(08.12.2016)
Il dopo referendum: titolo V e
rapporto Stato-Regioni
di Franco De Anna
Il Titolo V della Costituzione fu cambiato radicalmente nel
2001 e il popolo approvò con referendum confermativo. Le modifiche proposte ad
alcuni articoli, sempre del Titolo V, in particolare art.117, sono state
recentemente invece respinte dal popolo stesso sempre tramite Referendum.
Uno degli elementi critici emersi nel quindicennio di applicazione del Titolo
Quinto fu la difficoltà di organizzare stabilmente e attraverso procedure
produttive, trasparenti, rendicontabili (accountability), efficaci, il rapporto
tra Stato e Sistema delle Autonomie Locali su un insieme di materie per le quali
l’art. 117 afferma “titolarità concorrenti” tra i due soggetti che esercitano
potestà legislativa: lo Stato e le Regioni. La difficoltà di gestire
assennatamente le “titolarità concorrenti” fondate su fattori spesso legati alla
contingenza conflittuale politica (vedi conflitti tra Regioni di “colore”
diverso e potere centrale), piuttosto che su elementi di “politica pubblica” con
carattere di “lunga durata”, hanno alimentato i
questi anni un fitto contenzioso interpretativo verso la Corte
Costituzionale, che, per la verità spesso si è espressa con pareri entro i quali
non sempre è dato di rintracciare coerenze evidenti.
Anche per tali motivi, la proposta di revisione costituzionale recente tentava
di superare il costrutto stesso di “titolarità concorrente” cercando di
specificare in modo perentorio ed esaustivo le competenze reciproche.
Inevitabilmente complicando e dettagliando “letterariamente” lo stesso dettato
del nuovo articolo (con difficoltà di comprensione immediata) e suggerendo
interpretazioni politiche di neo centralismo. Il popolo si è comunque espresso.
A mio parere, però, il problema di una maggiore precisione “normativa” nella
descrizione della distribuzione dell’esercizio dei due poteri legislativi è
certamente reale, ma non è risolvente della “difficoltà materiale” di coordinare
i ruoli e l’attività dello Stato e del Sistema della Autonomie, che comunque,
quale che sia il dettato normativo, si incontrano e confrontano nella gestione
materiale soprattutto della realizzazione di numeroso servizi al diritti sociali
dei cittadini, in particolare del welfare territorializzato: dalla Scuola, alla
Formazione, alla Sanità, alla Assistenza (con si sa la Previdenza è erogata sul
piano nazionale).
C’è in sostanza irrisolto un problema che persiste quale che sia la
“sistemazione” giuridica della “competenza legislativa concorrente” (non che non
sia necessaria la definizione normativa, ma non è sufficiente. Mi verrebbe da
rinforzare: tutt’altro che sufficiente). Nella realizzazione materiale dei
servizi del welfare territorializzato “comunque” lo Stato e il “sistema delle
autonomie locali” devono trovare un terreno comune per l’esercizio coerente e
produttivo della “politica pubblica” (e delle risorse connesse, per altro come
sempre limitate). Si pensi alla scuola: dimensionamento delle istituzioni
scolastiche, edilizia, distribuzione del personale, trasporti, mense… sono
servizi a diversa titolarità ma che concorrono al “prodotto finale” e
devono/dovrebbero farlo in sensata coerenza, efficacia e efficienza comuni: i
diritti di cittadinanza sono, per definizione “uguali”.. la loro fruizione
essenziale non dovrebbe differire, dalla Lombardia alla Calabria (e non è, o non
solo, questione di finanziamenti
..)
Definizioni giuridiche e modelli operativi
Non è solo un problema italiano: in tutti i Paesi, quali che
siano gli assetti istituzionali, la gestione dei servizi del welfare
territorializzato fa capo a modelli di “governo misto” cioè con la
collaborazione ed azione contemporanea di più soggetti. Se si preferisce
l’anglosassone, invece che di “governo misto” si parli di “governance”.
Ho ricordato in altri contributi ([1])
che, in letteratura internazionale, vengono descritte le condizioni e le
“regole” essenziali per il funzionamento dei sistemi di governance.
Sintetizzando:
1.
Un livello essenziale di condivisione, tra tutti i
soggetti coinvolti, della politica pubblica corrispondente al servizio.
