In un recente contributo, redatto commentando i dati del Rapporto Annuale ISTAT 2017, e intrecciando quelli su popolazione e reddito con quelli relativi a istruzione e titoli di studio (vedi “La scuola di classe” sul sito di Claudio Cereda “Pensieri in Libertà”) proponevo alcune affermazioni e argomentazioni molto schematiche che forse meriterebbero una riflessione ulteriore. Le sintetizzo di seguito.
Rispetto al complesso
della popolazione il processo di scolarizzazione
di massa ed il suo “successo” sono in sostanza
verificabili con la diffusione del possesso del
titolo di “Licenza Media”. I dati sono
ovviamente stratificati per classi di età e
dunque permanentemente aggiornati dalle nuove
generazioni. Ma la Licenza Media si colloca come
“piattaforma sociale di istruzione”. Un fattore,
per quanto limitato, di eguaglianza sociale
L’acquisizione di titoli di studio successivi è
invece fortemente intersecata/condizionata dalle
differenze di reddito famigliare (si veda il
Rapporto ISTAT) e dalla “riproduzione” della
stratificazione sociale.
Al confronto tra dati
della scolarizzazione e quelli della
stratificazione sociale, emerge una “efficacia
sociale” della politica dell’istruzione nella
storia degli ultimi cinquanta anni, misurata in
termini di effetti diretti sulle scelte, sulle
opportunità, sui comportamenti, limitata a
pochissimi provvedimenti ”strutturali”.
In sostanza la legge istitutiva della Media
Unica (1962) e l’adeguamento dei suoi programmi
(oltre 15 anni dopo!!); gli interventi diretti a
promuovere l’inclusività ( dalla Legge 517/77 in
poi); la liberalizzazione degli accessi
universitari.
Ad essi si sovrappone la crescita “fisiologica”
della domanda di istruzione che è connessa con
lo sviluppo economico e sociale stesso e a cui
viene data risposta (o si tenta..) incanalandola
o “facendo spazio” entro le strutture del
sistema esistenti. In tale processo la politica
pubblica dell’istruzione non si esprime
attraverso una “politica
attiva della domanda” ma attraverso un
adeguamento passivo dell’offerta.
Sotto tale profilo
(risultati in termini di “efficacia sociale”) la
nutrita serie di interventi di politica pubblica
dell’istruzione, che da un certo punto in poi si
è preso il vezzo di classificare come “epocali”,
sono da considerare come “interventi di
manutenzione” di un sistema “forzato” dalla
domanda sociale. Il giudizio può apparire
ingeneroso, ma si consideri che
*** La “manutenzione” è comunque attività
preziosa e indispensabile in un macrosistema che
coinvolge progressivamente e in termini
prolungati l’universo delle nuove generazioni,
che è anche segmento istituzionale fondamentale.
*** Il giudizio
drastico è espresso sotto il profilo della
efficacia sociale e cioè della capacità della
politica dell’istruzione di esprimersi in
termini di promozione e conformazione della
domanda sociale di istruzione; quanto a dire (in
coerenza di impegni costituzionali) di
promozione di emancipazione e uguaglianza socio
culturale. Ciò non significa che in gran
parte di quegli interventi (per esempio penso
alle “Indicazioni” che riguardano i contenuti ed
i metodi dell’insegnamento, o ad alcune
sperimentazioni..) non vi siano espressi
elementi di qualità, sia culturale che
scientifica
Le contraddizioni della
politica nazionale dell’istruzione, soprattutto
dalla fine degli anni ’70, sono particolarmente
gravi perché investono specificamente la
struttura dell’istruzione secondaria superiore e
dell’Università. Cioè quei segmenti di sistema
che lo sviluppo della scolarizzazione di massa a
partire dalla “comune” acquisizione della “media
dell’obbligo” (uso volutamente termini “desueti”
e non istituzionali)([1]),
ha investito e investe in progressione.
In assenza di interventi “strutturali” di
sistema, almeno paragonabili per ricadute
sociali a quelli operati sulla Scuola Media, o
comunque capaci di esprimere una efficace e
riconoscibile “politica della domanda” di
istruzione superiore, quest’ultima rimane
“prigioniera della fisiologia” dei processi.
Potrebbero esserne testimonianza gli andamenti
ondeggianti delle iscrizioni tra i diversi
indirizzi: dallo svuotamento dei Licei a favore
della crescita dell’istruzione tecnica, al
capovolgimento degli andamenti con diversa
disseminazione tra indirizzi; senza che di tali
dinamiche sia possibile ricostruire ragioni che
non interpellino solamente le percezioni o le
condizioni soggettive della “clientela”.
Piccolo supplemento di analisi
Richiamo con qualche specificazione
ulteriore, alcuni dati già commentati nell’articolo
precedentemente citato, nel prospetto che riporta la
distribuzione dei titoli di studio per fasce di età. Si intenda
che, come già ricordato in citazione, il titolo di studio
terziario coincide di fatto, nella situazione specifica del
nostro Paese, con la Laurea.
