Direzione didattica di Pavone Canavese

Controcorrente - a cura di Andrea Muni

(07.11.2009)
 

Storie di teorie e di pratiche di insegnamento della storia
Seconda parte: il Novecento fino agli anni '50

Croce e Gentile

È del 1923 la nota riforma Gentile della scuola, sostituita dalla Carta della scuola di Bottai nel 1939, anno in cui i libri degli autori ebrei e antifascisti vengono ritirati dal commercio, valida fino al 1943.
Nel 1929 in tutte le scuole elementari si adotta il testo unico di stato ed è istituito il giuramento obbligatorio per i maestri; nel 1931 ai professori universitari viene imposto il giuramento di fedeltà al fascismo. Solo 13 professori rifiutano il giuramento e perdono la cattedra. Mentre in Italia la situazione è questa, all’Aja nel 1932 si svolge una Conferenza internazionale per l’insegnamento della storia e nel 1933 esce un saggio di Piaget sulla didattica della storia.
è
nel 1945 che viene abolito il libro di testo unico di stato per le scuole elementari.
Si arriva così ai programmi del 1945, alla cui scrittura aveva collaborato il pedagogista statunitense C. W. Washburne e nella cui premessa si indica la volontà prioritaria di superare “l’angusto limite dei nazionalismi”. Nel 1946 il noto referendum popolare proclama la repubblica, abolendo così la monarchia, rappresentata in quel momento da Umberto II di Savoia.
Fino a quel momento in Italia erano stati attivi molti intellettuali, tra cui Gramsci, che muore nel 1937. Tuttavia quegli anni avevano visto il sistema culturale italiano (sia quello che accetta o scende a compromesso col fascismo, sia quello che in vario modo lo rifiuta accettando i rischi di tale scelta), dalle scuole elementari alle università, in particolare per quanto riguarda sia la la teoria della pedagogia e della didattica, da una parte, che per quanto riguarda la teoria della storiografia, dall’altra, due protagonisti in primo piano: Gentile e Croce. Ora, dato che, come è noto, Gentile muore nel 1944 e Croce nel 1952, fino a quegli anni buona parte della cultura italiana aveva dovuto confrontarsi con questi due autori. Croce in particolare, in modo evidente non solo ne La storia come pensiero e come azione del 1938, ma già a partire almeno dal 1912, anno in cui, da una parte, polemizza col Sommario di pedagogia come scienza filosofica di Gentile, dall’altra pubblica i primi saggi che andranno a confluire nel 1915 nella Teoria e storia della storiografia, era entrato in aperto contrasto con il positivismo e il marxismo, in particolare per quanto riguarda le teorie della storia e della storiografia.
Ad esempio nella Teoria e storia della storiografia ridicolizza chi vorrebbe ““ridurre la storia a scienza naturale”, non molto diverso da chi pretenderebbe di “spiegare” tutti i fatti con un “principio unico” […:] “spiegando tutto”, non “spiega” più nulla”” o da chi fa filosofia della storia. Nel 1938 la sua polemica coinvolge anche lo storicismo, in particolare il Die Entsthehung des Historismus di Meinecke del 1936.
Detto questo, va precisato che l’interesse manifestato da Croce per queste problematiche si può già individuare ne La Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte del 1893. Gentile, da parte sua, fin dai primi scritti, come la sua tesi di laurea del 1897, Rosmini e Gioberti, pubblicata nel 1898, passando per La filosofia di Marx del 1899, e in modo evidente almeno a partire da Il concetto scientifico della pedagogia del 1900, si occupa prevalentemente di pedagogia e didattica, polemizzando anche lui con il positivismo e il materialismo.
Di lui qui possiamo ricordare l’invito alla lettura diretta dei classici, il suo rifiuto del manualismo conseguente a una difesa di un processo aperto, critico e libero di apprendimento come pure di insegnamento, in contrapposizione a un astratto metodologismo meccanicistico della didattica come semplice tecnica di psicologia applicata.
Le posizioni pedagogiche e didattiche di Gentile, che non piacevano a Mussolini, il quale infatti le cambiò appena possibile con altre più compatibili con il governo dei gerarchi fascisti, sono state invece riprese da altri, ad esempio da Ugo Spirito, il quale almeno a partire dal 1937 le rielaborò in una forma di problematicismo in cui ogni cosa diventa problema, domanda e in cui tutti i processi di apprendimento e di insegnamento aspirano a superarsi continuamente nei loro passaggi conoscitivi e cognitivi.

