(06.09.2009)
Un triste
avvio: in cosa abbiamo sbagliato ?
di Reginaldo Palermo
Ho letto con il consueto interesse
l’intervento di Giancarlo Cavinato e vorrei
fare una modesta riflessione sul passaggio in cui Giancarlo afferma che non
sarebbe male ricordare a tutti che “il ritorno ai voti ha stravolto il clima
relazionale e la didattica nelle scuole”.
Ciò che egli dice è vero e lo si vive forse più nella secondaria di primo grado
che nella primaria.
Ma forse dovremmo anche chiedercene la ragione, altrimenti sembra che tutte le
responsabilità vadano sempre ricercate altrove e non in noi stessi.
L’amico Giancarlo ed io abbiamo iniziato
ad insegnare negli anni settanta quando il voto numerico era d’obbligo, eccome.
Eppure lui, io e molti altri non lo abbiamo mai usato e se siamo stati costretti
ad usarlo per scriverlo sulla pagella abbiamo fatto ricorso a tutte le strategie
possibili per renderlo di fatto ininfluente.
Usavamo il voto unico accompagnandolo con strumenti di ogni genere (anche per
non essere accusati di volerci evitare la compilazione di pagelle e registri, al
solo scopo di lavorare di meno), oltretutto senza la benché minima “copertura”
né sindacale né politica; e non c’era, in quegli anni, un solo mezzo di
informazione che desse spazio e “visibilità” (come oggi si usa dire) alle nostre
iniziative; ciononostante Giancarlo, io e tanti altri continuavamo a lavorare
ispirandoci ai valori della ricerca pedagogica e della cooperazione
educativa.
Adesso scopriamo che basta che una circolare inviti i docenti a usare il voto
nella pratica quotidiana per modificare, anzi stravolgere il clima relazionale
delle classi.
Non ho una spiegazione da dare a quanto sta accadendo, ma posso provare a buttare lì qualche domanda.
Per esempio: non è che, forse, dalla
Moratti in avanti molti docenti hanno preso il “vizio” di protestare, ma a
condizione di avere adeguate coperture sindacali ?
Non può essere che il non dare il voto
sia stato per molti docenti un comportamento ispirato al conformismo anziché a
radicate convinzioni culturali e pedagogiche (mentre in cuor loro sognavano di
appioppare 6 in condotta agli alunni irrequieti e 4 di italiano a chi faceva 6
errori nel dettato) ?
Non può essere che in questi ultimi anni le stesse associazioni dei docenti
hanno pensato un po’ troppo in chiave ideologica e molto di meno in chiave
professionale ?
Non è che, forse, il processo di sindacalizzazione della scuola – doveroso e
benefico per molti aspetti – ha abituato i docenti a ragionare più in termini
sindacali che in modo professionale ?
E ancora: non può darsi che il dibattito sulla questione del codice deontologico
dei docenti sia, nel nostro Paese, ancora troppo indietro ?
Infine: e se questa deriva conservatrice fosse da leggere anche come
“reazione” alle storture che da sempre accompagnano i processi di innovazione ?
Mi spiego meglio: la regola donmilaniana del “primo: non bocciare” è stata
spesso interpretata in senso assolutamente letterale e si è trasformata nella
regola “todos Caballeros, dalla prima elementare all’esame di Stato” (e penso
che Giancarlo converrà con me che non era questo che intendeva il Priore di
Barbiana il quale, anzi, non esitava, in alcune circostanze, ad usare qualche sonoro
scapaccione).
Insomma, siamo proprio così sicuri che
il pensiero di Don Milani, di Mario Lodi, di Albino Bernardini, di Bruno Ciari e
di tanti altri come loro sia stato interpretato sempre in modo corretto ?
Non può darsi che dietro la facciata della “scuola democratica” si siano
nascosti in questi anni tanti, troppi insegnanti che in realtà erano interessati
più a coltivare il proprio orticello, a non “avere grane” , a “non esporsi” che
non a mettersi in discussione cooperando con gli altri ?
Giancarlo ricorderà certamente un mitico volumetto curato negli anni ’70 dal MCE
sul tema della “pratica antifascista a scuola”: si diceva che fare antifascismo
a scuola non doveva significare semplicemente parlare del 25 aprile ma voleva
dire creare nella classe un reale clima di collaborazione, di cooperazione e di
accettazione reciproca.
Ecco, forse, in questi ultimi anni si è dimenticato che difendere la scuola
pubblica non vuol dire soltanto scendere in piazza una volta ogni x mesi
scandendo lo slogan del momento o obbedendo agli ordini di scuderia provenienti
dalle segreterie sindacali o di partito.
Forse, difendere la scuola pubblica (e, tutto sommato, anche la dignità
professionale di chi ci lavora) vuol dire anche fare ricerca, studiare,
approfondire e magari anche accettare di confrontarsi con ipotesi di soluzione
che non ci piacciono ma che non possono essere semplicemente demonizzate solo
perché arrivano da una “parrocchia” che non è la nostra.