Titoli di studio per fasce di età. -anno
2016 (%)
Classi di età
licenza
dip. Sec
Titolo
media
Sup
terziario
15 - 24 anni
51.8
44,1
4.1
25 - 34 anni
26.6
47.9
25.5
35 – 44 anni
34.8
44,8
20.4
45 – 64 anni
48.4
38.4
13.2
Oltre 65 anni
77.0
16.4
6.6
Totale
50.9
35.8
13.3
(Fonte ISTAT)
·
Se si
guarda al complesso della popolazione a partire dai 15 anni
(termine “formale” della scolarizzazione di base) in poi, il
possesso della licenza media come massimo titolo di studio,
segmenta in due parti quasi equivalenti la popolazione stessa
(il 50.9% ha come massimo la licenza media, il 49.1% titoli
superiori: diploma o laurea..).
Naturalmente il processo di scolarizzazione investendo alla base
l’universo delle nuove generazioni esprime dati in permanente
evoluzione (si veda nella tabella la composizione per fasce di
età che sono le medesime utilizzate da ISTAT per le forze di
lavoro). Non voglio presentare una analisi dettagliata di tale
sviluppo. Ma solo accennare a una “immagine di insieme” che
guardi alla diffusione dell’istruzione come “connotato” del
cittadino italiano.
·
Arrischio,
con qualche approssimazione mirata alle diverse fasce di età,
una possibile “rappresentazione sociale”. Si potrebbe
sintetizzare in questo modo:
“nel decennio finale del
secolo scorso, si colloca un “flesso” nella curva del processo
di scolarizzazione proiettato sulle generazioni in successione:
prima di tale flesso i figli avevano scolarità mediamente più
elevata dei genitori (fase affluente della scolarizzazione di
massa) dopo tale flesso la scolarizzazione dei genitori tende ad
eguagliare quella dei figli (stabilizzazione della
scolarizzazione di massa)”. La “base scolastica” di tale
“flesso sociale” è costituita dalla acquisizione via via
generalizzata del livello previsto della istruzione
dell’obbligo, la scuola media unificata a partire dal 1962
(titolo esclusivo detenuto da oltre il 77% degli
ultrasessantacinquenni).
·
In questo
senso si può affermare, come detto nel paragrafo precedente, che
il provvedimento istitutivo della Scuola Media Unica, che
interpretava in termini di eguaglianza di fruizione il diritto
di cittadinanza alla istruzione dettato in Costituzione, abbia
costituito un elemento di politica dell’istruzione che ha
effettivamente inciso, e profondamente, nel corpo sociale e
nelle sue dinamiche, accompagnando e favorendo i processi di
emancipazione sociale che lo sviluppo economico trascinava con
sé e sollecitava.
·
Il
problema che si pone oggi in termini di politica dell’istruzione
è dunque il seguente: posta la progressione generazionale
crescente dei livelli di istruzione dove si potrà collocare,
come effetto di scelte di politica pubblica, un nuovo e più
avanzato “punto di flesso” che segnali direzione, senso,
“efficacia sociale” del processo, e contenuto di “politica della
domanda” di istruzione superiore? (una nuova “base scolastica”
per quel “nuovo flesso sociale”)?
Vi sono altri dati che qui non riporto per
esteso, che suffragano le affermazioni precedenti. Se si
considera la fascia dei 25-34enni e si correla il titolo di
studio posseduto con quello dei rispettivi genitori, si può
osservare quanto segue (rimando alla pubblicazione
precedentemente citata e alla lettura del rapporto ISTAT per un
approfondimento analitico)
·
Se si
confronta il titolo di studio dei genitori con quello acquisito
dai figli (sempre per quella fascia di età) oltre il 50% dei
genitori ha come titolo massimo quello di licenza media. Circa
il 40% è diplomato; il 10% è laureato. Per i figli: un poco meno
del 50% è diplomato, poco più del 25% ha solamente la licenza
media; il rimanente, meno del 25% è laureato.
·
Il
confronto differenziato, mostra invece i “riflessi riproduttivi”
della stratificazione: circa il 40% dei 25-34 enni che hanno
solo titolo di licenza media hanno genitori con tale titolo;
meno del 50% di figli di genitori in tale condizione acquisisce
un diploma di secondaria superiore, e meno del 10% si laurea. Al
contrario quasi il 60% dei 25-34 enni laureati ha genitori
laureati. Una evidente “ereditarietà del titolo di studio” ai
livelli più elevati.
Per descrivere sommariamente tutto ciò si
usa spesso la metafora
“dell’ascensore sociale”, e ci si chiede se la scuola possa
funzionare come tale. Non condivido la metafora posto che
l’ascensore, come si sa, è un contenitore sempre molto piccolo;
troppo per descrivere processi di effettiva emancipazione
sociale e non di “successo personale”. Ma volendo indulgere a
tale metafora diffusa la domanda che riassume la problematica
fin qui descritta è: da
quale piano far partire l’ascensore?
