(19.01.2015)
Vivo altrove…
(a proposito di Buona Scuola vs LIP)
di Franco De Anna
Guardare l’uomo che guarda, anzi lo sguardo dell’uomo che guarda è sempre un buon esercizio. Bisognerebbe auto prescriverselo come un dovere, come la ginnastica quotidiana che contribuisce a forma e salute. Per molti motivi. Il più importante è quello che nell’atto del guardare lo sguardo di chi guarda affondano le radici dell’umorismo. Il secondo motivo, e di non minore importanza, è quello che nel doppio sguardo, per chi osserva e misura con testa ed occhi (senza protesi digitali), vi è la condizione per evitare o meglio limitare gli errori di parallasse.
Rimuginavo tali pensieri leggendo su queste pagine il confronto tra speranzosi e/o delusi del documento “La buona scuola” e i decisi e/o recisi sostenitori della Legge di Iniziativa Popolare sulla scuola. Tutti reclamanti per sé l’autenticità del pensiero riformatore.
Qualcun altro, per la verità, come l’amico Stefanel, misurandosi con coraggio con concrete proposte/prospettive di innovazione anche radicale di istituti e ordinamenti. Per quanto vale, ribadisco di essere d’accordo fino in fondo con lui, dalla personalizzazione, alla abolizione del valore legale del titolo di studio alle riflessioni sulla filosofia nei licei.
Poi in quel mio rimuginare sono intervenuti accadimenti drammatici come quelli parigini e il richiamo all’umorismo non come diritto, ma come “saggezza cognitiva”, ha richiamato pensieri ben più gravi, sui quali mi permetterò di tornare, visto che anch’essi hanno trovato espressione su queste pagine, con altro intervento a breve.
Stiamo, in questo, sullo sguardo (permanentemente) riformatore alla scuola. Come dico sempre (con Lutero): scuola come ecclesia, semper reformanda...
Il richiamo alla Costituzione.
Per molti rappresenta una sorta di introduzione necessaria, qualificante, anzi,
discriminante delle effettive intenzioni riformatrici e perciò viene
puntigliosamente specificato, in testa ad ogni proposta.
Naturalmente, come si dice, la nostra è la Costituzione più bella del mondo;
dunque richiamare e contemplare la bellezza è sempre esercizio gratificante, e
lo sguardo di chi guarda ne viene compensato. Come sottrarsi a tale fascino?
Ma la nostra Costituzione è tra
le poche al mondo che non collochino in apertura una invocatio dei. Paesi
con cultura e prassi di laicità certamente superiori alla nostra, pure
mantengono tale invocazione nel proprio documento fondamentale.
Quando leggo certi interventi e guardo a certi approcci mi coglie il dubbio che
il richiamo alla Costituzione per alcuni “fondamentalisti” per i quali
basterebbe tale fedeltà per trovare e risolvere la giusta politica, costituisca
una sorta di surrogato/sostituto di quella invocatio dei alla quale i
padri costituzionalisti hanno giustamente rinunciato.
Come quando mi capita di leggere nelle premesse di alcuni POF scolastici, che il
Collegio dei Docenti si richiama all’art.3 della Costituzione e ne fa un
elemento distintivo e discriminante della qualità dell’offerta formativa. In
genere (sono un cattivo valutatore) rispondo provocatorio chiedendo se il
Collegio, nella sua veste istituzionale potrebbe mai scrivere il contrario. E se
è così, quel richiamo inevitabile, quale informazione discriminante e distintiva
mi dà dell’operare di quella scuola?
Esemplare degli equivoci contenuti nelle invocazioni indeterminate è la
concezione, e si suppone la prassi ad essa ispirata, del diritto allo studio.
L’invocatio sorvola
spesso sul fratto che l’affermazione del diritto all’istruzione come
fondamentale diritto di cittadinanza ha una modulazione rigorosa nell’art.34:
l’istruzione inferiore (almeno 8 anni) è gratuita de obbligatoria (e le due
attribuzioni si tengono e motivano reciprocamente); l’accesso all’istruzione
superiore è un diritto generale, ma la sua concreta fruizione è condizionata
economicamente. Per i “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi...” saranno
destinate risorse pubbliche distribuite attraverso meccanismi rigorosi (per
concorso dice la Costituzione più bella del mondo).
I promotori della legge di iniziativa popolare propongono la gratuità non solo
di libri di testo ma anche dei trasporti fino ai 18 anni; non discuto nel
merito. Ma certo la proposta non si può formulare invocando la Costituzione;
anzi quest’ultima dovrebbe essere cambiata, trasferendosi il carico dell’impegno
economico dell’istruzione interamente sulla collettività e dunque, si suppone,
sul prelievo fiscale.