Non è detto che la condivisione debba essere totale, ma essere esplicitata e
dichiarata almeno sui punti fondamentali (quelli meno contingenti e che
caratterizzano a fondo il servizio pubblico in questione). Si tenga conto che
nei diversi modelli di governance, non sono applicabili le regole della
“maggioranza”: siamo infatti sul terreno della policy, non politics… ci si
esercita sulle linee di fondo della politica pubblica che hanno la cadenza della
“lunga durata” al di là delle alternanze di governo (si parla anche, non a caso,
di “governance without governament”…). La scuola potrebbe/dovrebbe essere un
esempio: politiche di cadenza almeno decennale… Anche per questo stupiscono
alcune sentenze della suprema Corte quando disquisiscono tra “approvazione” e
“parere” nel rapporto Stato-Regioni su una materia come questa…
2.
Compiti e responsabilità operative di ciascun soggetto
del governo misto definiti in modo esaustivo, condiviso e senza sovrapposizioni
e conflitti. (Niente doppioni). E qui
l’esercizio della nitidezza normativa è essenziale. Ma si tenga conto che più la
materia è complessa, meno esaustive sono le definizioni normative (a meno di
compilare un “manuale operativo” e dare ad esso forza di legge, ma largamente
incomprensibile al comune cittadino). Alla base è sempre necessario un solido
accordo interpretativo. Certo che se, come diceva il vecchio Giolitti,
“le leggi si applicano per i nemici e si
interpretano per gli amici ..”, non
c’è definizione che tenga.
Su tale punto valga l’esempio proprio del testo della riforma costituzionale
respinta dal popolo: dovendo dettagliare normativamente i compiti reciproci di
Stato e Regioni, per superare la “titolarità concorrente”, il testo
costituzionale risultava contorto e incomprensibile per il comune cittadino.
3.
Un sistema informativo totalmente inter portabile.
Condizione sia di gestione razionale, sia di trasparenza e pubblicità (non è
così per esempio tra sistema informativo MIUR e sistemi regionali). La rete ha
reso tale condizione di particolare rilevanza, ma non si può identificare tale
condizione semplicemente con lo strumento tecnico. C’è sottostante ad esso ed al
suo uso il problema di declinare una comune filosofia della amministrazione
pubblica.
Per sintetizzare uso una citazione di Bobbio. Occorre pensare ed agire la
gestione del pubblico, passando da una visione
“ex parte principis” (così radicata
nella tradizione della Pubblica Amministrazione italiana) ad una visione
“ex parte populi”
[2].
Una speranza e un impegno che caratterizzò una breve stagione dalla fine degli
anni ’90 fino agli inizi del nuovo millennio. Poi le resistenze conservative (di
qualunque colore politico) ebbero progressivamente la meglio, pur a parità di
“proclamazioni” riformiste.
La rete e la digitalizzazione possono aiutare a rilanciare il processo, ma solo
se la scelta politica e di indirizzo risale esplicitamente quel crinale. ([3])
4.
Una tecnostruttura comune, al servizio di tutti i
soggetti, con compiti tecnico scientifici
(valutazione, manutenzione delle prestazioni, ricerca e sviluppo correlata al
servizio).
Tale condizione è particolarmente rilevante rispetto alla definizione dei
Livelli Essenziali di Prestazione (LEP o LEA nel caso Sanità) che è prerogativa
esclusiva dello Stato (i diritti “eguali”). Ma poiché si tratta di
“prestazioni”, non hanno la immutabilità della “norma”, ma sono dipendenti da
variabili tecnico-scientifiche (si pensi alla sanità, farmaci e apparecchiature…
ma anche alla scuola), che ne rendono necessaria una permanente e attenta
“manutenzione”. In tal senso (componente tecnico scientifica dei LEP) si è anche
espressa la Suprema Corte: non basta il dettato normativo. La tecnostruttura di
ricerca tecnico-scientifica al servizio del “governo misto” acquista il senso di
una condizione essenziale di funzionamento.
(Rimando all’esempio Sanità: Istituto Superiore di Sanità, Agenzia del farmaco,
Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali AGENAS.. sono esempi di
tecnostruttura tecnico scientifica alla governance del servizio sanitario
nazionale).