L’istruzione di massa: i dati e i diritti
Oltre mezzo secolo fa la politica
dell’istruzione nel nostro Paese diede una prima risposta al
quesito precedente, formalizzando entro l’architettura del
sistema pubblico di istruzione una struttura di istruzione
secondaria unificata per tutti i cittadini, resa obbligatoria e
gratuita.
In tal modo di superava una selezione
precoce tra indirizzi (la Scuola Media e l’Avviamento al lavoro,
commerciale industriale) e si dava corpo al dettato
costituzionale dell’art. 34, primo comma
“L’istruzione inferiore,
impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.”
Il secondo comma recita, come noto
“I capaci e meritevoli,
anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi
più alti degli studi”. Il terzo, particolarmente impegnativo
conclude “La Repubblica
rende effettivo questo diritto, con borse di studio assegni alle
famiglie, ed altre provvidenze, che devono essere attribuite
per concorso”.
Naturalmente quella “nuova struttura”
inserita nel “vecchio sistema” in prima battuta “rivedeva”
l’esistente e riadattava. (Questa è una costante della politica
italiana dell’istruzione).
Senza affrontare grandi elaborazioni: se ci
si mette nei panni dei Padri Costituenti, cosa poteva
significare quel primo comma (attenzione al linguaggio
istruzione inferiore…
per almeno 8 anni…
Non si parla di cinque anni di Elementare e di tre di Media)?
Non credo di forzare l’interpretazione sostenendo che il
riferimento fosse ad una piattaforma di istruzione uguale per
tutti, gratuita perché obbligatoria, e costruita da un set di
saperi, conoscenze, comportamenti sociali, che fosse in grado di
contrassegnare la “base della cittadinanza”. Questa “idea
costituzionale” venne travasata in un contenitore esistente con
l’intenzione di farne una “nuova struttura”.
Naturalmente si comprendono i limiti delle condizioni operative:
la scuola elementare si era via via configurata già come “scuola
popolare”, diffusa territorialmente e con una sua cultura
pedagogica via via innovata. D’altro canto la “secondaria
inferiore” veniva riunificata superando le canalizzazioni
interne, ma occorreva mutare coerentemente programmi e
metodologie, e soprattutto immaginari, stili, modelli
professionali dei docenti.
Ricordo che nella ricerca di quel set fondamentale di
“istruzione di cittadinanza” si abolì il latino, si introdussero
la tecnologia, l’arte e la musica… Ma per arrivare alla
definizione coerente e completa di programmi di insegnamento e
di studio passarono oltre 15 anni e quei programmi del ’79 per
almeno altri dieci anni continuarono ad essere indicati nel
linguaggio comune come “i
nuovi programmi” della Media. Quanto all’adeguamento dei
modelli professionali e delle culture dei docenti, mi risparmio
anche in tale caso una analisi approfondita usando un approccio
“sintomatico” e leggero
Per esempio il fatto che una importante ricerca sociologica
sugli insegnanti di Marco Barbagli e Marcello Dei “Le vestali
della classe media” (1969) il cui titolo è assai significativo,
venisse spesso indicata nelle stesse discussioni
progressiste (lungo
anni ’70) con titolo deformato “le vestali della
scuola media”. Tale
frequente deformazione racconta più di ogni altra considerazione
quanto ancora si fosse lontani nel disegnare una immagine e
funzione “popolare” del “professore” della Media (al contrario
di quanto accadeva per l’elementare..). Eppure a quel carattere
popolare del loro
impegno professionale venivano chiamati i docenti dalla
innovazione della Scuola Media Unificata.
Aggiungo altro esempio, sempre in tema di significati nascosti
del linguaggio utilizzato: per molti anni, e in qualche caso
fino ad oggi, per indicare il primo biennio del Liceo Classico
si è usata (si usa?) la denominazione di IV e V Ginnasio. Quasi
inconsapevolmente. Mai chiedendosi che fine abbiano fatto la I
la II e la III ginnasio.(La Secondaria di primo grado)
Sedimenti storici profondi, semantiche non esplicitate (anzi nel
dichiarato sarebbero negate) ma che non cessano di produrre
effetti nei modelli, negli immaginari, negli stili
professionali. (Vedi le difficoltà permanenti nella
organizzazione degli Istituti Comprensivi che scontano la
separatezza “reale” dei modelli professionali tra “maestri” e
“professori”).