Si dirà: ma i tempi dei costituenti eran pure diversi…ora occorre adeguarsi.
Appunto, occorre saper cambiare anche la costituzione più bella del mondo; che è
esattamente il contrario dell’utilizzarla come surrogato dell’invocatio dei.
Il moralismo un poco austero che
traspare dal linguaggio dei padri costituenti che vorrebbe promuovere e favorire
i “capaci e meritevoli” potrebbe essere considerato inevitabilmente obsoleto e
con esso superati i vincoli di articolazione “economica” della fruizione
concreta del diritto all’istruzione. Se non chè… dati alla mano: la curva di
distribuzione della popolazione scolastica per livello di istruzione e la curva
di distribuzione del reddito dei frequentanti, confrontate, mostrano una
concentrazione di redditi più elevati proprio nell’istruzione superiore (sai che
scoperta!). Il che significa che la pura e semplice gratuità di quest’ultima
significherebbe, almeno in prima battuta, distribuire risorse pubbliche a chi ha
di più. E se consideriamo il carattere del sistema fiscale italiano, la cosa
sarebbe ancora più grave.. Del resto: la contraddizione tra carattere
progressivamente universalistico dei diritti fruiti dalla cittadinanza e
struttura della fiscalità, non è una scoperta dell’oggi: è una delle componenti
strutturali della crisi storica dei sistemi di welfare, anche se qualcuno
continua a pensare (saranno gli stessi che richiamano la Costituzione come
invocatio dei?) che essa sia semplicemente il frutto della congiura
interazionale neoliberista.
L’intera storia della politica scolastica nazionale sta a dimostrare che
ampliare l’obbligo di istruzione semplicemente dilatando l’età di uscita è, ad
essere buoni, una (generosa?) mistificazione. Comunque costellata da fallimenti
antichi e recenti.
Tutti a scuola e una scuola per tutti.
Tra le affermazini costituzionali (per qualcuno
sostitutive dell’invocatio dei…) e la definizione di un livello
ordinamentale classificabile come “istruzione inferiore gratuita e obbligatoria”
passarono 16 anni. Tra l’unificazione della istruzione secondaria inferiore
(1962) e l’adeguamento dei suoi programmi e curricoli, ne passarono altrettanti
(1979).
I padri costituenti certo non erano pedagogisti: ma mi pare chiaro che ciò che
dice l’art. 34 sulla scuola gratuita e obbligatoria per almeno 8 anni, si
riferisca alla esigenza di un livello di istruzione “uguale”, che costituisca
denominatore comune (istruzione inferiore..) di conoscenze, valori e
comportamenti per tutti i cittadini. Come tale garantita dallo Stato. I padri
costituenti non parlano di scuola elementare (o primaria) o di scuola media (o
secondaria di primo grado). Questi riferimenti non sono costituzionali: sono
eredità (più o meno limpide) dell’incrostarsi storico degli ordinamenti, pre
costituzionali.
[1]
Come è noto gli ordinamenti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria
vennero negli anni successivi. E quando intervennero per adeguare la scuola alla
sua ”nuova” (!?) dimensione di massa ed effettiva ed unificante esperienza per
l’universo della nuove generazioni, tali condizioni si erano già compiute in
realtà per effetto proprio della domanda sociale e non della politica
dell’istruzione, che, semmai, tentava di adeguarsi aprendo spazi quantitativi
per portare tutti a scuola (organici, riduzione alunni per classe, edilizia
scolastica sia nuova che riadattata…).
La domanda sociale che si allargava, e il sistema si adeguava
quantitativamente, ma con vischiosità ordinamentali e ritardi di almeno un paio
di generazioni di studenti.
Il travaglio attuale del nostro sistema di istruzione è caratterizzato dalle
successive stratificazioni sia di quei ritardi e inconsapevolezze della politica
scolastica (incapace di costruire una scuola per tutti e che si
accontenta sempre del tutti a scuola…) che dalla sovrapposizione ad esse
dei caratteri della fase storica di decostruzione e ristrutturazione dei saperi,
delle enciclopedie, della riproduzione della cultura e dell’informazione, della
pervasività delle tecnologie dell’informazione.
Non posso non stupirmi cogliendo spesso nello sguardo di chi guarda a tutto ciò
con istanza nominale riformatrice, una sorta di riflesso di nostalgia del
passato. Per i proponenti della legge di iniziativa popolare, il primo passo
sarebbe infatti quello di tornare alla scuola media del 1979, e alla scuola
elementare del 1985. Bei tempi! Vero: fu una stagione di politica scolastica di
buon valore. Ma era già in ritardo (trent’anni) rispetto fenomeni che si
annunciavano e a processi reali in corso. Quanto alla secondaria superiore
articolata in biennio unitario e triennio di indirizzo, se non vado errato la
data di riferimento è il 1970: un famoso convegno a Villa Falconieri animato da
nomi prestigiosi: da Visalberghi a De Bartolomeis, da Lucio Lombardo Radice a
Giovanni Gozzer.