Nel caso dell’istruzione tale questione è davvero problematica: come si esprime
in dimensione territoriale, la “ricerca educativa”? (Valutazione, protocolli di
qualità, innovazione didattica, formazione del personale) Qui potrebbe aprirsi
la questione del funzionamento degli enti nazionali della Ricerca Educativa
(INVALSI e INDIRE) e del loro contributo alla
governance (e non nell’esclusiva del
MIUR come oggi). Ma anche quella delle “reti di scopo” (vedi oltre)
5.
Un sistema di qualità impegnativo per tutti i titolari
del sistema misto, cui essi devono uniformarsi.
I differenziali di qualità infatti, quando non colmati tendenzialmente, operano
come elementi di “costo aggiuntivo” scaricato sui soggetti di più elevata
qualità, dunque come “azzardo morale”.
(Basterebbero gli esempi del Sistema Sanitario, ma anche nel sistema di
istruzione gli esempi non mancano: vogliamo parlare seriamente della
distribuzione degli organici del personale?).
Sottolineo che la questione “equità” nel welfare territorializzato ha una
componente economica fondamentale: la qualità scadente spreca risorse comuni,
quindi aggrava i costi di chi produce a qualità superiore e si vede limitare le
risorse per “tamponare” gli effetti della cattiva qualità. Alla lunga tali
meccanismi di “azzardo morale” finiscono per minare nel profondo i legami di
solidarietà di cittadinanza, fino alla rivolta verso essi (non ho bisogno di
esemplificare ..).
Corollario di tale condizione è la operatività condivisa di un
sistema di valutazione che produca confrontabilità, possibilità di
diagnosi, linee di miglioramento (vedi punto precedente sulle funzione di una
tecnostruttura tecnico scientifica).
Nodi politici
Le condizioni riassunte nei punti
precedenti costituiscono un insieme agevolmente interportabile a diverse
dimensioni di “governo misto” (plurititolarità) da quello Stato Regioni a
livello nazionale, a quelli inter autononie a livelli locali e zonali.
(ovviamente con i dovuti adattamenti).
Acquistano particolare rilevanza quando si voglia procedere ad ottimizzare aree
territoriali del welfare, attraverso la ristrutturazione dei soggetti
tradizionali. Per esempio con la fusione di Comuni, con l’abolizione delle
Provincie, o con la ristrutturazione territoriale (sub provinciale) dei servizi
della Pubblica Amministrazione (vedi Legge 124/2015). O, nel caso della scuola
con la “invenzione” (??!!) delle “reti” (sia di ambito che di scopo ..).
Ribadisco la condizione di fondo: non si tratta (o non solo o non
principalmente) di variazioni “normative”. Il modello “funziona” a partire dalla
comune identificazione di elementi portanti (almeno alcuni) di “policy”
condivisa della politica pubblica dei servizi al welfare, al di là della
dialettica politica quotidiana… (la definizione dei LEP per esempio non può
essere legata alla contingenza di una maggioranza di Governo). Semmai
l’obiettivo di definizione di tale condivisione di policy richiede l’esercizio
paziente di informazione, democrazia partecipata, accountability ([4])
Naturalmente vi sono almeno tre “nodi politici” con cui
misurarsi nel creare realisticamente il contesto di effettivo funzionamento di
quelle condizioni capaci di dare sensata operatività ai modelli di “governo
misto” in particolare del welfare territorializzato.
Il primo nodo politico è costituito
dall’espletamento, da parte dello Stato della prerogativa fondamentale della
definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione. E’ prerogativa costituzionale
largamente inosservata (solo le LEA del sistema Sanitario rappresentano un
tentativo concreto).
Si noti che, trattandosi di “prestazioni” a tali definizioni è parallelo un
sistema di “costi” legato ad esse. Questi costituirebbero davvero una struttura
di “costi standard”; che connettono cioè prestazioni concrete e spesa
necessaria. I costi standard intesi come “costi medi” (come accade normalmente)
sono una assoluta “approssimazione” (meglio che niente ovviamente…) ma senza
connessione con le prestazioni e la loro qualità si tratta di “numeri muti” e di
conseguente politica della spesa “cieca”: si taglia con la medesima
inconsapevolezza con la quale si spreca … (si vedano le istruttive e
contraddittorie vicende della spending
review e dei suoi illustri quanto “frustrati” protagonisti..).
