(17.10.2014)
Il “sistema”
dell’istruzione e il senso dell’ architettura
di Franco De Anna
Parlar di “sistema scolastico” o di
“sistema di istruzione” o, come ribadisce sempre l’amico Tiriticco, di “sistema
educativo di istruzione e formazione” può dare il conforto di una comune
allusione a qualche cosa il cui significato si condivide. Ma se appena si tenta
di riempire di contenuto analitico il termine “sistema” ci si accorge del
rischio di convenire non su un comune significato ma su un riferimento
convenzionale.
In cosa consisterebbe infatti il “sistema” (un insieme di elementi correlati
funzionalmente la cui azione concorre a determinare un risultato complessivo)?
Si fa naturalmente più in fretta a dire che cosa non sia “sistema” (come
l’Areopagita è costretto a far con dio…).
Per esempio non è sistema una piramide amministrativa percorsa da un algoritmo
di comando costituito da strumenti formali come norme, direttive, circolari,
regolamenti e incardinato sul controllo unificato del personale. Non è un
“sistema”: è Pubblica Amministrazione weberiana.
Per esempio “sistema” non è una “impresa” con ragione sociale centralizzata e
dotata di “filiali” territoriali: ciascuna porta imprinting della ragione
sociale di appartenenza e, pur dotata di relativa autonomia operativa, è parte
integrata/integrante della “casa madre”. Per alcuni è così da intendersi
l’autonomia scolastica, e la “casa madre” con sede in Viale Trastevere
assomiglia alla descrizione precedente (Come le Poste, o certe Banche nazionali
distribuite sul territorio).
Ma “sistema” non è neppure che la “casa madre” operi una serie di “outsourcing”
affidando servizi collaterali, sia pure indispensabili, ad altri soggetti: nel
caso della scuola, l’edilizia e la manutenzione agli enti locali, le mense ed i
trasporti ai Comuni, ecc.. ecc.. Si tratta in realtà di “esternalizzazione” di
“servizi alla produzione” che hanno programmazione e gestione separata, mentre
il nucleo fondamentale del comando rimane centralizzato “nell’azienda”.
All’inizio degli anni 2000 si tentò, per la verità, di dare fisionomia sistemica
a quello che, non per caso da allora, si cominciò a chiamare “sistema educativo
di istruzione e formazione “ (copyright del Ministro Berlinguer..). Lo si tentò
a partire dall’autonomia scolastica, non concepita (almeno nelle primitive e
originali concezioni) come mero “decentramento” di filiali operative del MIUR, e
isomorfa invece al progetto di trasformazione complessiva della Pubblica
Amministrazione (la Legge 59/97 “Bassanini”..) la cui “filosofia” fu trasferita
(o lo si tentò con qualche traduzione maldestra) nel nuovo dettato
costituzionale del Titolo V, nel quale, per altro, l’autonomia delle istituzioni
scolastiche è stata costituzionalizzata .
Si andavano così definendo soggetti plurimi e competenze plurime (a partire da
quelle legislative) rispetto all’istruzione, alla formazione professionale,
alla gestione del “sistema” che occorreva ricondurre ad unità, superando però il
“monopolio” produttivo del Ministro della Pubblica Istruzione e della sua
amministrazione.
Si trattava, al di là dei risultati contingenti ed immediati, di una strategia
di larga portata e di lunga durata che aveva a fondamento processi storici
innescati anche a livello mondiale alla fine degli anni ’70: la crisi fiscale
dello Stato, la crisi specifica dei modelli di welfare sia rispetto ai loro
costi, sia soprattutto rispetto al loro configurarsi come radicati sulla
“cittadinanza” e non sulla dimensione assicurativa della “previdenza”; e, come
nel caso italiano, assimilati ad apparati Amministrativi, incapaci di garantire
produttività, efficienza ed efficacia. o anche solamente un governo unitario
rispetto alla complessità raggiunta storicamente dai servizi alla cittadinanza
(dell’istruzione, alla previdenza, all’assistenza, alla sanità).