Certo si tratta di semantiche celate, che sembrano appianarsi
nelle matrici delle schede di valutazione, o nelle celebrazioni
rituali e giaculatorie delle “Nuove Indicazioni” o dei
“Curricoli Verticali”. Taccio per pudore e carità di patria, di
come siano state accolte tutte le proposte di intervento sulla
struttura organizzativa stessa dell’istruzione (le riforme dei
cicli…) e soprattutto dei motivi che sostennero il rifiuto, ed
anzi la puntigliosa richiamata riconferma dell’etichetta
“Istruzione Secondaria di Primo Grado”.
Non vi è dunque da stupirsi eccessivamente se il risultato in
termini di “efficacia sociale” del diritto alla
istruzione inferiore per
almeno otto anni si sia consolidato di fatto impiegando
quasi mezzo secolo di Storia. Non un parametro di grande
efficacia della politica dell’istruzione nel nostro Paese.
L’istruzione come diritto assoluto e diritto condizionato
Con quel primo comma
dell’art. 34 Cost. si definiva un diritto all’istruzione di
carattere “assoluto”, incondizionato. Ma per realizzarlo lo si è
inevitabilmente calato entro un processo “condizionato”.
Del condizionamento costituito dalle “permanenze e
stratificazioni” di significato e di organizzazione concreta
entro la “macchina istituzionale e amministrativa” si è detto
sopra.
Su tale piano per la verità molto si è fatto e tentato: vedi
appunto le elaborazioni pedagogiche, le suggestioni didattiche,
le proposte di contenuti e modalità. Ma l’impatto con la
permanenza della “macchina” e del “manuale operativo” mi ha
fatto ascrivere quel “molto fatto”, forse ingenerosamente, alle
“attività di manutenzione”.([2])
Ma il condizionamento più rilevante si è operato per effetto del
complessivo sviluppo economico e sociale del Paese. Quello
relativo alla istruzione di base è un “diritto” assoluto” ma ha
anche un valore economico. Sempre per procedere in via
estemporanea: l’istruzione di base, anche solo in termini di
acquisizione di modelli di socializzazione congruenti è
indispensabile (e lo è stata) per trasportare un contadino di
Eboli dalla sua campagna e dalla sua cultura magica alla linea
di montaggio della FIAT. La scuola media per tutti fu dunque
anche un valore economico funzionale a quella fase storica di
sviluppo economico e di cambiamento radicale della struttura
sociale del paese (basti pensare che le forze di lavoro
dell’agricoltura passarono in 50 anni da quasi il 50% del totale
a meno del 10%. Oggi stiamo a meno del 4%)
Nello sviluppo successivo, la consapevolezza del valore sociale
dell’istruzione, coniugata con la maggiore disponibilità di
reddito e con l’urbanizzazione, hanno promosso l’accesso
all’istruzione oltre l’obbligo, ben più che iniziative
legislative corrispondenti di riforma/revisione (!!??)
dell’istruzione superiore. I tassi di passaggio dalla Media alla
Superiore sono cresciuti prepotentemente lungo tutti gli anni
’70 e ’80. Tutti o quasi i giovani si iscrivono alla secondaria
superiore… cosa accada dopo è, appunto, una parte del problema
che qui si discute.
Il processo di “innovazione sociale” si è affermato per effetto
di “spingere”,
piuttosto che per effetto di
“tirare” ([3])
Più per dinamiche proprie della domanda che per una
“politica attiva della
domanda”.
E tuttavia, per
affrontare la questione che abbiamo indicato come di fondo
(quale “piattaforma di istruzione” possiamo costruire per un
“flesso sociale” più avanzato di quello realizzato con la media
dell’obbligo), occorre richiamare ancora un elemento che si
rivela essenziale proprio per collocare tale “piattaforma” entro
l’istruzione superiore.
Uno degli elementi che, insieme a quelli già ricordati, stanno
alla radice dei limiti con i quali in oltre un cinquantennio si
riusciti faticosamente ad adeguare l’istruzione di base è
costituito dalla implicita
“teleologia”
istituzionale che presiede ai cicli di istruzione secondaria.
Anche questa è una eredità (gentiliana) mai dismessa. In tale
“concezione” di sistema, le ragioni e i significati dei diversi
livelli di istruzione sono determinati e guidati dai livelli
successivi. Ognuno dei livelli intermedi ha senso solo come
“tappa” di un percorso che si conclude (nel modello gentiliano
con il liceo classico). Non ha un grado apprezzabile di “autoconsistenza”
culturale scientifica, formativa.
L’unico livello che storicamente si sottrae a tale effetto
teleologico è quello
dell’istruzione primaria la cui “autoconsistenza” è stata spesso
semplificata con il “saper leggere, scrivere e fare di conto”.
Una semplificazione inappropriata (si veda una mia lettura
storico-sintomatica della scuola elementare dei primi del ‘900
in Franco De Anna ”I
giacimenti” in Pavone Risorse)
ma che ha avuto se non
altro l’effetto secondario di tenerla a margine di tale
approccio e concezione
elitaria al sistema di istruzione.