Quel convegno “impostò” un modello di riforma delle superiori (Biennio unitario
e triennio di indirizzo; formazione professionale regionale dopo il biennio;
insegnamenti obbligatori, complementari e opzionali; uscita a 18 anni con
anticipo a 5 anni della primaria….). Per oltre trent’anni attorno a quel modello
la politica dell’istruzione si baloccò, di legislatura in legislatura, attorno a
varianti considerate pregiudiziali: il biennio è davvero unitario? E formazione
professionale e obbligo si distinguono e separano, oppure…; e cominciare a 5
anni non sarà una sfamiliarizzazione precoce? (si, ci fu anche questa opinione
in ballo..). E qui siamo. Mentre il medesimo “paradigma” di istruzione superiore
viene decostruito dalla stessa storia della scienza, della cultura, della
tecnologie, dell’economia….Ma cosa sta guardando l’uomo che guarda?
Capisco che la proposta sia quella di tornare ad allora… Basta che la si chiami
nostalgia, restaurazione, illusione… ma non riforma. Insomma: se la realtà si
ostina a smentirci nelle nostre interpretazioni è sempre colpa della realtà…
Il popolo e la scuola
Vero è che la dinamica sociale accentuata degli anni settanta si è pure riflessa nella scuola. Ha prodotto grande ventata di idee, costumi, atteggiamenti, prospettive…Ma dal punto di vista ordinamentale ci ha lasciato in sostanza due cose, pure importanti: le 150 ore come prospettiva iniziale della problematica dell’educazione degli adulti e della formazione permanente (ma si pensi come quell’innesco, proveniente da “fuori” della cultura scolastica, abbia stentato per anni e stenti ancora oggi ad avere una effettiva traduzione ordinamentale); il secondo prodotto sono gli Organi Collegiali che promuovono e governano la partecipazione sociale alla scuola. In realtà un “compromesso corporativo” che lungo gli anni ha finito per deprimere il significato di quella storica “apertura sociale”. Anche in questo caso la storia della riforma degli organi collegiali è istruttiva, e c’è chi vorrebbe aggiungere ancora qualche “Consiglio”, ma vede come vulnus alla scuola stessa la presenza di voci della società civile.
C’è qualche cosa di antico in tutte queste riforme predicate come “davvero” nuove…
Ma se davvero anche le stagioni di più intensa
dialettica sociale hanno, nella scuola, prodotto poco più di uno strisciante,
meditato e mediato compromesso immobile, occorrerà pure prendere atto che la
“cultura sociale e politica” dell’istruzione è inadeguata e carente nella
cultura stessa del Paese. O meglio: è di carattere nettamente conservativo e/o
rinunciatario. La domanda sociale non esprime innovazione. La spinta sociale
all’istruzione ha bensì forzato i “contenitori tradizionali” dell’ordinamento,
ma non ne ha prodotto di nuovi.
Triste riprova: riusciamo ancora oggi a discutere con apparente serietà sul
ruolo del Liceo Classico. E autorevoli intellettuali (chapeau!!) come Eco o
Canfora lo difendono perché sarebbe scuola capace di produrre spirito critico e
cultura… Oh che? Non sarebbero questi compiti generali ed essenziali di “tutta”
la scuola? Consolarsi che circa il 7% della popolazione scolastica ne usufruisca
lascia trasparire una certo inconsapevole deriva elitaria…Tutti gli altri
seguiranno, come l’intendenza.
Ma se considerassimo che il Liceo Classico ha formato, storicamente, gran parte
della classe dirigente politica e amministrativa, cosa dovremmo dirne, a
proposito del suo ruolo formativo e dei risultati prodotti?
[2]
In altre parole: la cultura
nazionale sulla scuola è di segno conservatore, anche se (o forse per ciò)
ribadisce in continuazione la necessità della riforma. O predica l’istruzione
come campo essenziale di investimento per il futuro. Ricordo umoristicamente che
il 6% del PIL da dedicare all’istruzione si raggiunge facilmente. Posto che vi
sono costi fissi incomprimibili, anche solo per alzare la saracinesca del
sistema (ormai siamo a questo…) basta abbassare il PIL…
L’idea che mettere più risorse nella medesima macchina scassata non sia proprio
un buona politica di investimento è troppo semplice per non far sorgere il
sospetto che chi la predica non abbia, anche in modo latente, qualche interesse
piccolo o grande per mantenere la macchina così come è.