Il secondo nodo politico
è impostare la coerenza delle scelte di politica pubblica sul valore sella
solidarietà e dunque della equità e dell’equilibrio sociale. Non si tratta solo
di un richiamo etico. Occorre acuta sensibilità politica per cogliere il campo
di realistica “resistenza” e praticabilità del principio e delle pratiche di
equità sociale e di solidarismo. Sappiamo per esperienza come la “forzatura” e
il non tenere conto di tali margini di realistica applicazione, rischino di
portare a disgregare proprio il principio di cittadinanza rispetto alle paure,
agli egoismi personali, locali, di piccole appartenenze.
Il terzo nodo politico
è costituito dal carattere delle amministrazioni pubbliche coinvolte nelle
strutture di governance. Sia le amministrazioni locali, ma soprattutto quelle
dello Stato non hanno nella loro tradizione storica, né una architettura
adeguata al modello di “governo misto”, né un “manuale operativo” conforme. La
PA italiana è ancora legata ad un modello di “funzioni autoritative”, espresse
attraverso la “produzione di atti” conformi alla norma, non alla produzione di
servizi conformi ai diritti sociali, nella quale produzione occorre esercitare
non solo i principi di legittimità ma anche quelli della “convenienza economica”
(che riguarda la migliore corrispondenza tra fini e mezzi: questa è
l’economia…). Ciò significa delineare un impegno di lunga lena nella rifotrma
della Pubblica Amministrazione che ha necessità di continuità nel tempo, e
capacità di superare le resistenze ed i conflitti che inevitabilmente genera
entro i ceti legati alla PA. Conflitti non sempre espliciti, spesso sotteranei o
con proclami politici opportunisticamente sagomati di progressismo, ma che hanno
segnato in modo evidente gli ultimi quindici anni di storia politica nazionale.
(il mondo della scuola non è estraneo a teli vicende ..)
Vi è infine, per quanto riguarda la scuola una questione
fondamentale specifica relativa al modello di
“governo misto”. Rispetto agli interlocutori a cui è riferito il modello
sintetizzato nei cinque punti precedenti (Stato e sistema delle Autonomie locali
territoriali, a partire dalle Regioni), nel sistema di istruzione vi è un
soggetto ulteriore, che ha riconoscimento costituzionale (sia pure per inciso,
vedi art.117). Si tratta delle istituzioni scolastiche autonome, le cui
prerogative vanno “fatte salve” rispetto all’esercizio delle competenze degli
altri soggetti.
Qui il problema, con tutta evidenza, è rappresentato dalel forme e dalle
strutture di rappresentanza delle stesse istituzioni scolastiche nel
funzionamento dei divefrsio ambiti di esercizio del “governo misto” da quello
nazionale (grande problema) a quelli locali (problema di soluzione più facile).
Naturalmente il pensiero corre alle strutture di rete tra le scuole. Ma occorre
dire ([5])
che le recenti iniziative del MIUR hanno notevolmente “ambiguato” il significato
del medesimo costrutto di “rete di scuole”. Una analisi che va approfondita
oltre le incertezze semantiche.
Una occasione di sviluppo di democrazia?
Perché riprendere oggi queste
questioni? All’indomani del referendum e del suo esito è pure necessario
rimarcare la persistenza di problematiche che un quindicennio di lavori della
Conferenza Unificata (lo strumento attuativo che fu creato con il Titolo V
riformato nel 2001, e confermato dall’esito referendario) non ha risolto, non
pervenendo ad un assennato, stabile e produttivo modello di funzionamento. I
problemi son interamente presenti con la supplementare consapevolezza critica
che le modalità adottate non sono state in grado di risolverli. Ma mi permetto
una notazione (personale) aggiuntiva.
La partecipazione referendaria, lo scontro politico che l’ha accompagnata e che
è eufemistico definire “vivace”, le stesse letture degli esiti e della loro
distribuzione sembrano prospettare, per i sostenitori di entrambe le opzioni, e
dunque oggi sia per vinti che per vincitori, una sorta di “rilancio” di
partecipazione democratica. Ovviamente con argomenti e prospettive diverse per
il si perdente e per il no vincente.
In un processo certo più che complesso sembra, almeno per i protagonisti
politici più responsabili che guardano al futuro e non alla immediata
convenienza propria e di parte, che si possa/debba fare leva proprio su quella
partecipazione, per ricostruire un quadro politico nuovo.