Di quella operazione, rispetto alla scuola ed all’istruzione, si posero
solamente alcune premesse e contraddittorie. Probabilmente la stessa traduzione
di un modello di riforma della Pubblica Amministrazione, pensato in origine in
invarianza costituzionale, travasato entro un processo di revisione
costituzionale (inquinato da un dibattito culturale e politico improprio come
quello che si volle chiamare “federalismo”) incrementò errori e opacità invece
di perseguire chiarezze e semplificazioni interpretative.
Se, a posteriori, si usasse il concentrato di conflitti aperti presso la Corte
Costituzionale per l’applicazione del dettato del titolo V rinnovato al sistema
di istruzione, come pure l’inconsistenza, i ritardi, le compromissioni
paralizzanti, delle decisioni in merito da parte della Conferenza Unificata
(l’organismo di governance del sistema misto previsto dal nuovo Titolo V)
come indicatori del livello di realizzazione effettiva di una effettiva
“consistenza” del cosiddetto sistema educativo di istruzione e formazione, e se
a tali indicatori si aggiungessero tutti i “passi indietro” verificati rispetto
alla applicazione del regolamento dell’autonomia, avremmo descritto anche
analiticamente il quadro sconsolante della situazione odierna del “sistema”
Per tacere della inconsapevolezza politica, fino all’insipienza, di chi a tali
operazioni ha presieduto, e consentito anche partendo da dichiarata adesione al
disegno dell’autonomia. (trasversalità politico-culturale dello schieramento
“conservatore”)
Rispetto a tutto ciò poco vale il semplice richiamo a realizzare l’autonomia,
(vedi esortazioni della Buona Scuola). Si dice: la norma c’è, bisogna
semplicemente applicarla… Semplicemente?!..
Vorrei proseguire una argomentazione “per contrario” proponendo un confronto con il “sistema” sanitario nazionale, e ricordando che, con i difetti puntualmente denunciati in diversi casi, esso rappresenta uno dei migliori sistemi nella comparazione internazionale (non così la scuola…) e che il suo strutturale problema è quello di difformità territoriali riferite ad alcune Regioni italiane, per altro in fondo alla classifica dei valori socio-economici anche rispetto ad altre manifestazioni di gestione locale (della difformità territoriale dei risultati della scuola è meglio tacere..).
Il “sistema Sanitario nazionale” è così
definito: “il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle
funzioni, delle strutture, dei servizi, e delle attività destinati alla
promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di
tutta la popolazione…. L’attuazione del servizio sanitario nazionale compete
allo Stato, alle Regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la
partecipazione dei cittadini” (Legge 833 del 1978)
“La tutela della salute come diritto fondamentale dell'individuo ed
interesse della collettività è garantita, nel rispetto della dignità e della
libertà della persona umana, attraverso il Servizio sanitario nazionale, quale
complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari
regionali e delle altre funzioni attività svolte dagli enti ed istituzioni
di rilievo nazionale.. nonchè delle funzioni conservate allo Stato…”
(D.lgs 502/92)
Il servizio sanitario, sia nella definizione fondativa, sia in quella degli anni
’90, non è una funzione, una struttura, un servizio dello Stato; ma non è
neppure un ente pubblico o una persona giuridica; è una organizzazione complessa
cui lo Stato ed altri soggetti danno vita per garantire un diritto
costituzionale. E’ un “sistema”, che funziona sulla base dell’esercizio
coordinato di competenze e titolarità diverse, e diversamente “specializzate”,
il cui “governo misto” (governance) assicura il risultato.
Il “sistema” vede operare congiuntamente
una pluralità di soggetti: il Ministero della salute, il CSS - Consiglio
Superiore di Sanità, l’ISS - Istituto Superiore di Sanità, l’INAIL - Istituto
Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro, l’AGENAS - Agenzia nazionale per i
Servizi Sanitari Regionali, gli IRCCS - Istituti di Ricovero e Cura a Carattere
Scientifico, gli IIZZSS - Istituti Zooprofilattici Sperimentali, l’AIFA -
Agenzia italiana del farmaco, le Regioni e Province autonome, le Aziende
Sanitarie Locali, le Aziende Ospedaliere
Il sistema ha dunque architettura complessa e policentrica e delinea i contorni
di un “governo misto” che coinvolge i diversi soggetti, diversamente configurati
e con ruoli produttivi specializzati.
