Direzione didattica di Pavone Canavese

Verso il federalismo scolastico


06.09.2010

Quale federalismo pedagogico ?
di Giancarlo Cavinato

Premessa: viviamo sotto un ministro la cui azione è accentratrice e tendenzialmente annulla tutte le differenze e le diversità senza alcuna considerazione per le condizioni di contesto: voti, grembiulini, tagli indiscriminati, fino all’ultima ‘trovata’ della bocciatura con 51 giorni di assenza sono lì a dimostrarcelo quotidianamente.
Salvo cedere continuamente a pressioni politiche amiche: Padova ha avuto ‘più’ tempo scuola, così da trasformare i ntempi pieni i precedenti tempi lunghi, perché l’assessore regionale è dello stesso schieramento, Venezia ne avrà di meno perché governata dagli ‘avversari’.
Quindi, uno strano federalismo è quello che si profila in ambito scolastico. Un federalismo intessuto di ascolto delle richieste di assessori e politici e di chiusura totale al dialogo con il mondo della scuola e con le esigenze formative dell’oggi.
Un federalismo siffatto non riequilibra a favore degli svantaggi, delle deprivazioni, non tende a creare la rimozione degli ostacoli per il pieno sviluppo di ognuno raccomandata dalla Costituzione.
Tende, anzi, a realizzare un malthusianesimo sociale e a rinfocolare rancori e separatezze, non ad unire solidarmente.
Risponde in parte a una forte richiesta che via via è venuta crescendo di tempo pieno e di servizi educativi per l’infanzia: non in base alla considerazione di bisogni di crescita culturale e di soddisfazione di diritti al gioco, all’espressione, alla socialità, all’apprendimento della convivenza, ma in base a una forte competizione e alla ricerca di soddisfare necessità indotte dal consumismo (certo anche a una rinnovata esigenza di dignità della donna e di suo accesso al mondo del lavoro, ma non solo).
Si potrebbe obiettare che anche la politica scolastica democristiana è consistita nel distribuire a macchia di leopardo servizi organici e tempi lunghi: che la scelta era di intervenire dove più forte era la protesta, la mobilitazione, l’impegno e la progettualità docente; che compito formativo di un ministero della pubblica istruzione sarebbe stato comunque di diffondere la nuova cultura sull’infanzia e di stimolare una domanda e una consapevolezza laddove gli squilibri storici erano più forti e radicanti storicamente. Così non è stato.

Ma anche oggi, fra annunci mediatici e smantellamenti, si accontentano i pochi e si diseducano i molti. Con la strategia della rana da lessare: gradualmente si annuncia, si discredita all’opinione pubblica il servizio educativo statale, si proclamano grandi riforme, si tolgono via via pezzi di tutela di diritti acquisiti ( l’integrazione, gli stranieri, i laboratori e i recuperi, la numerosità delle classi, l’assistenza e le pulizie,...). Perché la rana si lessi, va messa in acqua tiepida che gradualmente viene riscaldata fino a che la rana al tepore si addormenta. Dopodichè, viene lessata. Se invece fosse gettata di colpo nell’acqua bollente, salterebbe via. Questa è la strategia internazionale che i grandi organismi internazionali ( WTO, FMI, banca mondiale) hanno definito per la politica del XXI secolo neoliberista di sottrazione progressiva dei benefici del welfare e di privatizzazione dei servizi educativi, sanitari, socio-assistenziali.
In tale contesto internazionale, il federalismo nostrano in salsa padana che si inizia a intravedere risulterebbe un goffo tentativo di imitare autonomie e nazioni emerse all’indipendenza e all’autogestione in ben altre situazioni nazionali e mondiali, se non si traducesse nei luoghi nell’ accentuazione di rancori e spinta a divisioni anziché in  livellamento delle differenze.

Accade così che in un comune della provincia di Venezia i genitori di un piccolo plesso che da anni pagano una cooperativa per avere un terzo pomeriggio di rientro, a fronte dell’istituzione nel plesso capoluogo di una classe prima a tempo pieno occupino l’aula consiliare ( di un’amministrazione di centro destra che ha ottenuto il ‘favore’ in un territorio che mai aveva prima chiesto e ottenuto il tempo pieno- ma l’aumento della richiesta è un effetto Gelmini) protestando perché loro pagano e gli altri ottengono GRATIS il secondo docente ‘con i soldi delle nostre tasse’.

E in un altro comune della provincia di Treviso ad amministrazione leghista succede che ‘per ovviare ai tagli indiscriminati del ministro Gelmini’ ( così si legge nel bollettino comunale inviato a tutte le famiglie per bocca del sindaco; peccato che il ministro appartenga al suo schieramento, ma tant’é) si istituiscano i ‘nonni sorveglianti’ così da liberare gli insegnanti dalla assistenza durante la mensa e il tempo di gioco e relax del dopomensa recuperando le ore per il terzo pomeriggio il cui venir meno aveva gettato le famiglie nel caos. Oppure nel circolo vicino il comune stanzi consistenti fondi per retribuire operatori che coprono il tempo del terzo pomeriggio con ‘laboratori’ scientifici, espressivi, lezioni per casa, gioco (con pagamento da parte delle famiglie comunque di un euro l’ora).

