Direzione didattica di Pavone Canavese

Controcorrente - a cura di Andrea Muni

(29.05.2009)

 

Che ne è della storia nelle scuole. John Dewey (*)

Nel 1899 Dewey pubblica a Chicago Scuola e società (The School and Society, The University of Chicago Press, Chicago 1899; tr. it. di Ernesto Codignola, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze 1949), che, come aveva notato già Codignola, vorrebbe essere una polemica antitradizionalista, tale da “dimostrare l’inadeguatezza dei metodi d’insegnamento tradizionali”, ma spesso “si aggira in un vano regno di illusioni, quando pretende suggerire un curricolo” (Prefazione a Dewey, John, Scuola e società, cit., p. XV) o una didattica laboratoriale di un certo tipo, quando invece “l’esperienza umana è infinitamente più complessa e più ricca dei laboratori e delle officine sperimentali” (Ivi, p. XVII), e in questo modo “non riesce sempre a sottrarsi alle suggestioni e alle angustie dei tradizionali procedimenti e schemi dell’empirismo anglosassone, […] né lo direi del tutto immune dal psicologismo e dal sociologismo, che imperversano specialmente nella cultura americana” (Ivi, p. XVIII).
Dewey intitola l’ottavo e ultimo capitolo di quel suo libro La funzione della storia nell’istruzione elementare. Lì annota: “Lo studio della storia non consiste in un ammasso d informazioni, ma nell’uso delle informazioni per costruire un quadro vivo di come e perché gli uomini hanno agito in un modo o nell’altro, e conseguito successi e fallimenti” (p. 117).
E ancora: “Il problema di come vivono gli esseri umani costituisce, invero, l’interesse dominante col quale il bambino affronta lo studio della storia” (p. 116), senza accorgersi che quel problema con tutta probabilità non è del bambino, ma suo, di Dewey, che lo proietta in un immaginario, ipotetico bambino che è una sua invenzione, fantasia, illusione, un suo desiderio. Dewey scrive: “Il bambino, che ha interesse a sapere come vivevano gli uomini, gli attrezzi che usavano, le nuove invenzioni che fecero, e che è interessato a conoscere quali trasformazioni abbia operato sulla vita e quali agi abbia consentito la scoperta di nuove energie, è anche desideroso di ripetere processi simili, di ricostruire gli utensili, di riprodurre i procedimenti, di riadoperare i materiali” (Ib.).
Il bambino, secondo Dewey, avrebbe questo interesse già bello e pronto. Non si pone il problema di come far nascere nel bambino un interesse: il bambino, già di suo dovrebbe essere interessato. “Poiché egli [il bambino] comprende i loro problemi [degli uomini della storia] e i loro successi solo vedendo gli ostacoli e le risorse offerti dalla natura, il bambino si interessa dei campi e delle foreste, degli oceani e delle montagne, delle piante e degli animali. Facendosi un concetto dell’ambiente naturale in cui vivevano i popoli che sta studiando, egli si impadronisce delle loro vite” (Ib.).
È un pensiero epistemico, tecnico, violento. “Si impadronisce delle loro vite”. Sarà un’espressione metaforica quanto si vuole, ma il verbo “impadronire” non è usato a caso. Codignola aveva tradotto “riesce ad afferrare le loro esistenze”, ma anche il verbo “afferrare” indica un certo attegiamento infantile di pensiero (prendo-è mio). Quello che però voglio evidenziare è che secondo Dewey il bambino “comprende i loro problemi”, “si interessa”. Dewey non problematizza quel “comprendere i problemi”, quell’ “interessarsi”. Non si chiede come ciascun bambino possa interessarsi di concreti problemi storici, come possa interessarsi della storia in un modo soddisfacente che non sia una semplice, generica, vaga curiosità indifferenziata verso tutto. A legger lui, sembrerebbe che l’interesse sia innato, come pure la capacità di comprendere. “I bambini di otto anni […] si interessano dei grandi movimenti di migrazione, delle esplorazioni e delle scoperte che hanno portato tutto il mondo nell’ambito della conoscenza umana” (p. 119).
Dewey pensava questo. Dewey, contrario al “semplice assorbimento di nozioni e verità”, al “confronto di risultati nelle interrogazioni e negli esami”(p. 20), a “un atteggiamento di passività e di assorbimento” in cui un bambino “deve assimilare, quanto più può e nel minor tempo possibile, certi argomenti prefabbricati, che sono stati elaborati dal preside, dal consiglio scolastico e dall’insegnante” (p. 32), in realtà non teorizza una didattica problematica, non problematizza l’azione didattica.

(*) questo saggio sull'insegnamento della storia comprende 4 capitoli dedicati rispettivamente a: Dewey, Cousinet, Ciari e Petter

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