Mi basterebbe questa considerazione per guardare con disincanto una proposta di
Legge di iniziativa Popolare…
L’impegno del passato ci ha consentito di creare una scuola di massa. Ma una
scuola di massa che però lascia come cetacei spiaggiati una percentuale
insopportabile di studenti, potrà mai essere considerata, nella cultura di
massa, un investimento necessario per il futuro? Il dato medio del 17% di
abbandono è insufficiente a capire il fenomeno. Se si guarda ai primi anni
dell’istruzione professionale o a quelli della tecnica, la percentuale arriva al
raddoppio. Gli abbandoni universitari (e il calo di immatricolazioni) parlano da
soli. En passant, posto che il sistema ha costi fissi quale che sia il
numero di utenti, gli abbandoni e le esclusioni, le ripetenze hanno un costo
economico, oltre che sociale.
Certo, la scuola italiana non è “classista” in termini espliciti. Anzi, per qualcuno guai anche solo a citare funzioni selettive.
Ma quando si pensi che, con le migliori intenzioni,
per ovviare al problema si sceglie in sostanza o di abbassare l’asticella, o di
pensare ad “organico aggiuntivo” (vedi LIP) per il recupero, si ha l’immagine di
una sostanziale indisponibilità ad affrontare il problema mirando alle strutture
organizzative, professionali, e all’insieme di disposizioni e classificazioni
che regolano e proteggono il lavoro scolastico. Così come è.
Del pari: affidiamo ad un 18enne la possibilità di decidere con la
partecipazione elettorale chi governa il Paese; ma gli impediamo di scegliere
alcunchè del suo curricolo; e guai a pensare che a 18 anni possa uscire dal
percorso scolastico con la semplice indicazione di cosa abbia fatto e che
risultati abbia raggiunto lungo tale itinerario.
[3]
Quando si ha a che fare con modelli culturali complessi, impermeabili
all’innovazione, la politica assume sempre una “funzione pedagogica”, o lo
dovrebbe. Diventa essenziale la funzione degli intellettuali nella costruzione
di un diverso senso comune; diventa essenziale il lungo e paziente lavoro della
mediazione culturale e politica. Non sarà nè una sequenza di slides
accattivanti, ne il mipiacissmo telematico, né l’ennesimo comitato di ricorrenti
a sostituire quella esigenza di pensiero e mediazione culturale (e meditazione),
sociale e politica.
Il potente paradigma “disintermediante” della rete e della comunicazione
diretta, rispetto a tali condizioni, si trasforma da potenziale strumento di
democrazia a strumento altrettanto potente di riduzionismo manipolativo. Altro
che iniziativa popolare…
Ma sono proprio le funzioni di intermediazione politico culturale che si son
fatte silenti, se non conniventi: l’associazionismo professionale dei docenti,
il sindacalismo, l’editoria di settore, le strutture specifiche dei partiti
politici. Insomma quella che Gramsci chiamava “l’organizzazione della cultura”.
Credo che occorra ripartire da lì e con il coraggio di smentire la
stratificazione di convenienze corporative che convivono giustapposte e a somma
zero, con il risultato di non muovere nulla temendo il peggio. Se a questo si
tende, il peggio accadrà sicuramente.
Le viole non nasceranno da sole, bisognerà continuare ad impegnarsi a coltivare.
[1]
Si pensi al
percorso contraddittorio della scuola elementare per entrare a fare
parte, tardi nella nm storia unitaria, dell’ordinamento statale
Il focus di
quest’ultimo fu, storicamente l’istruzione secondaria, il
Ginnasio-Liceo. E all’inizio della stato unitario fu questo il terreno
elettivo della concorrenza pubblico e privato, con l’impegno alla
deconfessionalizzazione della istruzione secondaria. Gesuiti e Salesiani
erano (allora) concorrenti effettivi per presenza quantitativa.
[2] Ricordo un corso di formazione alla Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione. Avevo di fronte una trentina di dirigenti amministrativi provenienti da tutta la PA: dalla scuola, ai diversi ministeri, dall’archivio di Stato alla Difesa. Ero l’unico ad avere una formazione tecnico scientifica. Assolutamente prevalente quelle giuridica e per tutti il Liceo Classico.
[3] Propongo ai difensori ad oltranza del valore legale del titolo di studio di ricostruire le posizioni su tale tema nelle discussioni alla costituente. I difensori più strenui erano rappresentanti della scuola privata-confessionale che in quello strumento vedeva la sanzione garantita della propria funzione