(Si pensi al retaggio storico per il quale tale istruzione era
affidata ai Comuni, non allo Stato…)
Ricordo che in quell’impianto
teleologico
gentiliano sul tronco della media intesa come “primo triennio
ginnasiale” si impiantava lo sviluppo successivo coerente nel
Liceo. Solo qualche arborescenza laterale con istruzione tecnica
ma solo quella commerciale (i ragionieri… quella tecnica
industriale fuori dal Ministero dell’Istruzione) e con il
Magistrale (quasi una
istruzione professionale dedicata..). Inutile ricordare
quale gerarchia di valori espliciti e impliciti sia abbinata a
quel modello teleologico.
D’altra parte nello stesso dettato
costituzionale il diritto all’istruzione superiore ha carattere
“condizionato”. E’ esteso a tutti, ma non assume i vincoli della
obbligatorietà e dunque mantiene quelli economici. La fruizione
di tale diritto è condizionata sia economicamente, sia nei
risultati raggiunti (si veda la forse obsoleta dichiarazione sui
“capaci e meritevoli”…
)
Ma tale “condizionamento” si misura anche con gli effetti
operativi dell’esercizio di tale diritto su piano dello sviluppo
e economico e sociale. L’istruzione superiore non ha solo un
“valore d’uso”, ma
comunicando e dialogando direttamente con il mondo del lavoro e
con la collocazione “adulta” del soggetto nel contesto socio
economico, ha un “valore
di scambio”. La declinazione (il rapporto dialettico) dei
due valori rappresenta una questione fondamentale, e di
difficile soluzione, per ridefinire una “piattaforma sociale”
del diritto all’istruzione più avanzata di quella costituita
dalla licenza media.
Istruzione secondaria, post secondaria
non terziaria, terziaria non universitaria
Tutto quanto sopra rende ovvia
l’affermazione che la semplice ridefinizione dei livelli
dell’obbligo in termini di età, (obbligo a sedici anni) sia del
tutto inappropriata. Non lascia traccia nelle dinamiche sociali,
non alimenta una politica della domanda di istruzione, non
definisce una “piattaforma di istruzione” con livelli
apprezzabili di autoconsistenza tali da farne un “obiettivo di
emancipazione sociale”.
Oggi quella
definizione dell’obbligo di istruzione più esteso del classico “impartita
per almeno otto anni”, è disseminata e distribuita entro la
pluralità degli indirizzi della secondaria superiore e mantiene
una differenziazione fondamentale per contenuti, indirizzi,
valori effettivi e riconosciuti…che continua a richiamare quella
teleologia
tradizionale Tutt’altro che una “piattaforma di cittadinanza”:
il mantenimento implicito dei quelle scale di valore che il
modello gentiliano rielaborava nei suoi ordinamenti, sono
stratificate come eredità “latente” al di sotto delle formali
affermazioni di equivalenza e parità degli indirizzi della
secondaria superiore. Si consideri che anche Istituti superiori
che declinano diversi indirizzi ne mantengono le differenze fin
dal biennio, formalmente “dell’obbligo”.
Tralascio di esplicitare, e lo lascio fare ai lettori, quanto e
come ciò si rifletta anche sui modelli professionali dei
docenti, oltre che sui comportamenti e sul costume sociale.
Quanti docenti della secondaria realizzano la differenza di
insegnare nel biennio come
obbligo? E quanti,
tra quelli che ne divengono consapevoli, “mirano” ad emigrare
nel triennio?
Da questo punto di vista il biennio dell’obbligo entro la
secondaria superiore è poco più che una cadenza temporale ([4]).
Solo che tutto, dall’analisi dei dati alle proposizioni
culturale, alle percezioni sociali sembra dimostrare che quella
definizione sia attraversata dalla dislocazione delle differenze
sociali. In altre parole,
oggi da li passa la faglia della “scuola di classe”.
Per usare le medesime categorie: oggi il problema fondamentale
di una politica dell’istruzione capace di promuovere il
significato di emancipazione sociale che l’istruzione deve avere
(il valore d’uso
della diffusione del sapere) è quello di destrutturare l’antica
e obsoleta “teleologia”
e riformularne un’altra. Una diversa “idea guida” dello sviluppo
del sistema dell’istruzione pubblica.
E su tale base definire il modello di “autoconsistenza”
di tale istruzione obbligatoria (contenuti, metodologie,
sviluppi).
