visitatori
dal 01/09/1998 :
consulta l'indice delle puntate precedenti
IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA
Die Höhle Des Gelben Hundes di Byambasuren Davaa
Il film della regista Byambasuren Davaa mette in scena un universo essenziale, regolato da una separazione netta, addirittura elementare, tra una natura domestica e una selvaggia: la prima fatta di famiglia, tenda, gregge, giochi infantili, legami forti e arcaici con un paesaggio montano inquadrato in una sfolgorante bellezza estiva; la seconda incarnata da cani selvatici, imbastarditi con lupi famelici, ed enormi avvoltoi, pronti a ghermire la preda di turno per trascinarla sulle vette di questo sconfinato paese, la Mongolia, incuneato fra la Russia e la Cina. In mezzo alla cesura resta il piacere di accompagnare la macchina da presa che racconta una storia antica, ascoltata da bambina dalla regista, diventata pagina scritta nel racconto di Ganthuya Lhagva, per assumere la valenza di leggenda popolare attraverso la narrazione di un’anziana, che descrive alla piccola Nansal le vicende di una ragazza in punto di morte, salvata dal sacrificio del suo cane giallo. Seguendo l’antidoto prefigurato dallo sciamano, la morte della bestia avrà l’effetto miracoloso di guarire la giovane e addirittura di produrre esiti ancor più benigni, perché quel cane giallo rinascerà come neonato della ragazza miracolata…
L’apologo del film risiede in questa esile storiella, che offre lo spunto
per mostrare la quotidianità di un’autentica famigliola di pastori nomadi,
la famiglia Batchuluun, che trascorre la sua esistenza in questa regione
sperduta della Mongolia alle prese con occupazioni che scandiscono la
giornata in maniera semplice e naturale, in sintonia con i ritmi della
stagione.
La
bimba domanda: “Papà, perché gli metti la coda sotto la testa?”, il genitore
risponde: “Così rinasce uomo con la treccia e non cane con la coda”.
“Rinasce?”, incalza la piccola, “Tutti muoiono, ma in realtà non muore
nessuno” conclude il padre. Questa metafora iniziale, a cui viene attribuita
l’importante funzione di fare da filo rosso per cucire l’intera storia, se
da un lato rende tributo a una spiritualità in chiave buddista che serpeggia
all’interno della yurta, con gli altarini votivi e i relativi ammennicoli di
offerte di rito, dall’altro ha il pregio di veicolare una concezione della
morte intesa non come punto finale dell’esistenza, bensì come inizio di una
nuova vita, a cui viene concesso ai ranghi inferiori della specie, in
particolare ai cani, di poter raggiungere un gradino più alto: diventare
umani, nonostante il film dimostri come il cane protagonista, Zochor,
chiamato “Macchia” dalla piccola Nansal che l’ha adottato, sia capace di
essere umano o di avere comportamenti simili, ancor prima di schiattare.
Un
pulmino riporta Nansal a casa (ovvero alla tenda sperduta nella steppa) per
le vacanze estive: ha concluso un ciclo scolastico ed è felice di poter
riabbracciare i genitori e i fratelli; non vede l’ora di togliersi la
scomoda divisa scolastica, perché il colletto inamidato è fastidioso e
preferisce indossare una comoda tunica colorata. La bimba è fiera di
mostrare i suoi quaderni da scolara modello al padre: una serie di numeri e
lettere ordinate come una sequenza di aste riempiono pagine e pagine del suo
manoscritto, ma il padre, che è intento a svestirla, sembra più propenso a
scoprire se a scuola ha imparato nuove canzoni da insegnare alla sorellina.
Non lo sapremo, purtroppo, perché la piccola non ci delizierà con la sua
vocina infantile, d’altra parte sarebbe stata costretta al doppiaggio, per
cui meglio così!
Pur studiando in città, Nansal si ritrova completamente a suo agio a casa: gioca con i fratelli a costruire città invisibili, le cui case sono fatte non con i pezzi del lego, bensì con le sagome essiccate dello sterco, che viene usato anche come combustibile, per alimentare un fuoco, dove la madre è intenta a girare il latte per ottenere il formaggio. Essendo già grandicella a lei spettano anche compiti e responsabilità maggiori: viene mandata infatti a raccogliere lo sterco con una gerla a tracolla e un bastone appuntito, però sbaglia sempre la mira quando deve centrare il contenitore che le penzola maldestramente sulla schiena, oppure si sofferma a contemplare il paesaggio, girovagando tra terreni fioriti, persa a scrutare un fiore raccolto o incuriosita da una cavità naturale, dove finge di aspettarsi che esca un lupo, mentre in realtà farà la sua comparsa il trovatello cane Macchia, non giallo come il titolo del film o il colore della fascia della sua tunica che fungerà subito da guinzaglio improvvisato, bensì un cagnolino tutto bianco con un’unica pezza nera sul dorso.
Sarà amore a prima vista: la bambina ha trovato il cane e pertanto le
appartiene, nonostante i genitori contrastino la sua decisione e cerchino di
convincerla a riportarlo indietro. Il padre teme sia un cane selvatico,
cresciuto insieme ai lupi, pertanto ostile al suo mondo; la madre pensa sia
un animale smarrito e quindi sia giusto ritrovarne il legittimo padrone;
Nansal sa soltanto che l’ha trovato lei, in un posto dove non c’erano lupi,
e siccome non ha una mamma, sarà lei a occuparsi d’ora innanzi di lui.
Mentre il padre parte con la motoretta per andare a vendere in città le pellicce delle bestie azzannate dai lupi, Nansal sale in groppa al cavallo per riportare Zochor nella grotta. La piccola ha un solo punto di riferimento per non perdere la bussola e smarrirsi: guardare sempre la cima della montagna e dirigersi verso di essa. Strada facendo saranno molte le distrazioni: una sosta al fiume per rinfrescarsi e sperare che almeno il cagnolino possa riuscire dove non ce l’ha fatta lei, ovvero a morsicarle il palmo della mano; una passeggiata tra i resti di un accampamento abbandonato, un’arrampicata tra i dirupi, intanto si fa sera e un temporale avanza.
Nansal dapprima smarrisce il cagnetto, poi lo ritrova addormentato nel
recinto dell’accampamento fantasma, infine si perde lei, ma per fortuna
raggiunge la tenda dell’anziana, che la nutrirà e la scalderà, raccontandole
come una nenia la storia della ragazza del cane giallo della Mongolia,
mentre le mani della nonnina inviteranno la piccola a far cadere del riso
sopra la cruna di un ago: “Perché ci sono altrettante possibilità che un
chicco resti appoggiato sopra la cruna di un ago, quanto quelle di un uomo
di reincarnarsi in un uomo”. E un chicco prima o poi ci resta a forza di
provare.
|