Ma l’ineffabile sindaco di Adro nel frattempo tuona che quest’anno si garantirà la mensa- con piatti padani inclusa carne di maiale per cristiani e musulmani- solo a chi pagherà regolarmente.
Se  il federalismo pedagogico è questo, ne vedremo delle belle . Quello che ottiene per la scuola paritaria della Bosina istituita dalla moglie di Bossi 800.000 € in due anni  di finanziamento pubblico ‘lavori di ristrutturazione’ e dove si  insegnano la ‘pedagogia padana’ e le radici identitarie (cfr. ‘Repubblica’ 5/09). Cosa potevamo aspettarci?
Io ritengo che, sia che amministri il centro destra che il centro sinistra, sia totalmente indebito e contrario ai principi della Costituzione che sia l’Ente locale, per sua natura teso ad ascoltare umori e particolarismi, ad assecondare spinte spesso a scapito di altre istanze (anche con le migliori intenzioni) a regolare i rapporti fra bisogni formativi, utenza scolastica, erogazione di servizi. L’Ente locale può utilmente svolgere una funzione di promozione, di arricchimento, di integrazione e stimolo di percorsi educativi ( ne abbiamo avuto fior di esempi da Bologna a Torino a Venezia) ma non stabilire quote di tempo pieno, sostituire personale a quello statale, raccattare forme di volontariato (con quale garanzia di continuità nel tempo? I nonni invecchiano e non sempre sono ricambiabili), far pagare ai cittadini servizi sostitutivi di improbabile raccordo e coerenza pedagogica con quelli del mattino. Salvo alcune nobili esperienze di scuola integrata e di ricreatori comunali, in cui il personale era comunque formato e coordinato da appositi pedagogisti a ciò addetti, il ricordo va ai vecchi doposcuola e alla miriade di proposte di scuole, scuolette, scuoline di ballo, karaté, inglese, ecc. Io ravviso qualcosa di distorto quando l’Ente locale ‘rabbonisce’ i suoi cittadini promettendo interventi sostitutivi e compensativi di tagli e buchi prodotti a livello centrale.

Il fatto che le proposte di ampliamento del tempo scuola siano, in quanto ‘servizi alla persona’, in parte a pagamento delle famiglie, rende tali attività discriminatorie e puramente opzionali, non coinvolgendo in un progetto educativo pensato e sensato l’intera classe, ma offrendo dei riempitivi.
L’Ente locale, il comune, il più vicino alle scuole, può avere un ruolo di ‘riconoscitore sociale’ assieme alle famiglie e alle associazioni professionali e di volontariato, in un percorso virtuoso che conduca, in un dialogo aperto con le istituzioni scolastiche, a forme di progettualità pedagogica che aiuti le scuole superare separatezze, frammentarietà, che orienti verso un’identità di istituto, nella condivisione di valori e di sensibilizzazione di tutti gli utenti al bene comune e all’etica pubblica.
E’ un lavoro paziente di co-costruzione, quello che si rende necessario, nella direzione di un ‘patto formativo scuola-famiglie- territorio’.

La scuola è un contesto delicato, mal si presta a manovre, rappezzamenti, surrogati. Il suo percorso federalista è già nell’autonomia pedagogica, organizzativa, di ricerca, amministrativa. L’autonomia non è passare da un regime centralistico e gerarchico nazionale a un regime policentralistico (direzione regionale, regione, comune, ex-provveditorato,…); una miriade di mini-ministri i cui interventi si sovrappongono, a volte si elidono reciprocamente, creano continua instabilità e confusione (non si sa mai veramente a quali risorse si può accendere, bisogna attendere e attendere risposte e finanziamenti,..); creano, soprattutto, e il sospetto è che si voglia proprio ottenere questo effetto, dipendenza e subordinazione.

 Un ‘federalismo pedagogico’ c’è stato, nella cultura della miglior scuola italiana, quando questa si è fatta carico della memoria, della cultura, dell’identità del/la bambino/a, in un quadro di progressivo ampliamento dello spazio mentale, conoscitivo e affettivo dalla ‘bolla’ personale via via al quartiere, alla città, alla regione, allo stato, al mondo. Fuoriuscendo da stereotipi, chiusura in etnocentrismo, localismo, eurocentrismo.
La proposta della ricerca d’ambiente, della storia personale, familiare, generazionale, nei loro intrecci e rimandi con la ‘grande’ storia, la conoscenza delle culture ‘altre’, la prospettiva interculturale, hanno nel tempo costituito altrettanti punti fermi- non molto praticati, purtroppo, e troppo spesso banalizzati- per una formazione dell’identità planetaria accanto a quella personale, sociale, di specie, di genere, cui fa riferimento nei suoi saggi Edgar Morin.