Certo si disegna così una ampia area di
confronto politico, culturale, tecnico-scientifico. Animata da
tutt’altro che univoci e condivisi significati. Il problema (la
sfida) è tracciare tale quadro di riferimento con valori a lungo
termine e non legati alla contingenza politica, in modo che
possano “unificare” la politica pubblica di lungo periodo, al di
là delle transitorie composizioni di governo
In tale senso appaiono (purtroppo?)
ancora assennate vecchie proposte, non per caso formulate in
tempi più prossimi alla istituzione della Media Unica (penso per
esempio alle proposte della Conferenza di Frascati del 1970/71)
con un biennio unitario con articolazioni ”interne” (estesa e
prevalente area comune, contenuta area di indirizzo a carattere
orientativo; mix di insegnamenti fondamentali, insegnamenti
complementari, insegnamenti facoltativi). Gli indirizzi
diversificati solo nel triennio. (PS. In quel modello si
terminava a 18 anni)
Ma un disegno di politica dell’istruzione
che si ponesse tale obiettivo (per altro richiamato in una
proposta di legge di iniziativa popolare…) avrebbe comunque la
necessità di misurarsi innanzi tutto con quella che ho indicato
come una diversa
“teleologia”.
Insomma provarsi ad
affrontare la sfida di ridefinire “il ciclo dell’obbligo” come
“struttura portante” del sistema di istruzione.
Di seguito provo solamente ad elencare le
problematiche specifiche che tale obiettivo mette in movimento.
Molte di esse sono e sono state in questi anni campo di
innovazioni anche significative: occorrerebbe una politica
dell’istruzione capace innanzi tutto di riconnetterle ad un
elemento di semantica comune, o se si preferisce ad una comune
“teleologia”
Gli ambienti di formazione.
Uso il termine ambiente
come sintesi di: spazi, tempi, relazioni. Dunque organizzazione
dei processi e delle persone che li animano. La mente mi corre
ad alcune esperienze di Istituti Omnicomprensivi, dall’infanzia
alla secondaria superiore.
Certo in tale capitolo occorrerebbe inserire tutte le
problematiche relative alla dimensione “istituita”
dell’istruzione: la dimensione delle Istituzioni scolastiche, la
programmazione della loro distribuzione territoriale, la
“classificazione” del lavoro che vi opera, le griglie e matrici
di responsabilità e di mansioni. Con una sottolineatura
particolare alle innovazioni sull’ambiente
di formazione che le tecnologie digitali hanno introdotto o
possono introdurre.
L’organizzazione interna al ciclo
dell’obbligo. I dodici anni di
istruzione e formazione che compongono l’obbligo non possono
certo costituire un “continuum” indifferenziato. Gran parte del
dibattito sviluppato in proposito sulle sue articolazioni
interne (dal 6+6 delle proposte OCSE, al 7+5 della stagione
berligueriana, al 5+3+2 attuali) è stato in gran parte
condizionato dalle stratificazioni professionali dei docenti,
per ciò che sono e per come sono immaginate ed ereditate (si
pensi alla gerarchia implicita tra “maestre” e “professoresse”,
uso il femminile per realismo).
Le stesse “Indicazioni nazionali” per il primo ciclo (a
proposito: per quanti anni le indicheremo con l’attributo
“nuove”?), pur sensatamente ed apprezzabilmente orientate a
costruire articolazioni fondate “pedagogicamente”, pagano il
loro tributo alla segmentazione tradizionale tra primaria e
secondaria di primo grado. La sfida è di carattere scientifico,
culturale, tecnico ma deve combattere con ostacoli di carattere
“strutturale” (i modelli di classificazione del lavoro). Il
problema è di definire “sensati” contenitori (la dimensione
“istituita” della formazione) al processo “istituente” della
formazione di un soggetto dai tre-sei anni ai sedici.
Contenitori capaci di dare ospitalità e dunque sensata
promozione, ad un processo che ha continuità, discontinuità,
progressioni che riportano alla persona ed al soggetto, non alle
cesure “organizzative/istituzionali”. Ma poiché a queste ultime
corrispondono scale di valori e gerarchie implicite o esplicite,
l’impegno ha una dimensione politico-culturale di prima
grandezza.
La formazione post obbligo: post
secondaria non terziaria, terziaria non universitaria.
E’ su tale terreno che si colloca la sfida per quella che ho
chiamato una nuova
teleologia dell’istruzione obbligatoria. Ciò che si colloca
come suo sviluppo. Qui indico, tralasciando la problematica
degli indirizzi della secondaria nel triennio, quell’orizzonte
che mi pare più destrutturato e meno presente alla politica
dell’istruzione e alla sensibilità più diffusa sulle
problematiche della scuola.
Al 1999 risale l’impegno del nostro Paese verso l’OCSE per un
riordino dell’istruzione terziaria coerente con gli indirizzi e
le classificazioni internazionali. A quell’impegno risale lo
schema che articola l’istruzione terziaria in tre segmenti:
Università, Formazione Artistica e Musicale, Formazione Tecnica
Integrata. (Con tale schema l’Italia rispose alle sollecitazioni
OCSE)
Uno schema interessante, ma che come accaduto per altri aspetti
della politica dell’istruzione nel nostro Paese sembra avere
prodotto uno sforzo (variamente interessato) ad adattare un
nuovo software su un
vecchio hardware.
Soprattutto se si guarda a quanto si è prodotto in termini
applicativi. Schematizzo quasi un quindicennio di storia.