Ci fu, nei mesi scorsi una argomentazione dell’opzione NO che mi ha incuriosito:
si diceva in sostanza “non voglio mi tolgano il diritto di eleggere il Senato
..” e congiuntamente “Così finiranno per estendere anche a consiglieri regionali
inquisiti l’immunità parlamentare” (Senato “puro” ma con immunità, e Consigli
regionali corrotti?). Lungi da me riprendere la polemica, ma certo
l’argomentazione dà da pensare. Io non ho visto carri armati e violenze
nell’accompagnare al proprio seggio senatoriale o di consigliere regionale i
diversi eletti. Vi hanno avuto accesso tramite uno strumento fondamentale: il
voto degli elettori… Che si tratti di “senatori integerrimi” (!?) o di
“consiglieri regionali inquisiti” il popolo li ha voluti.
Mi si dirà: le leggi elettorali… Uno sguardo alla storia dimostrerà
abbondantemente che la “legge elettorale” dà forma ai rapporti di forza politici
reali, e solo quando gli schieramenti sono appaiati quantitativamente le diverse
leggi elettorali possono influenzare il risultato. Non che le forme delle leggi
elettorali non siano importanti… ma i rapporti politici reali vanno al di là di
esse ([6]).
Dunque, quale che sia il percorso della riflessione, si torna comunque alla
responsabilità degli elettori. (Personalmente credo che il costrutto del
“cittadino permanentemente ingannato” sia un alibi per il qualunquismo ed il
disimpegno ..) Certo i cittadini esprimono intenzioni diverse quando eleggono un
parlamentare o quando eleggono un consigliere regionale o comunale.
Bene: tutto quanto sopra potrebbe costituire materiale comune per analizzare e
giudicare, per scegliere tra programmi politici diversi sia per i parlamentari
che per i rappresentanti locali: hanno un programma per far funzionare il
“governo misto” del welfare? Una domanda ed un confronto analitico che
potrebbero animare la “partecipazione democratica” e il protagonismo dei
cittadini, ben al di là della scelta binaria di un referendum… Costa un poco di
fatica. Ma è la politica, quando
[1] Si vedano tra gli altri “L’autonomia delle istituzioni scolastiche e l’ornitorinco” (http://www.pavonerisorse.it/buonascuola/autonomia_ornitorinco.htm)
“Le riforme senza popolo. Sempre a proposito di reti di scuole” (http://www.pavonerisorse.it/buonascuola/riforme_senza_popolo.htm)
[2]
N. Bobbio “Stato, Governo, Società”, Einaudi
Editore, Torino 1985
[3] Mi permetto di rinviare al lungo capitolo introduttivo del mio testo: F. De Anna “Valutare i dirigenti della scuola..” Casa editrice Spaggiari, 2005.
[4]
Annotazione attuale, visto l’impegno del MIUR
sulla “accountability”. Il suo esercizio non è
limitato alla “trasparenza e pubblicità” degli
atti (ci mancherebbe!!). Richiede invece
informazione significativa (tra rendere pubblico
un bilancio di un ente e renderlo leggibile ai
cittadini ne corre!!) e volontà di “renderne
conto”. E ciò non perché si temano possibili
class action (di nuovo la deriva giuridica…) ma
perché si amministra
ex parte
populi, non ex parte principis. Mi permetto
autocitazione: F. De Anna “Scuola e
rendicontazione sociale: dal POF al Bilancio
Sociale”, Franco Angeli Editore, Milano, 2005
[5] Vedi articoli citati e F. De Anna “Ambiti territoriali e reti”, Rivista dell’istruzione, n. 3 2016
[6]
Mussolini escogitò la Legge Acerbo per avere
certezza di un sostanzioso premio di maggioranza
nelle elezioni del 1929. E quella legge viene
sempre utilizzata negli scongiuri di chi pensa
che solo e sempre “una testa, un voto” tuteli
dalle dittature. Bene, nelle elezioni del 1929
la lista di Mussolini prese il 64,9% dei voti.
Non avrebbe in teoria avuto bisogno della Legge
Acerbo, comunque non vinse quelle elezioni
“grazie” alla legge elettorale, ma grazie ai
rapporti di forza politici e non che aveva
costruito nel Paese.