Ogni giorno viviamo
esperienze legate alla natura dello spazio che abitiamo.
Tuttavia raramene ci fermiamo a scrutare i sottili legami
che connettono i nostri stati d'animo con gli spazi
percepiti. Siamo certi che quel determinato ambiente
architettonico o paesaggistico che ci ha ospitato per un lasso
di tempo più o meno breve, più o meno lungo, ha prodotto in noi
uno stato di benessere o di malessere ma non siamo in grado di
vedere quei nessi che ci rivelerebbero la natura intima dello
spazio vissuto, la relazione che con esso intratteniamo.
Appare
alquanto curioso che questa rilevanza esistenziale dello spazio
nella nostra vita abbia bisogno, per essere riconosciuta anche
nella scuola, di ricerche, studi e riflessioni di esperti che ne
valorizzino la portata educativa e didattica. E' probabilmente
un segno della distanza
che separa la scuola dalla vita.
Recentemente ricerche, convegni e pubblicazioni hanno posto
l'accento sul ruolo che l'organizzazione dello spazio scolastico
assume in rapporto ai modi dell'apprendere. L'INDIRE, su
commissione del MIUR , ha condotto per alcuni anni una ricerca
sul rapporto tra riorganizzazione degli spazi e trasformazioni
dei sistemi scolastici sfociata nella pubblicazione di un libro
(1) e in un Convegno internazionale su architetture scolastiche
e spazi educativi tenutosi nel dicembre del 2016. Rai Scuola (2)
nel presentare tale libro così scrive:«La scuola del futuro
passa anche da un nuovo modo di riorganizzare le aule, cambiando
totalmente la disposizione delle classi odierne, formate da
alunni seduti dietro file di banchi mentre acquisiscono una
lezione frontale. La scuola di oggi non può essere solo un
meccanismo che trasmette il sapere, soprattutto perché essa si
rivolge a tutti i bambini e i ragazzi, nella loro ricca e sempre
crescente diversità.»
Già due anni prima, nel 2014, l'ADi aveva promosso un seminario
internazionale (3) in cui si presentavano e discutevano alcuni
modelli internazionali di architettura scolastica e le loro
implicazioni sul piano delle metodologie di apprendimento. A ciò
si aggiunga un'attività editoriale
che in anni recenti, nell'arco di un quadriennio, ha
proposto alcune pubblicazioni che ruotano attorno all'idea di
un' "architettura educativa" tesa a superare il paradigma
dell'insegnamento trasmissivo, connesso con la tradizionale aula
allestita per la sola lezione frontale, a favore di una
costruzione cooperativa del sapere connessa ad una molteplicità
di spazi fisici diversificati (4).
Secondo Beate Weyland anche l'uso delle tecnologie didattiche
contribuisce alla rivisitazione degli spazi scolastici
tradizionali in quanto orientate più verso la collaborazione di
gruppo e le attività di approfondimento personale che verso la
lezione frontale. E' la stessa Weyland che ammette che nella
ricerca di una nuova visione dello spazio scolastico si tenta di
dar seguito ad idee innovative che hanno cento anni di storia. A
tal proposito cita Dewey che già nel 1899 scriveva: «Anni
addietro io giravo per i negozi di suppellettili scolastiche in
città in cerca di banchi e seggiole che fossero più adatti da
tutti i punti di vista – artistico, igienico ed educativo – ai
bisogni dei fanciulli. Incontrammo molte difficoltà a trovare
ciò di cui avevamo bisogno, sino a che un negoziante più
intelligente degli altri uscì in questa osservazione: “temo che
non troviate quel che desiderate. Desiderate qualcosa con cui i
ragazzi possano lavorare; questi sono fatti tutti per
ascoltare”. Avete in queste parole la storia dell’educazione
tradizionale (...) Un’aula scolastica ordinaria, con le sue file
di banchi disposti in ordine geometrico, addossati l’uno
all’altro in modo da lasciare il minore spazio possibile al
movimento degli alunni, banchi quasi tutti delle medesime
dimensioni con il poco spazio che basta a contenere i libri,
matite e carta (...). Tutto è fatto “per ascoltare”, (...) tutto
attesta dipendenza di una mente da un’altra mente». (5)
Se sfogliamo il grande libro del pensiero pedagogico degli
ultimi cento anni vi ritroviamo
numerosi riferimenti al ruolo giocato non soltanto dallo
spazio ma da tutti gli elementi dell’ambiente scolastico, quelli
che oggi Marco Orsi, promotore del movimento “A scuola senza
zaino” (6), definisce
gli «artefatti materiali» (arredo, oggetti, spazi, ecc)
che rimandano ad “assunti di base” del fare scuola.
