con un carro lungo una salita (la ricerca e
l’innovazione sono sempre faticose. Il cambiamento mescola sempre fascino e
ansia)
Tirare significa, come
per una locomotiva ed un treno, produrre l’energia necessaria e erogarla
“guardando alla meta”. La strada è davanti a sé e la fatica può essere motivo di
rallentamento o finanche di fermata. Ma la meta è davanti allo sguardo.
Spingere significa
porre davanti a sé il peso del carico e percorrere il sentiero cercando di
seguirne la direzione, ma non avendo la meta costantemente davanti agli occhi…
C’è sempre il pericolo di deviare, di zigzagare sotto sforzo.
Anche in tal caso si presentano due modelli di guida. Il
primo ha come condizione essenziale che la meta sia definita in modo esaustivo e
completo e che sia sempre possibile guardarla mentre ci si sforza per
avvicinarsi.
Non sempre, nei processi sociali, ciò è possibile… non sempre le politiche
pubbliche hanno in dotazione inferenze
con elevato grado di certezza nel rapporto tra azioni progettate e risultati
attesi. A volte i risultati presentano fenomenologie di “eterogenesi dei fini”
proprio perché i sistemi sociali sono complessi multi variabili e non sono
applicabili alla ricerca su di essi né il paradigma della variabile indipendente
né le metodologie controfattuali.
Credo che le metafore proposte, se esplorate criticamente
più di quanto si possa fare in questa sede, mostrino alternative che occorre
ricomporre nel governo efficace di processi complessi.
La rete e la
spirale
Di fronte alla vivacità delle esperienze innovative che
emergono (a saperle guardare) dagli scambi e dalla comunicazione “spontanea”
della rete, dalla considerazione delle quali sono partito per queste note,
spesso la tentazione è quella di “lasciar fare” alla rete stessa, semmai con
qualche misura di “coordinamento” rispetto a gruppi auto organizzati, a scambi
veloci e per vie brevi che la rete stessa consente. (Molto seguito ha l’idea
delle “reti di reti”, assolutamente necessaria, ma non sufficiente)
Specie se le ipotesi di un possibile “governo” evocano forme di controllo che
portano con sé esperienze di mortificazione (l’algoritmo e la catena di
comando).
D’altro canto, rispetto agli ideali “libertari” originari di Internet per i
quali era sufficiente il codice deontologico reciprocamente riconosciuto (la
netiquette) ad autoregolare la rete
senza bisogno di autorità imposte, la realtà odierna racconta tutt’altro. Ma
anche prescindendo da problematiche “scottanti” come i falsi, gli insulti o le
diffamazioni, le persecuzioni, che qui non sono in discussione, anche
limitandoci allo scambio “serio” di elementi ed esperienze di ricerca educativa,
avremmo di fronte proprio l’esempio di Wikipedia (ma varrebbe per tantissimi
siti di informazione e cultura).
Quando si superano certe dimensioni, sia per numero di interlocutori che per
contenuti scambiati, l’autoregolazione non basta. Si torna, sia pure con
modalità diverse, alle funzioni fondamentali di una
“redazione” (validazione dei
contenuti, selezione, apprezzamento della significatività, della completezza,
della pertinenza dei contributi).
A maggior ragione dunque quando si ha a che fare con contenuti ed oggetti
destinati a “formazione” ed a un uso collettivo entro un “sistema formativo”.
Inoltre la dimensione di ricerca, e in particolare di ricerca-azione che
presiede alla sperimentazione ed alla validazione dell’innovazione, ha una
insostituibile fase di “osservazione sul campo”. Ed è attraverso tale vincolo
che si realizza la possibile valorizzazione e capitalizzazione dell’innovazione,
anche se la tentazione di ricondurre il tutto al “successo” eventuale delle
proposte è forte, in clima di “mipiaccismo”.
La formazione, per quanto la si possa
sviluppare supportata da tecnologie e comunicazione a distanza, ha un nucleo
insostituibile di “faccia a faccia” (non a caso si generalizza la dimensione
blended) dunque non riducibile a
network, in particolare nella scuola e nel contesto della relazione educativa
che è sempre “asimmetrica”. Per valutare l’innovazione (ed altro…) occorre il
monitoraggio, l’osservazione diretta e la rilevazione dei risultati.
Dunque occorre pensare a come realizzare una struttura capace di promuovere
algoritmi e epidemie, di
spingere e tirare, di mantenere ampio il vivace e spontaneo sviluppo
dell’offerta e di selezionarla e validarla organizzando la domanda… Capace di
promuovere ricerca “disinteressata” e di alimentare attraverso di essa la
ricerca-azione fondata su sperimentazione sul campo, di mantenere e utilizzare
la potenza della rete e contemporaneamente la “saggezza-sapienza” del filtro di
una redazione.