In particolare i “produttori finali” del servizio ai cittadini hanno
configurazione di “azienda pubblica”, mentre esiste una complessa
“tecnostruttura” (ricerca, valutazione, qualità, informazione, ecc..) formata da
soggetti al servizio della governance complessiva del sistema,
assicurandone elementi di controllo operativo, di valutazione e di qualità.
I soggetti della “tecnostruttura” (ISS, AGENAS, AIFA, ecc..) sono al servizio
del “governo misto” (non del Ministero)
Naturalmente, per fare solo un esempio, di quanto dei risultati del lavoro
valutativo dell’AGENAS (vedere sul sito…e confrontare p.es. con INVALSI e si
vedrà la distanza da colmare..) si faccia davvero conto nella gestione
amministrativa e politica dei titolari regionali, rappresenta “la questione
politica” del funzionamento del sistema; ma almeno la “politica pubblica” della
sanità non ha alibi e nascondigli: può e deve essere valutata e i cittadini
hanno (avrebbero) le informazioni corrette e si possono (potrebbero) esprimere
(salvo convenienze e connivenze di altro tipo..).
Non così la politica pubblica effettivamente realizzata nella scuola. (E le
resistenze che si incontrano per realizzare un sistema nazionale di valutazione
raccontano molte cose e non tutte limpide..)
Il fondamento unificante del “servizio” alla cittadinanza, che deve garantire
che qualunque cittadino riceva dal sistema sanitario, ovunque si trovi, un
trattamento almeno basicamente unitario, sta nella definizione di un repertorio
di Livelli Essenziali di Prestazione, che spetta allo Stato (sua funzione
essenziale ed insostituibile) come garante della eguaglianza dei cittadini. Lo
Stato non è “produttore” del servizio ma è “regolatore” e garante che esso
corrisponda alla eguaglianza di diritti e si esprima in un set di
prestazioni fondamentali uguali e coerenti con la ricerca tecnico scientifica
del settore. I LEP sono questo.
Se confrontiamo il sistema scolastico
con questo modello sanitario è facile affermare che per il servizio
dell’istruzione e della formazione come diritti di cittadinanza non
astrattamente definiti ma realizzati in un complesso di servizi tra loro
integrati e coordinati non c’è “sistema”.
Naturalmente si potrà sempre sostenere che certo “l’istruzione non è solo un
servizio…ma è una istituzione…”. E sia. Ma ciò non cambia la diagnosi, anzi
l’aggrava: tanto più dovrebbe garantire di “funzionare” al meglio, proprio
perché anche istituzione.
In sintesi: il servizio ( quello scolastico) erogato da uno dei titolari del
potere legislativo (lo Stato) attraverso il Ministero e la sua catena di
comando amministrativo e soprattutto attraverso il monopolio del personale ha
peso specifico dominante; gli altri soggetti di titolarità legislativa sono le
Regioni, e il sistema di formazione professionale da loro gestito è rispetto al
sistema di istruzione, incomparabilmente più esiguo e sopratutto non integrato e
connesso non ostante i tanti tentativi e le esortazioni.
Non esiste un repertorio consolidato di LEP cui tutti i titolari devono adeguare
la loro attività (ci sono programmi di studio nazionali; ma i “programmi” non
sono “prestazioni”, e le prestazioni alla cittadinanza da garantire da parte del
sistema di istruzione sono qualche cosa di più dei programmi di studio, sono
servizi, strutture, ambienti di apprendimento…).
Nell’organismo di governance (Conferenza Unificata) manca la
rappresentanza dei “produttori finali” del servizio (le istituzioni scolastiche
autonome) e dunque assente l’interlocutore di esiguo potere (rispetto agli altri
soggetti) ma di enorme e radicale responsabilità nella produzione del servizio
(è assente il soggetto che dovrebbe trasformare le “indicazioni” in
“produzione”).
