(05.02.02)
I FIGLI
DELLA DISPERAZIONE
Economia, scuola e scelte di pace
nella crisi medio orientale
di Aluisi Tosolini
Introduzione
Israele in ginocchio
Palestinesi alla fame
Una via duscita?
"Non sparo più"
A Est del Mediterraneo. Scambiare con la Palestina
Certo, molto si è discusso e si discuterà ancora sul tipo di legame esistente tra povertà, mancanza di diritti, e propensione alluso della violenza terrorista. Cè chi sostiene che la relazione sia diretta, secondo la logica causa effetto (personalmente non credo a un simile modello lineare), e chi invece ritiene che una situazione "invivibile" crei il contesto in cui la disperazione e lassenza di sbocchi diversi renda meno difficile aderire a forme violente, persino suicide, di reazione. Ammettere ciò, sia chiaro, non significa giustificare in alcun modo la violenza: né quella palestinese né quella dellesercito israeliano, attori entrambi di una tragica spirale di cui non si vede la fine.
Nella situazione israelo-palestinese molti sono i motivi che possono indurre un palestinese alla disperazione. Non è certo qui il caso di ripercorrere la storia del conflitto mediorientale e nemmeno di buttare un occhio alla carta geografica dellautorità palestinese per chiedersi come sia possibile vivere in una realtà costruita a macchia di leopardo con confini che attraversano i territori in un groviglio inestricabile.
Vorrei invece, utilizzando uno studio pubblicato sul "Il Sole 24 ore" di lunedì 28 gennaio, guardare al conflitto da un altro punto di vista, quello economico. Può sembrare brutale ma è ovvio che i costi dellIntifada sono altissimi anche per leconomica. E ciò sia per Israele che per i palestinesi.
E la crisi economica che deriva dal nuovo conflitto non può far altro che esacerbare ulteriormente gli animi e rafforzare quanti, di fronte al nulla, scelgono la violenza.
Proviamo a riassumere qualche dato riprendendoli dallo studio di Giorgio S. Frankel.
Israele è un piccolo paese (sei milioni di abitanti per 120 miliardi di euro di Pil) la cui economia è pienamente inserita nel processo di globalizzazione e pertanto la sua prosperità dipende dallintegrazione nei mercati globali, dal turismo e dagli investimenti esteri. Tutto ciò, come è ovvio, è assolutamente inconciliabile con una situazione di guerra totale. Chi infatti potrebbe essere oggi invogliato ad investire o anche solo a visitare Israele sapendo che il rischio che tutto salti per aria coinvolgendo i propri affari o la propria vita è molto alto? Per non dire dei rischi di sanzioni economiche che qualche paese (in primis lUnione Europea) potrebbe prima o poi decidere.La guerra poi ha costi altissimi. Nel 2001 il Prodotto interno lordo di Israele è sceso dello 0,5% (mentre nel 2000 era cresciuto di oltre il 6% grazie ad un fortissimo aumento delle esportazioni - + 24%). La guerra ha un costo diretto equivalente al 2,5% del Pil. Nel 2001 il settore generale dellalta tecnologia (une di più importanti per leconomia israeliana) il fatturato è sceso dell8% mentre è ben del 20% nel settore specifico dellelettronica. Nel 2001 si attendevano 3 milioni di turisti (e ben 4 milioni nel 2002) ma ne sono arrivati solo un milione e 200mila e non si può certo dire che la causa sia solo della crisi successiva all11 settembre. Rispetto al 2000 il calo è stato del 54%. Il che significa che per i 200.000 addetti la disoccupazione è ben più di uno spettro.
Sul versante sociale i dati sono altrettanto sconfortanti: un israeliano su sei vive sotto la soglia di povertà, il 25% dei minori (un bambino su quattro) vive in famiglie povere, tra gli arabi di cittadinanza israeliana (il 20/ della popolazione) la povertà dei minori raggiunge il 50%, il divario tra il reddito dei ricchi e quello dei poveri si allarga sempre di più. A fronte di tutto ciò il governo israeliano continua a privilegiare, sul versante economico, gli insediamenti ebraici sui territori palestinesi, una delle cause del conflitto. Negli insediamenti vivono solo 200.000 cittadini israeliani ma ad essi vanno enormi risorse. Chi ne fa le spese è la zona del Negev (un tempo considerata la nuova frontiera ed oggi sostanzialmente abbandonata dal governo) assieme agli arabi israeliani ed agli ebrei immigrati dalla Russia, dallEtiopia e da altre zone dellAfrica che vedono ogni giorno di più peggiorare la loro situazione economica.
Come non concordare, allora, con la dichiarazione di Yossi Sarid, leader del partito Meeretz: "Gli squilibri sociali minacciano Israele più di Hezbollah, Hamas e la Jihad islamica messi insieme". Detto in altro modo: non è che la guerra nei confronti dei palestinesi serva anche a nascondere la crisi sociale interna ad Israele spostando su un nemico esterno una contraddizione tutta interna?