D’altra parte proprio gli sviluppi più recenti con la
sensibilizzazione e l’apertura della Pubblica Amministrazione al digitale ed
alla comunicazione telematica, con il potenziamento delle strutture e dei
servizi, hanno dimostrato che il mantenimento della architettura a
broadcast, a stella, riesce a mandare
fuori bersaglio lo stesso potenziamento tecnologico. (Nella scuola “algoritmo”
sembra diventato un insulto… e il potenziamento telematico a volte una
scorciatoia per declinare responsabilità: si può p. es. davvero ragionevolmente
pensare di valutare il personale attraverso una “banca dati”?)
La rete non abolisce il “quartier generale”. Si pensi alla
sua origine militare, durante la guerra fredda.. La rete serviva a articolare e
moltiplicare le funzioni del quartier generale in modo che il nemico non avesse
un solo bersaglio da liquidare. Così nasce Arpanet, all’origine di Internet.
Qui sta la dimensione politica che
affianca quella tecnica: occorre cambiare (non abolire, semmai riarticolare) il
“quartier generale”, proprio perché si adotta l’organizzazione
a rete.
Ho ripreso qualche nota storica sul “sistema della ricerca educativa” costruito
negli anni ’70 (senza Internet) non perché voglia riproporne architettura a
broadcast e presidii di intermediazione centro-periferia, ma perché era la
risposta a quei problemi a partire dalla situazione data.
Dovremmo riuscire a fare altrettanto, con problemi molto simili, mettendo a
frutto condizioni tecnologiche assai diverse e di grande potenziale.
Ma per fare questo non basta dotare il MIUR, o INDIRE, o INVALSI, di efficienti
strumentazioni telematiche (una condizione necessaria, ma non sufficiente). Se
va bene possono diventare delle strutture di
repository di esperienze, o per
qualche iniziativa di formazione a distanza, ma non di promozione di ricerca
educativa.
Attivando le migliori tecnologie (e basterebbe guardare alla
banda di trasmissione per comprendere quanto vi è da fare) occorre ripensare
proprio alla architettura del sistema di
Ricerca Educativa. Capace di gestire i dati e le distanze ma di integrare
l’osservazione ravvicinata e il confronto sul campo.
La figura metaforica che mi suscita l’interrogativo di cui
sopra è quelle della spirale. Anelli
di nodi rapportati tra loro che scambiano materiali, esperienze, con la
spontaneità la vivacità e la “polverizzazione” dell’epidemia e del contagio, ma
che rapportano ad un sistema di altri nodi di livello più aggregato sui quali si
comincia ad organizzare il confronto, la validazione, la selezione, e poi altri
nodi ad altro livello (i passi della spirale attorno ai quali sia avvolge la
rete..) che possa organizzare e presidiare vere ipotesi di Ricerca Azione e
coniugare la comunicazione a distanza con le presenze faccia a faccia nelle fasi
di verifica e validazione delle esperienze.
Insomma una rete che si avvolge in
una spirale con la individuazione di
una pluralità di nodi e di livelli definiti sui diversi strati, a cui assegnare
funzioni di raccolta, coordinamento, gestione di esperienze sul campo.
Da discutere, certamente, la caratterizzazione di tali nodi sulla spirale.
La vecchia architettura della ricerca educativa (quella
richiamata nella ricostruzione storica) definiva nodi di intermediazione
collocati territorialmente. Ed è un modello a cui il sistema e la sua cultura
sono molto sensibili (come ovvio per un sistema fortemente territorializzato
come la scuola) e che tende dunque a riprodursi: si pensi al modello delle reti
di ambito e di scopo, definito non ostante sue implicite inappropriatezze.
Può essere esplorata una caratterizzazione “tematica” per oggetti e campi di
ricerca. Ed è possibile anche incrociare tali caratterizzazioni.
Non voglio ne posso qui avanzare ipotesi di “sistemazione ingegneristica” della
architettura “a spirale”. Sottolineo solamente in conclusione tre condizioni da
osservare come criteri fondamentali.
·
Si tratta di una decisione
“politica”: la configurazione di una ristrutturazione di parte del “quartier
generale”. Dunque una scelta che esplori assennatamente il grado di libertà che
qualunque tecnologia, per invasiva e universale che si proponga, conserva (e a
volte cela come sfida)
·
Si tratta di configurare
una architettura di sistema di ricerca, con i caratteri specifici della ricerca
educativa e della ricerca-azione e dunque con livelli che incrociano la
molecolarità delle esperienze e la validazione necessaria alla loro
capitalizzazione (l’innovazione come investimento)
·
Si tratta di coniugare la
potenza della comunicazione a distanza (la rete) con i processi faccia a faccia
che sono ineliminabili nella formazione, nella sperimentazione sul campo, nella
valutazione dei risultati.
([1])
Più spesso mi capita di riscontrare una
singolare combinazione dei citati impegni di
grande interesse innovativo reale, con giudizi
storico-politici rudimentali e/o
“memorie” di corta gittata. Ma qui,
probabilmente la responsabilità della
“organizzazione della cultura” della scuola che
toccherebbe innanzi tutto alle strutture
collettive, dal Sindacato all’Associazionismo
Professionale.