E i “produttori finali” (le scuole) hanno configurazione di Enti Pubblici e
dunque pienamente appartenenti al modello amministrativo e ai suoi criteri di
funzionamento (la gestione delle risorse assimilata al bilancio dello Stato, la
gestione del personale, delle relazioni funzionali, dei modelli organizzativi…).
Il primato del diritto amministrativo sulla “economia della produzione” del
servizio alla cittadinanza…
Gli “abbozzi” di tecnostruttura (INVALSI e INDIRE) sono configurati come enti
strumentali del Ministero e dunque non al servizio della governance, ma
controllati da uno dei titolari…. Basterebbe rammentare che nella impostazione
del Sistema Nazionale di Valutazione la parte relativa al sistema di formazione
professionale è esclusa dal dispositivo normativo unitario (si veda l’ultima
direttiva del Ministro). Ciò che avrebbe senso se funzionasse in modo integrato,
viene esplicitamente demandato a valutazioni separate… Sistema? Flatus vocis…
Più in generale si può affermare che la governance è squilibrata nella
concreta erogazione del servizio, reso problematico dalla ambiguità delle norme
e, nei fatti, da un coacervo/contrasto di interessi (si pensi alla gestione del
personale) che ha paralizzato per anni l’attività della Conferenza Unificata ed
i suoi risultati..
La verità è che non c’è “sistema” e che anche nella cultura corrente, quando si
parla di “sistema di istruzione” si opera una mentale identificazione con il
MIUR. Insomma l’istruzione è monopolio del Ministero, la sua amministrazione
(circolari, regolamenti, disposizioni) ne costituisce la leva fondamentale, il
monopolio del controllo del personale ne è la base. E il primato del diritto
amministrativo la regola.
Naturalmente è un “modello” possibile. Per molti anzi ciò costituisce la
garanzia di “unitarietà” del servizio di istruzione (salvo fare i conti con le
evidenze della sua effettiva difformità territoriale e settoriale. L’uniformità
normativa non garantisce affatto quella di risultato). Per altri ancora il
monopolio del personale, pur nelle “miserie” che ciò comporta (ma perché mai in
Trentino, con gestione autonoma, i docenti guadagnano di più?!) è una
apprezzabile piattaforma di protezione e sicurezza.(La mia nonna diceva “il pane
del Governo è poco ma eterno…”; ma tanti, troppi, anni fa per essere regola
riproponibile oggi…).
Ma anche scegliendo questo modello, per avere un sistema “centralizzato” e
uniforme, e nel medesimo tempo efficace ed efficiente, occorrerebbe un ceto
amministrativo che socializzi una cultura professionale omogenea e formata ai
livelli più alti: ma in Italia non c’è nè l’equivalente dell’ENA francese, nè
l’equivalente di quel paio di università anglosassoni che assicurano la comune
formazione delle elite amministrative (e politiche..) nel Regno Unito. Ed anche
in quei casi i problemi della complessità, del decentramento, della
sussidiarietà, delle garanzie effettive di qualità, hanno determinato, negli
ultimi vent’anni esigenze di cambiamento e revisione dei modelli stessi…
Ma, senza avere l’ENA, il nostro paese ha scelto, per altro verso, e non da ora,
la via del decentramento “strutturale” (l’Italia è storicamente e
strutturalmente, un paese di Comuni), la via della “intermediazione” locale; del
pluralismo dei soggetti politici e amministrativi (ispirazione costituzionale
anche al di là del Titolo V rinnovato nel 2001).
Un altro modello dunque, almeno stando alle affermazioni politiche ed
istituzionali esplicite (vedi Costituzione), coesistente e parallelo a quello
centralistico della Pubblica Amministrazione. Schizofrenia istituzionale. Non è
casuale che nella storia della Pubblica Amministrazione non si palesi cesura
costituzionale alcuna ma una tranquillizzante continuità…. Da Cavour (anzi da
Depretis) in poi…
L’autonomia ha tentato di implementare quel modello “decentrato e sussidiario”
anche nel sistema di istruzione che ha più a lungo conservato nel tempo
l’assetto centralizzato costruito attorno al primato del Ministero e
dell’istruzione superiore (un primato elitario storicamente; si pensi che la
scuola elementare fu per lungo tempo della storia unitaria affidata ai Comuni);
e per un attimo si è delineata la prospettiva di un mutamento strutturale di
architettura sistemica...