 

Gli Anni Quaranta

 

Il ritorno a una storia narrativa

C’è un famoso passo di Erodoto che apre le sue Storie. Probabilmente, è ripensando prima di tutto a quel luogo della storiografia, che negli anni 1945-1946 Lefebvre dice ai suoi studenti, compendiando tutto quello che ha imparato nel suo mestiere di storico a proposito della natura dell’apprendimento storiografico, “la storia deve restare una narrazione. In questo modo è iniziata, è la sua natura tipica, la conserverà sempre”.

Costituzione d’Italia, Consiglio d’Europa e Unesco: qualcosa cambia?

A questo punto arriviamo a un periodo in cui in Italia comincia ad essere presente un tipo di didattica che tiene presente ambiti di ricerca della psicologia diversi da quelli raggruppati nei nomi di idealismo o positivismo. Arriviamo anche al momento in cui in Italia tutte le finalità della scuola e, quindi, anche quelle specifiche della didattica della storia, vengono definite nell’articolo 3 della Costituzione repubblicana del 1948 in questo modo: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
In ogni ordine e grado di scuola, in ogni disciplina, la finalità per Legge di Stato è sempre la stessa: la piena formazione della persona umana, che oggi viene solitamente intesa come formazione di tutti gli aspetti della mente della persona umana, da quello linguistico a quello matematico, da quello storico a quello artistico. In quegli anni viene anche fondato il Consiglio d’Europa. Con la sua fondazione si vorrebbe superare i particolarismi delle singole nazioni in una prospettiva più allargata.
Di fatto, però, mentre prima tutto quello che riguardava la didattica della storia era deciso all’interno dei ministeri dell’istruzione di ciascuno stato e imposto dall’alto in tutto il suo territorio, ora è stato fatto il tentativo di fare la stessa cosa accentrando quei poteri in una commissione internazionale il cui territorio comprende quello di tutti gli stati che prima agivano autonomamente l’uno dall’altro.
Se questa commissione avesse effettivamente i poteri che vorrebbe, il rischio sarebbe quello di un’unica realtà politica, quella europea, che uniforma, omologa e appiattisce il più possibile al suo interno anche l’insegnamento della storia.

L’Unesco nel 1950 organizza a Bruxelles un seminario sul “miglioramento dei manuali di storia”, a cui partecipano rappresentanti di 24 paesi, e nel 1951 ne organizza un altro a Sèvres su “l’insegnamento della storia in vista della comprensione internazionale”, a cui partecipano rappresentanti di 32 paesi.

Gli anni Cinquanta

 Chabod e Momigliano

Nel 1952 Chabod ha scritto: “la “corporeità dell’intuizione” rimane il canone primo dello storico. Com’è evidente, qui nessuna regola metodologica serve più, e i princìpi teorici non hanno più nulla da dire: qui, unico attore è il senso storico, l’istinto, starei per dire il “fiuto” del singolo storico”; e nel 1961 ha aggiunto: “nessun problema storico è mai “chiuso” o “risolto”. Cioè, secondo Chabod, le chiusure sono provvisorie, le risoluzioni avvengono per tappe, in un percorso di ricerca che procede per fiuto (il fiutare come un vedere) che potenzialmente non ha fine.
Similmente, anche Arnaldo Momigliano, da antichista, nella prefazione a un suo libro scriverà: “Io non sono capace, né pretendo, di offrire un sistema chiuso di conoscenze. […] Quel che conta è che i giovani lettori si informino e pensino per conto proprio.”
Entrambi concordano con l’interpretazione per cui l’insegnante non offre “un sistema chiuso di conoscenze”, ma fa in modo che i bambini “si informino e pensino per conto proprio”.
Lo stesso Momigliano intitola il primo capitolo di quello stesso libro Le regole del giuoco nello studio della storia antica, come a dire che lo storico gioca la sua storia, e che per fare storia la prima cosa non si può far altro che entrare nel suo gioco.