Palestinesi alla fame Peggiore, molto peggiore, la situazione economica della Palestina. Tre milioni e mezzo di abitanti (per un Pil di 3,5 miliardi di euro: 1/34 di quello israeliano). Dopo 16 mesi di intifada leconomia palestinese funziona al 30% delle sue possibilità e le perdite causate dal conflitto ammontano a circa 4,5 miliardi di euro. Un palestinese su tre vive sotto la soglia di povertà e la disoccupazione è salita al 53%. Limport-export è a livelli bassissimi. I 130.000 palestinesi che lavoravano in Israele non possono più lavorare. La guerra ha causato gravissimi danni alle infrastrutture. Lesercito israeliano ha infatti distrutto strade, opere pubbliche (opere idriche, linee telefoniche ed elettriche), costruzioni amministrative (sedi di polizia, carceri, ), centinaia di abitazioni private, uliveti e agrumeti per un totale di 500 mila alberi, il porto e laeroporto di Gaza. Che cosa centri tutto questo con la guerra al terrorismo Israele non lha mai spiegato: forse perché non centra proprio nulla ma è solo frutto di un assurdo e cieco cupio dissolvi.Ultimo dato: il 7,2% dei bambini palestinesi con età inferiore ai 5 anni ha subito un arresto della crescita, il 2,8% è in deperimento mentre il 4% è sottopeso.
I dati forniti dal Sole 24 Ore non necessitano di commento. La spirale della violenza sta conducendo due interi popoli verso il baratro.Esistono vie di uscita? Certamente vie duscita esistono. La domanda da fare è però unaltra: cè la volontà di imboccarle? I dati che abbiamo riportati mostrano come, volenti o nolenti, israeliani e palestinesi sono "fatti fratelli" dal terribile rischio di implodere assieme. Che terribile situazione: non riuscire a vivere assieme e per questo scegliere di morire assieme!!
Non aggiungo altre parole se non quelle firmate da centinaia di ufficiali e soldati riservisti di Israele che hanno comunicato al governo Sharon che dora innanzi si rifiuteranno di obbedire a ordini che comportino azioni violente nei territori palestinesi. Uomini e donne coraggiosi. Come i pacifisti israeliani che il 2 febbraio 2002 hanno manifestato sotto la casa dove Arafat è da oltre un mese "prigioniero" a Ramallah. E questa volta i lacrimogeni dellesercito israeliano hanno colpito cittadini israeliani.
La possibilità di soluzione del conflitto in medio oriente passa ancora una volta tra le deboli mani di israeliani e palestinesi che si rifiutano di uccidere. Tra mani di uomini e donne che sanno che non ci sarà mai pace senza riconciliazione, senza un condiviso "punto e a capo" che spezzi la spirale dellodio, che spenga la fiamma che alimenta lodio. Che ponga fine alla disperazione. Perché non è sulla disperazione che si potrà costruire la pace ma solo sulla speranza.
"Non sparo più" La dichiarazione dei 53 militari israeliani che rifiutano di combattere per Sharon e per le colonieNoi, ufficiali e soldati combattenti di riserva di Tzahal, che siamo stati educati nel grembo del sionismo e del sacrificio per lo stato di Israele, che abbiamo sempre servito in prima linea, che siamo stati i primi, per ogni compito, facile o difficile che fosse, a difendere lo Stato di Israele e a rafforzarlo. Noi, ufficiali e soldati combattenti che serviamo lo Stato di Israele durante lunghe settimane ogni anno, nonostante l'alto prezzo personale che abbiamo pagato.Noi che siamo stati in servizio di riserva in tutti i territori e che abbiamo ricevuto ordini e istruzioni che non hanno niente a che fare con la sicurezza dello Stato, e il cui unico obiettivo la dominazione sul popolo palestinese.Noi che con i nostri occhi abbiamo visto il prezzo di sangue che l'occupazione impone su entrambe le parti di questa divisione.Noi che abbiamo sentito come gli ordini che ricevevamo stavano distruggendo tutti i valori di questo paese. Noi che abbiamo capito che il prezzo dell'occupazione la perdita dell'immagine umana di Tzahal e la corruzione dell'intera società israeliana.Noi che sappiamo che i territori occupati non sono Israele, e che tutte le colonie sono destinate ad essere rimosse...Noi dichiariamo che non continueremo a combattere in questa guerra per la pace delle colonie, che non continueremo a combattere oltre la linea verde per dominare, espellere, affamare e umiliare un intero popolo.Noi dichiariamo che continueremo a servire Tzahal in qualsiasi obiettivo che serva la difesa dello Stato di Israele. L'occupazione e la repressione non hanno questo obiettivo. E noi non vi parteciperemo.
(Seguono le firme dei militari)
A est del Mediterraneo. Guida per scambiare con la Palestina
Chiudo questa riflessione invitando a leggere ed utilizzare in ambito scolastico il volume "A est del Mediterraneo. Guida per scambiare con la Palestina". Il volume - il primo della collana I quaderni di Pianeta Possibile - raccoglie il materiale di lavoro frutto dell'esperienza di scambio tra cinque scuole piemontesi e cinque scuole palestinesi della zona di Ramallah.