Ma la transizione è stata lasciata a mezzo, e in balia di interessi e
interpretazioni più o meno esplicitamente contrastanti (peggiore di quelle
esplicite, come sempre, l’effetto delle opposizioni latenti ed implicite).
La filosofia “dei modelli” ha carattere stringente: occorre scegliere tra essi,
e semmai adattare alla realtà le conseguenze della scelta. Ciò che non si può
fare è mescolarli pensando di ricavarne il meglio da ciascuno. La “legge
fondamentale” dei modelli è ferrea: la loro mescolanza non combina i pregi di
ognuno, ma esalta i difetti di ciascuno.
Per questo guardo con interesse e
consenso alle affermazioni di rilancio dell’autonomia contenute nel documento
sulla buona scuola.
Ma mi chiedo se vi sia davvero consapevolezza che non basti “applicare” la legge
che c’è già, quasi si trattasse semplicemente di superare ostacoli,
incomprensioni, resistenze. E che dunque lo stallo di questi quindici anni sia
dovuto a “nemici” la cui sconfitta necessita semplicemente di travasare nella
scuola una buona e “nuova” volontà realizzativa.
I nemici in realtà siedono stabilmente nel quartier generale, e sanno operare
per larghissime e spesso sorprendenti alleanze, funzionalizzando per esempio
tutti i caratteri “protettivi” che il vecchio modello
amministrativo-ministeriale comporta nei confronti del personale.
Affidare la realizzazione di riforme a chi alle riforme è intimamente e
strutturalmente avverso non lascia affatto ben sperare. Un già visto
istruttivo..
Se l’itinerario analitico precedente ha senso, emergono campi di iniziativa
politica difficile ma non aggirabile.
Rendere il “sistema” di istruzione e formazione non un oggetto di monopolio del MIUR, cominciando proprio con il destrutturare il quartier generale (se ne possono ricavare risorse economiche ed umane da destinare alla “produzione”..).
Dare funzionalità all’organismo di governance assicurando anche la presenza di rappresentanza delle istituzioni scolastiche autonome che sono soggetti “costituzionali”. Il come sarebbe un bel “progetto politico “ per testimoniare la volontà di potenziare l’autonomia. (altro che Organi Collegiali…)
Mutare radicalmente il meccanismo di distribuzione delle risorse pubbliche alle scuole (per convogliare quelle private si può usare tutta la fantasia possibile: il fund raising non può dipendere da regole date dal ministero). Realizzare il finanziamento pubblico con logica budgetaria e responsabilità di gestione. Per provocazione: sarei disponibile a meno risorse, ma a pienezza di padronanza della loro gestione, piuttosto che più risorse ma vincoli operativi che mortificano l’autonomia.
Dare strumenti tecnico operativi comuni
alla governance in particolare su problematiche come la qualità del
servizio offerto che deve essere vincolante per tutti i titolari, la definizione
di repertori di Livelli Essenziali di Prestazione, servizi informativi comuni e
interportabili, servizi conseguenti di valutazione e di promozione dalla qualità
rivolti a tutti i soggetti del sistema (Stato, Regioni, Scuole autonome) Quanto
a dire ristrutturare attentamente e potenziare INVALSI e INDIRE (unificarli?),
senza bloccarne l’attività (come fu per un decennio di transizione incompiuta).
En passant ricordo che sulla definizione di un repertorio di LEP, e su
strumenti comuni di valutazione e promozione della qualità, si fondano anche le
condizioni oggettive non solo per garantire il carattere “sistemico” del
servizio ai diritti di cittadinanza, ma anche per il controllo “differenziato e
determinato” dei costi e dunque le possibilità di ottimizzare le risorse ben al
di là dei “tagli lineari”, che finiscono per togliere con la stessa cecità con
la quale danno.