La didattica della storia nella nuova Europa, ovvero un’illusione di novità

A partire dal 1953 il Consiglio d’Europa invita gli insegnanti degli stati membri a riflettere insieme sull’ “idea europea dell’insegnamento della storia”. Un anno dopo, il 19 dicembre 1954, viene firmata a Parigi la Convenzione culturale europea, che costituisce il quadro di riferimento di tutte le attività culturali del consiglio. Lì si vuole fare uno spostamento di questo tipo: non più studiare la storia ciascuno solo del proprio paese di appartenenza, ma ognuno studiare anche quella degli altri stati aderenti. Quasi che si possa studiare la storia del territorio italiano senza fa riferimento a tutti i processi di migrazione ed emigrazione, di commercio, di conflitto con altri paesi, dalla preistoria, o semplicemente dalla fondazione dello Stato italiano, ad oggi.
Quasi che, inoltre, il mondo si risolvesse nell’Europa. Già Erodoto, per spiegare una sola guerra, quella dei greci contro i persiani, si occupava di tre continenti: l’Europa, l’Africa e L’Asia, che erano tutto il mondo a lui conosciuto. Ora, nel 1954, alcuni vorrebbero rivendicare come innovativa una didattica della storia a livello europeo.
Dagli anni Sessanta, questo Consiglio Europeo inizia a visionare i manuali di storia per controllare (!) come la storia viene insegnata nei vari paesi europei.
Quasi che dalla lettura di un manuale se ne possa ricavare il modo di utilizzarlo. Ad esempio, io posso benissimo usare in una classe un libro per farlo criticare dai bambini, per far sì che i bambini ci trovino delle contraddizioni interne, degli aspetti non convincenti.
Sarebbe un ottimo esercizio.
E comunque il Consiglio d’Europa, nel far questo, di fatto vuole controllare, dall’alto.
Questo voler controllare non è un voler dominare e imporsi?
Si capisce che, come nell’immediato dopoguerra, lo sforzo del Consiglio è quello di favorire la riconciliazione degli ex avversari della guerra fredda, per convincerli di quanto li dovrebbe unire.
Ma questa operazione di politica internazionale si traduce in un tentativo di impadronirsi della didattica della storia nelle scuole di tutti gli ordini e gradi di tutti i paesi europei, di strumentalizzarla al fine della costruzione di un’identità non più italiana, ma europea. Non sembra che sia cambiata la sostanza di quello che si faceva nel caso della storia con fini patriottici e nazionalistici: la sola differenza è che ora la patria, la nazione, che si vorrebbe costruire, ha un territorio più grande e più diviso al suo interno, per lingue e culture.
La prima conferenza sui manuali scolastici si è svolta nel 1953 a Calw, in Germania, nella Foresta Nera. Lì le delegazioni di ciascun paese hanno controllato i manuali in uso negli altri paesi facendo attenzione agli orientamenti generali dei libri, a quali argomenti erano stati scelti e in che modo erano stati presentati.
Si voleva inseguire un modello di imparzialità. Questo ideale di imparzialità di fatto consiste nel nascondere ogni elemento di divisione tra le nazioni europee, facendo invece emergere il più possibile tutte le informazioni che potrebbero far vedere un’unità al di là delle differenze, o ancor meglio un’unità senza differenze.
A Oslo nel 1954 le conferenze si sono occupate del modo di presentare il medioevo nei manuali; ad Istanbul e Ankara nel 1958 l’età moderna e contemporanea.
Il lavoro del Consiglio d’Europa procede in collaborazione con altre organizzazioni internazionali, tra cui l’UNESCO, l’istituto Geoge Eckert dello Braunschweig, specializzato appunto nello studio dei contenuti e dei metodi dei manuali scolastici di storia ed Euroclio, conferenza permanente europea delle associazioni degli insegnanti di storia.
Forse Nietzsche, quando scriveva contro i nazionalismi in favore dell’Europa, non aveva pensato a un’Europa tale da sommare le particolarità, senza superarle. Per lui il nazionalismo è la prigione di un popolo, è contraria alla libertà di pensiero e di azione, è legata all’ignoranza; per lui l’Europa è la via d’uscita a queste condizioni.
E se l’Europa non toglie i nazionalismi ma li somma?

A partire dagli anni Cinquanta si è sviluppata anche una didattica generale per simulazione.
Questa didattica generale ha trovato teorizzazioni e pratiche inizialmente soprattutto nell’ambito dell’informatica, della matematica e delle lingue, ma successivamente si è estesa anche alla didattica della geografia e della storia fino ad arrivare ai vari Brusa di oggi.

 

Cousinet, ovvero l’illusione dei bisogni

 (…)