Già agli inizi del ‘900 Maria Montessori fondava la sua
pedagogia su tali presupposti. Non è pertanto un caso che nei
primi anni '60 l'architetto Herman Hertzberger, che aveva
frequentato dalla prima infanzia al liceo le scuole
montessoriane, progetta e realizza la scuola di Delft in Olanda.
Il progetto di
Hertzberger prevede aule con pianta a "L" che valorizzano la
zona adiacente al loro ingresso, di altezza minore e ribassata
di due gradini, destinandola a luogo di lavori manuali per
piccoli gruppi.
«
L'ambiente rispecchia l'interno di una casa, con spazi
articolati e irregolari, "angoletti tranquilli" dove i bambini
possono lavorare e pensare secondo i propri ritmi interiori»
(7) L'aspetto innovativo, forse più interessante, risiede nella
valorizzazione delle zone di transizione tra l'aula e la hall
concepita come spazio comune. Illuminate dall'alto da un un
lucernario in vetro, tali zone sono progettate a tutti gli
effetti come luoghi di lavoro per attività individuali o di
piccolo gruppo. Inoltre
sulle pareti dell'aula-classe che si affaccia sulla hall
sono collocate delle vetrine destinate all'esposizione dei
lavori prodotti da ogni classe. Hertzberger ha cercato di
superare la centralità dell’aula come spazio elettivo ed unico
destinato all’apprendimento abolendo, o quantomeno diluendo,
quello stato di separazione e isolamento in cui generalmente si
trova.
Sono
passati più di 50 anni da quell’esperimento e sebbene le
esperienze di "architettura educativa" si siano
col tempo moltiplicate, nel panorama internazionale
restano pur sempre "esperienze di nicchia". Prefigurare uno
scenario futuro in cui la nuova architettura educativa diventerà
la norma e non l'eccezione, appare al momento alquanto
illusorio, a meno che si creda possibile che ogni Paese
occidentale possa
avviare una stagione di costruzione e/o ristrutturazione di
edifici scolastici
nel contesto di una crisi economico-finanziaria, nonché sociale
e culturale, che stenta ad essere superata e dagli esiti
imprevedibili.
Al di
là delle innovazioni architettoniche e del loro corollario
tecnologico, c’è da chiedersi come mai assunti pedagogici che da
tempo avrebbero dovuto governare la vita delle scuole non
trovino ancora una diffusa affermazione.
Per chi
come il sottoscritto ha lavorato quattordici anni nella scuola
materna statale (tra gli anni '80 e gli anni '90), l'idea che
l'organizzazione dello spazio-aula fosse interconnessa con gli
aspetti educativi e didattici del fare scuola era uno dei
principali ingredienti con cui si costruiva la propria
quotidiana presenza di docente-educatore. Il tempo scolastico si
dispiegava come un tempo-spazio che prevedeva uno spostamento
dell'insegnante e dei bambini da un 'angolo' di gioco-lavoro ad
un altro, secondo un itinerario volto a interessare la globalità
delle funzioni degli attori coinvolti. Tutto ciò era
perfettamente in linea con quella letteratura pedagogica che
ruotava attorno a riviste "storiche" quali 'Infanzia' diretta da
Piero Bertolini e 'Zerosei' (diventata successivamente
'Bambini') diretta da Loris Malaguzzi nonché con studi e
ricerche condotte anche nell’ambito specifico del rapporto tra
spazi scolastici e comportamento psicomotorio.
Già nel
1979 una ricerca
condotta nella scuola primaria (8) evidenziava come nella
maggioranza dei casi lo spazio vissuto dal bambino si riducesse
al posto banco che si configurava come uno spazio-prigione da
cui non si poteva evadere se non per compiere spostamenti
eterodiretti. Si rilevava altresì che i banchi erano disposti
nella maggioranza dei casi a righe o a file poste frontalmente
rispetto alla cattedra dell'insegnante e alla lavagna fulcri
dell'attenzione, proprio come accade ancora oggi. Gli autori
della pubblicazione nel presentare la ricerca, che si occupava
oltre che di spazi anche di oggetti, attività, tempi, insegnanti
e bambini, non mancavano di suggerire un’organizzazione dello
spazio in grado di favorire la dimensione motoria e
socio-verbale dei
bambini per sfuggire a quell’inevitabile stato di disagio
psicofisico a cui li sottoponeva l’immobilità coatta.