·
L’Università si è immediatamente proposta per riassumere nella
propria competenza (e padronanza?) l’intera formazione
terziaria, lasciando generosamente (!) la Formazione Artistica e
Musicale (AFAM). Subito dopo (2002) produsse la riorganizzazione
con il 3+2, e la proliferazione di “lauree brevi” su creativi
(!) indirizzi “professionalizzanti”. Un processo che, per
fortuna o recupero di saggezza, dopo un decennio sembra
ri-contenersi, recuperando forse un significato più adeguato di
“formazione universitaria”.
·
Il terzo
segmento “terziario non universitario” definito in quell’accordo
OCSE coinvolge indirettamente il sistema della Formazione
Professionale i cui percorsi sarebbero disponibili, in teoria,
all’uscita dell’obbligo scolastico (tralascio argomenti di
discussione spesso strumentale e ideologica su obbligo di
istruzione trasferibile in quel contesto, ecc..).
Nella connessione tra obbligo scolastico, Secondaria Superiore,
e percorsi di Formazione Professionale evoluti è possibile
intravvedere, con qualche capacità e prospettiva progettuale sia
un percorso post secondario non terziario (livello 4 OCSE)
sia un percorso
terziario non universitario (Livello 5). Poiché la Formazione
Professionale, come è noto è competenza regionale (sia pure con
la sopravvivenza consistente degli Istituti Professionali di
Stato) deve necessariamente mettere capo a un sistema di
governance (governo
misto) con accordo Stato – Regioni.
Dopo anni, dal 1999 all’ultimo accordo Stato Regioni del 2016, e
dopo la creazione, da parte del MIUR degli ITS (Istituti Tecnici
Superiori, 2008) si è prodotta una
“sistemazione” del settore che molto sinteticamente possiamo
così rappresentare (chiedo scusa delle approssimazioni)
1.
Percorsi IFTS. Percorsi di due
semestri (800-1000 ore) progettati da Istituti Secondari
Superiori, Enti di Formazione accreditati, Università e imprese.
Rilasciano una “certificazione di specializzazione”. Vi si
accede con diploma della secondaria superiore o tramite
accertamento competenze acquisite in altri percorsi formativi o
in esperienze formazione lavoro. (Livello 4 OCSE)
2.
Percorsi ITS , percorsi di
quattro/sei semestri (1800-2000 ore) gestiti sul modello
“Fondazione partecipata” da un Istituto secondario Superiore
(Tecnico o Professionale); un Ente Locale, una struttura
formativa accreditata regionalmente per alta formazione, una
impresa del settore corrispondente, un Dipartimento
Universitario o struttura analoga di ricerca scientifica e
tecnologica. Rilascia un Diploma di Tecnico Superiore. Vi si
accede con diploma secondario superiore o con quadriennio
Formazione professionale più un percorso IFTS. I percorsi ITS di
quattro semestri corrispondono al livello 5 OCSE. (terziario non
universitario), I percorsi ITS da sei semestri dovrebbero
corrispondere al livello 6 OCSE e dunque confrontarsi con il
primo livello terziario universitario. (in teoria riequilibrare
il modello “lauree brevi”)
3.
I
Poli Tecnico Professionali
rappresentano un tentativo di consolidare strutture definite
regionalmente che operano come rete tra Istituti Secondari
Superiori (almeno due), ITS, organismi di formazione
professionale, imprese. Dovrebbero costituire sul territorio un
riferimento permanente per la programmazione dell’insieme di
interventi di formazione post obbligatoria, professionale,
terziaria non universitaria.
Non è questa la sede per esplorare analiticamente sia gli
aspetti istitutivi che quelli operativi realizzati da un sistema
che in oltre 15 anni si è almeno configurato come “repertorio”
di “finalizzazioni” articolate di una istruzione post obbligo e
post secondaria che, come più volte rilevato analizzando i dati,
sembra ancora essere in larga misura “sequestrata”
dall’Università, favorendo il riprodursi di una segmentazione di
classe “ereditaria” dell’istruzione superiore.
Voglio solo evidenziare
tre elementi critici.
a.
Il primo,
di carattere generale è la comprovata debolezza “di governo” di
tutti i sistemi che fisiologicamente necessitano di elementi di
“governo misto” (governance)
tra Stato e Regioni. Dalla assennata programmazione del ciclo
0-6 anni, alla programmazione territoriale degli insediamenti
delle Istituzioni scolastiche. Ma è una debolezza generale di
sistema nazionale che si riflette per esempio sul complesso del
welfare territorializzato. Dalla Riforma del Titolo V (2001) non
abbiamo ancora imparato le regole della
governance,
oscillando di fronte ad ogni difficoltà, tra una predicazione di
ritorno al centralismo e dichiarazioni di gelosa indipendenza
locale. Ma ci sono temi e problemi, come quelli indicati, per i
quali il “governo misto” è una componente ”fisiologica”, del
resto sperimentata da tutti i Paesi europei. Prima o poi dovremo
imparare.
b.