Salvemini e Calogero: i pedagogisti sono buoni a nulla, non ascoltiamoli

Nel 1908 Salvemini aveva annotato: “La goffagine, l’improntudine, la leggerezza presuntuosa di molti pedagogisti ha coperto di ridicolo fra noi, e anche altrove, la pedagogia; e poche teorie, come le pedagogiche, hanno dovuto, messe alla prova dei fatti, sottostare alle più umilianti smentite e più clamorose sconfitte […] Il pedagogista è, almeno cinque volte su dieci, un disgraziato che non sa di nulla, e pretende insegnare a tutti come si insegna ogni cosa”.
È più o meno la stessa presa d’atto che ancora oggi continua a fare l’antichista Canfora quando scrive di “oppio pedagogico”. Nel 1952 Salvemini scrive: “la “storia” non la sa nessuno.
Ognuno di noi non ne sa che un piccolo frammento. [Per questo e per altri motivi] non ci dev’essere nessun programma, cioè nessun indice dei fatti da essere ingurgitati. Il programma è il fine educativo da essere raggiunto”. Nel 1956, Calogero scrive: “Come sapere una lingua non significa saper ripetere a memoria tutto ciò che in quella lingua è stato detto ma saper capire tutto ciò che in quella lingua può essere detto, e come conoscere l’aritmetica non è ricordare tutte le addizioni che sono state fatte nel passato ma saper fare le addizioni che possono occorrerci nel futuro, così anche aver usufruito dell’insegnamento della storia significa aver capito quello che fanno gli storici e avere acquistato in qualche misura le loro capacità, e non già ricordare fino all’esame, come pappagalli temporanei, certi risultati del loro lavoro. […] Finché non ci si metterà in testa che uno può sapere a memoria i tre volumi di un manuale liceale di storia d’Italia ed essere, quanto a capacità d’intendere la vita storica degli uomini, un perfetto imbecille, e un altro può invece avere acquisito in alto grado questa capacità d’intendere avendo studiato a fondo magari un solo cinquantennio della storia di un solo paese, qualunque esso sia, purché sia ricco di documenti e di problemi, non si farà fare un passo innanzi alla soluzione di queste difficoltà.”

Attisani: un dialogo senza dialogo

Sempre nel 1956 esce un volume sulla manualistica scolastica di storia rapportata alle relazioni fra nazioni, che si inserisce nel contesto della commissione europea di cui abbiao parlato; come pure Storia ed educazione di Adelchi Attisani, preceduto di qualche anno dal suo breve saggio del 1954 Storiografia ed educazione storica.
Libro molto rappresentativo del suo contesto storico. Nessun riferimento a Piaget o, più in generale, a problemi di psicologia, pedagogia, didattica se si esclude qualche rapido, sbrigativo cenno a Dewey o a Lombardo Radice. Non c’è da sorprendersi: quel libro è del 1956 e in quel periodo chi scriveva di didattica della storia non si sentiva in dovere di confrontarsi più di tanto con qualche psicologo, pedagogista o didatta di moda all’estero.
Di fatto si sentiva, invece, in dovere di fare largo riferimento alle pubblicazioni di teoria e storia della storiografia o di metodologia della ricerca storica, tutt’al più di filosofia della storia.
Doveva cioè confrontarsi con storiografi e filosofi. L’impostazione di Attisani è evidente già a partire dalla frase di apertura del libro, che è una citazione da Croce.
In quel libro Attisani fa largo riferimento, oltre a Croce, ad autori come (ne elenco alcuni in ordine di comparsa) Ranke, Bloch, Dilthey, Huizinga, Humboldt, Nietzsche, Droysen, Burchardt, Vico, perfino lo Stefanini, uno Stefanini che, va ricordato, fa sue le teorie delle “gerarchie degli interessi” e dei “centri di interesse” che abbiamo già visto in Cousinet.
Attisani però polemizza con quelle teorie che crederebbero all’esistenza di centri di interesse “biologicamente preformati”, perché qualunque centro di interesse è “non determinabile e regolabile in anticipo in base a leggi scientifiche”. Mi sembra anche interessante riportare una considerazione che fa in riferimento a un’affermazione di Lavisse: “Il professore di storia troppo spesso fa della lezione un monologo, parlando a memorie che registrano e a spiriti che restano passivi”.
Ma veramente l’inconveniente non sta tanto nella forma esterna del monologo, potendo benissimo l’apparente monologo essere intrinsecamente un dialogo tra maestro e scolaro e persino dello scolaro con sé stesso, quanto nella sostanza dell’apprendimento della storia ridotto a inerte immagazzinamento nella memoria di notizie e notizie (avvenimenti, date, cause e via dicendo), che non interessano, perché non lo riguardano direttamente, il discente […].” Oggi potremmo chiederci di nuovo: perché gli avvenimenti non interessano? Qual è veramente la differenza tra monologo e dialogo? In che modo il dialogo è dialogo? Come si può mettere la mente di ciascun bambino in dialogo? Da dove può venire l’interesse di ciascun bambino?


Programmi Ermini: difendere la società cattolica dal comunismo

Nel 1955 escono i nuovi programmi della scuola, i programmi Ermini –programmi di ispirazione cattolica il cui uno degli intenti di fondo è difendersi dal comunismo-. Il ministro dell’istruzione impone agli insegnanti di storia delle scuole elementari questi programmi, che propongono “la caratterizzazione di grandi figure dell’umanità e di movimenti rappresentativi di un’epoca […] dando particolare sviluppo alle vicende più salienti del Risorgimento nazionale”, con lo scopo principale di “far conoscere e amare la Patria” e, secondariamente, “far nascere sentimenti di fraternità per i popoli che costituiscono la grande famiglia umana”.
Programmi in cui la dottrina cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione per fanciulli tutti “intuizione, fantasia, sentimento”.

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