Per quanto sia possibile rintracciare in questa ricerca che ho
citato punti d’incontro con il movimento dell’
“architettura
pedagogica” oggi in
voga, non si può ignorare che in essa, come nella letteratura
pedagogica sia di stampo “istituzionale”
che “fenomenologico” che “costruttivista”,
lo spazio è considerato come una delle categorie
descrittive del contesto educativo alla cui definizione
concorrono anche altri elementi quali: l'arredo, i materiali,
gli strumenti, le attività, i compagni, gli insegnanti, le
regole che disciplinano i comportamenti, i tempi che scandiscono
il processo educativo. Ogni elemento può costituire una
“posizione” da cui guardare al contesto ma nessun elemento del
contesto
considerato isolatamente può essere ritenuto in grado di
influenzare in modo univoco e risolutivo l’approccio
didattico-pedagogico (9). La
dimensione intersoggettiva che permea l’avventura
educativa, con ciò che ne consegue sul piano affettivo-emotivo,
non consente di predeterminare percorsi, tappe e traguardi sulla
base di una semplice manipolazione dell’ambiente. Se
l’organizzazione dello spazio dopo la scuola dell’infanzia
diventa progressivamente sempre più irrilevante è perché i
paradigmi dell’educazione che ancora governano le scuole e
plasmano i docenti contemplano generalmente ambienti scolastici
inospitali, asettici, privi di connotazioni estetiche.
Non-luoghi (10), cioè luoghi privi d’identità, luoghi anonimi,
senza storia, in cui si assembrano corpi e banchi da una parte e
lavagna (oggi LIM) e cattedra dall’altra.
Tutto questo si presenta con il volto dell’ineluttabilità.
L’evocazione di “vincoli oggettivi”, che obbligherebbero a
riprodurre l’esistente, da una parte sottovaluta il potere
trasformativo di piccole ma importanti decisioni che Team e
Consigli possono deliberare e adottare in materia di
organizzazione dello spazio, dall’altra appare come il sintomo
di un’inerzia culturale che delega all’altro da sé (i soggetti
coinvolti nelle politiche scolastiche) la responsabilità di
cambiamenti strutturali senza i quali si ritiene che nulla si
possa fare. Per
uscire dall’immobilismo occorre che il docente concepisca se
stesso come un importante
«agente
del cambiamento» che opera per affermare la propria identità e
dignità di «attore sociale» consapevole che la sua azione
educativa deve aspirare a oltrepassare i confini delle mura
scolastiche.
(1)
G.Biondi,
S.Borri, L.Tosi, Dall'aula all'ambiente di apprendimento,
Firenze, Altralinea, 2016.
(2) RAI
Scuola, La scuola del futuro: uscito il libro “Dall’aula
all’ambiente di apprendimento”,
http://www.raiscuola.rai.it/articoli/la-scuola-del-futuro-uscito-il-libro-%E2%80%9Cdall%E2%80%99aula-all%E2%80%99ambiente-di-apprendimento%E2%80%9D/36714/default.aspx
(3) ADi,
Atti del seminario
internazionale: ACCHIAPPANUVOLE, Scuole e spazi
nell'era digitale, 2014,
http://ospitiweb.indire.it/adi/SemFebMar2014_Atti/2-1_Austria/sa142-1_frame_dir.htm
(4) B. Weyland, Media e spazi nella scuola, Brescia, La Scuola,
2013; G.Ponti, La scuola intelligente, Palermo, Grafill, 2014;
B.Weyland, S.Attia, Progettare scuole, Milano, Guerini
Scientifica, 2015; M.Marcarini, Pedarchitettura. Linee storiche
ed esempi attuali in Italia e in Europa, Roma, Edizioni Studium,
2016.
(5) B.
Weyland, op.cit., pp.16 e 21-22.
(6)
M.Orsi, A scuola senza zaino, Trento, Erickson, 2016.
(7) C. Baglione, Pedagogia dello spazio, Casabella, n.750-751,
dicembre 2006.
(8) E.
Bernardi, A. Canevaro, L.Feroli, Il comportamento psicomotorio a
scuola, Bologna, Società editrice il Mulino, 1979.
(9) cfr. P. Zanelli, La qualità come processo, Milano, Franco
Angeli, 1998, p.177; vedi anche P. Zanelli, Autovalutazione come
risorsa, Bergamo, 2004.
(10) cfr. Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia
della surmodernità, Milano, Elèuthera, 2008.