Il sistema
descritto, faticosamente costruito in questi quindici anni,
sembra collocato e vivere in un “angolo appartato” del Sistema
Nazionale di Istruzione. Sia la sua conoscenza che il confronto
tecnico, scientifico, culturale che dovrebbe animarlo, sono in
realtà di scarsa diffusione e approfondimento. La maggior parte
delle famiglie, ma anche la maggior parte delle professionalità
operanti nella scuola continuano a pensare (e a comportarsi di
conseguenza) che il sistema di istruzione sia quello “ereditato”
e consolidato nella
teleologia dalla elementare alla laurea. Che proprio quel
sistema sia attraversato dalla faglia di classe appare cosa
inevitabile. Si pensa che si correggerà nel tempo, come avvenuto
con la scuola Media. Non si costituisce perciò come oggetto di
una possibile “politica della domanda” capace di combattere
proprio quella dislocazione sociale.
c. C’è un probabilmente inevitabile ricorrente uso del termine “Tecnico” nel definire le etichette degli elementi costitutivi del modello, che rispetto alla “cultura nazionale” potrebbe rappresentare uno svantaggio pregiudiziale. Appare come una deriva verso il mondo industriale e della impresa. In realtà non è cosi. Per esempio tra le Aree di impegno del modello ITS, accanto a quella “Efficienza Energetica” o della “Mobilità sostenibile”, vi è quella delle ”Tecnologie innovative per la gestione dei beni e attività culturali e il turismo”, oppure quella denominata “Nuove Tecnologie della vita”. Tutti indirizzi che certamente anche giovani liceali possono seguire (e lo fanno, sia pure in pochi) Ma è indubbio che i soggetti realizzatori siano sempre individuati negli Istituti Tecnici o Professionali. Io credo che si potrebbe e dovrebbe investire esplicitamente (magari cambiando “etichette”) l’attività di questi livelli di formazione anche in settori terziari o del welfare. Penso per esempio alla Sanità, ma anche alle amministrazioni pubbliche in senso lato (con quali titoli di studio assumono?), sup erando un possibile equivoco “aziendalistico” che, come sappiamo rischia sempre di inquinare il confronto culturale (Per qualcuno l’impresa è sempre dedicata a “lo sterco del diavolo”)
Il tutto si configura come una grande sfida culturale e politica. Se si saprà superare una visione del Sistema Nazionale di Formazione e Istruzione nel quale l’occhio guarda, un poco deformato, sempre in Viale Trastevere.
([1])
Come sempre il linguaggio
utilizzato ha un senso anche
“sotto traccia”. Per lunghi anni
si parlò senza eccepire di
“Media Unica” o di “Media
dell’obbligo”, termini che
sottolineavano il carattere
radicale della innovazione a far
data dal 1962/63. Poi (a far
data dal ministero Moratti) fu
ripristinato il rigore della
terminologia istituzionale
“Scuola Secondaria di primo
grado”. Ricordo però che già in
precedenza, all’orale del mio
concorso ispettivo, mentre io
usavo indifferentemente le prime
due allocuzioni, un commissario
d’esame mi corresse accigliato
“si dice secondaria di primo
grado…”. Evidentemente voleva
sottolineare significati non
dichiarati ma certo distinti da
quelli che io assegnavo e
utilizzavo. Il confronto non fu,
in quella occasione,
esplicitato.
([2]
)Come non richiamare in
proposito anche l’influenza
culturale profonda almeno su una
generazione di docenti, operata
dal pensiero di importanti
maestri: da Lorenzo Milani, a
Mario Lodi, da Bruno Ciari a
Gianni Rodari, al MCE e, perché
no a Alberto Manzi. Senza questo
apporto credo che lo stesso
costrutto di “scuola
dell’obbligo” non avrebbe
assunto il significato
necessario. Ma, se si guarda ai
nomi citati, non si può fare a
meno di considerare che
l’attenzione di tutti loro fu
destinata in particolare alla
“costruzione di base”
dell’istruzione, a partire dalla
scuola elementare. Quella di Don
Milani sul livello della scuola
media fu, non per caso, una
“incursione” che assunse un
valore “rivoluzionario”.
([3])
Con i termini “spingere” e
“tirare” indico modalità diverse
di affermazione di processi
innovativi. I secondi avvengono
avendo una meta innanzi da
raggiungere, ben visibile a chi
guida… i primi avvengono sia
pure in una direzione e in un
verso, ma non con
predeterminazione della meta; o
meglio condizionati strada
facendo da correzioni,
deviazioni… chi spinge non vede
la meta finale. Facile è
affermare che le due modalità
dovrebbero combinarsi e in dosi
corrispondenti ai contesti
storici, alle urgenze e alle
risorse disponibili.