Attraverso tali proposte si è realizzata una proficua interazione fra storia, geografia, scienze umane e sociali: strumenti nuovi, aperti, epistemologicamente e cognitivamente fertili, solo in parte assunti nei programmi e nelle indicazioni via via succedentisi dagli anni ’80 grazie all’apporto di pedagogisti, storici, moralisti, ricercatori in vari ambiti e alle associazioni professionali che hanno avuto una funzione di diffusione delle nuove discipline che via via si delineavano ( linguistica, nuove matematiche, nuovi modelli scientifici, antropologia culturale,…).
Ridurre il dibattito sul federalismo a puro aspetto amministrativo rischia di precludere la scuola da tali proficui contaminazioni.
Ridurre il rapporto con il territorio e le proprie origini a un’identità ( presunta) ristretta, senza considerazione per le migrazioni, i crediti e i debiti culturali, il meticciato culturale e etnico  di cui il territorio italiano in particolare è stato nel tempo terreno di incontro-scontro-incrocio, è davvero miope e lesivo dei diritti a una conoscenza feconda, oggi più che mai di necessità mondiale.

La memoria in un momento di incertezza e debolezza di proposte va lontano.
Un tentativo regionalistico era stato compiuto, con scarsissima fortuna, negli anni dell’immediato dopoguerra, con i programmi Washburne che avevano prodotto dei sussidiari regionali; ma la storia nazionale e la conoscenza della geografia dell’Italia erano allora ritenuti fondanti di un’identità nazionale debole e compromessa dalla spaccatura dell’Italia nel periodo bellico e dall’avventura fascista. Se l’indicazione dei programmi era di svolgere una ricerca sul territorio regionale di appartenenza, questa era ritenuta spesso da insegnanti con scarsissimi mezzi a disposizione un’operazione complessa- di cui non possedevano strumenti culturali tali da individuare elementi strutturali portanti che potessero costituire parametri trasferibili per l’analisi di altre realtà socio-ambientali. Una tale problematica non era assolutamente presente nel dibattito pedagogico e nella tradizione didattica. Nel migliore dei casi, la ‘ricerca’ sulla regione si traduceva nel dettare alcuni capitoli sull’ambiente, gli aspetti antropici, economici, turistici, seguendo  gli stessi criteri della geografia e della storia nazionale dei sussidiari. I sussidiari ‘regionali’ non vennero adottati e la proposta decadde. L’indicazione della ricerca ambientale nei programmi Ermini del decennio successivo era molto più debole e puramente a livello di suggerimento di un espediente per introdurre la ‘grande’ storia, pur nell’accenno alla psicologia dell’alunno fondata sul concreto e sul vicino.

Sembrano, oggi, problematiche d’epoca, lontane, sfocate nel ricordo, eppure hanno costituito per la scuola per anni ed anni il fulcro del dibattito, di impegni generosi e di resistenze accanite dei ‘tradizionalisti’.
Sembra un secolo fa quando schiere di insegnanti giudicavano i testi di Guido Petter ‘troppo difficili per questi ragazzi di campagna’.
Un ultimo flash: negli anni ottanta nel gruppo nazionale di antropologia culturale del Movimento di cooperazione educativa un filone di ricerca si occupava della ‘cultura popolare’ con riferimento agli studi di Ernesto De Martino, di Gianni Bosio, di Lombardi Satriani e di altri antropologie ricercatori. La proposta di lavorare a scuola sulla vita quotidiana, sugli oggetti materiali e sulla cultura attorno ad essi, sul ciclo di vita e sul ciclo dell’anno come strutture antropologiche di base, sulle feste, i cibi, i riti, le usanze, sembrava ben collegarsi alla ricerca sulle culture altre e sull’oggi, realizzando dei quadri sociali, delle categorie concettuali, una visione duttile e aperta delle società umane. L’intento era quello, a partire da un elemento, ad esempio il carro della casa colonica contadina, di ricostruirvi attorno il contesto: dal micro al macro, dall’elemento al sistema di interazioni, con una forte centralità sull’elemento lavoro e organizzazione economica e sociale.

Il paradosso è che allora in molte occasioni i genitori si mostrarono scettici e ostili rispetto a tale proposta, che secondo loro rievocava un passato di miseria e sofferenza che era meglio cancellare dalla memoria.  Oggi, le proposte leghiste sembrano costituire il cuore della postmodernità.
In tutte le ipotesi precedenti, però, con tutti i limiti che potevano avere il personalismo, il neo-idealismo, la pedagogia marxista, il pragmatismo, il bambino era sempre in qualche modo al centro dell’attenzione. Oggi noi vediamo con preoccupazione una proposta di pura strumentalizzazione: la ‘cultura popolare’ del leghismo è nostalgica rivisitazione  di usi, motti e modi di dire, gestualità, feste locali, per costituire massa d’urto finalizzata a un potere. Di pedagogico non c’è nulla.
A fronte di tali rischi, va ancora una volta ribadita l’autonomia e la progettualità delle scuole in un dialogo aperto con quella che un tempo il sociologo Gilli definiva ‘la committenza sociale’ della scuola.

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