Direzione didattica di Pavone Canavese

Verso il federalismo scolastico


06.09.2010

La scuola pubblica tra Padania e azienda
di Marina Boscaino (* questo intervento è già stato pubblicato sul numero di luglio di Libero Pensiero)

 

Diritti, doveri, divieti

“I genitori hanno il dovere di provvedere al mantenimento, così come hanno il diritto di scegliere per i figli il tipo di scuola che meglio concretizza i princìpi morali e filosofici in cui credono. Tale diritto è contenuto nell’articolo 30 della Costituzione, mentre l’articolo 34 sancisce la gratuità dell’obbligo scolastico. Nonostante la chiara previsione costituzionale, tali diritti sono stati disattesi per cinquant’anni e lo sono stati ancor più con il Governo Prodi, che ha preteso attraverso la scuola di controllare le coscienze degli alunni e dei loro genitori”.

“(…) Ribadiamo che non esiste un divieto costituzionale al finanziamento della scuola non statale, tanto è vero che le università non statali ricevono già finanziamenti dallo Stato. (…). Di più: la presenza della scuola non statale, che offre tuttavia un indispensabile servizio pubblico, è prevalentemente concentrata in Padania per la presenza di alcuni importanti fattori: 1) lo spirito imprenditoriale dei padani; 2) il desiderio dei popoli della Padania di liberarsi dal centralismo romano; 3) la consolidata tradizione storica delle scuole non statali. In tema di parità scolastica, la libera scelta educativa da parte della famiglia, che non deve incontrare ostacoli di natura economica, sociale, religiosa o etnica, è sancita da molte decisioni di organismi europei ed internazionali”.

 “Solo quando tutte le competenze in campo scolastico passeranno dallo Stato alle Regioni, finalmente la scuola diverrà espressione del proprio territorio con programmi didattici differenziati e con proprio personale insegnante. Nel frattempo, il compito delle Amministrazioni locali rette della Lega Nord è quello di farsi trovare pronte, preparando il territorio mediante la sensibilizzazione dei propri cittadini nei confronti dell’importanza della cultura e della tradizione locale”.

Non è Woody Allen in Io e Annie, ma uno stralcio del programma politico sulla scuola a cura della Segreteria Politica Federale della Lega Nord Padani,a compilato in occasione della campagna elettorale del 2008. Curioso considerare come alcuni principi possano essere disinvoltamente modificati e manipolati, a seconda delle finalità. Più grave è notare che questi pseudo-concetti fanno riferimento direttamente alla Costituzione, che, non lo si può proprio negare, parla piuttosto chiaro. La curiosa quadratura del cerchio che viene fatta tra articolo 30 e articolo 34 della Carta, a sostegno dell’ipotesi della libera scelta gratuita delle famiglie rispetto alla possibilità di iscrivere i propri figli in una scuola pubblica o in una privata (argomentazione attraverso la quale, per esempio, il perenne Formigoni eroga il buono-scuola, ciellinamente chiamato da qualche tempo “dote”, alle famiglie che optino per il privato) “dimentica” che al dettato dell’art. 34 (“L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”) va aggiunto quello del terzo comma dell’art. 33 (“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”). È falsa, insomma, l’assenza di un divieto costituzionale al finanziamento della scuola privata, ribadito con convinzione manipolatoria da tanti esponenti del centrodestra. Il criterio di gratuità pertiene esclusivamente alla scuola pubblica.

Relazioni pericolose

Quali che siano gli errori, le storture, le manipolazioni che sono state applicate alla norma costituzionale, è evidente che da quel 2008, anno della formulazione del programma politico della Lega (quando ancora potevamo aggrapparci alla convinzione fittizia che alcune parole d’ordine nel nostro Paese, bene o male, non sarebbero mai passate) hanno fatto un bel po’ di passi avanti nel far arretrare (anche nella coscienza di coloro che vivono sotto la linea gotica) il fatto che quel progetto non soltanto provocatorio. In sostanza, la vigilanza su alcuni principi imprescindibili (che si chiamano art. 3, art. 33 e art. 34 della Costituzione) si è allentata, si è sbrindellata anche per alcune letteralmente scandalose ed incomprensibili affermazioni di coloro che dovrebbero fare opposizione: Bresso, che durante la campagna elettorale ha appoggiato la proposta dell’antagonista Cota relativa ad albi regionali degli insegnanti; Turco, che in una recente intervista ha pronunciato il requiem per la scuola pubblica, affermando che l’idea della scuola statale come unica scuola pubblica è superata, sottolineando che - a suo avviso – è  scuola pubblica anche quella privata che risponde alle linee guida dello Stato. Come si vede, surreali sovrapposizioni del cosiddetto centro-sinistra con i massimi attentatori al concetto di unitarietà del sistema scolastico nazionale e alla difesa della scuola pubblica: un pedestre tentativo di cavalcare parole d’ordine altrui, in piena contraddizione con il Dna etico-politico della sinistra.

Tra i passi avanti più significativi, nei quali trovano un preciso riferimento le esternazioni di governatori e capigruppo leghisti che dalle regioni del Nord inneggiano alla devoluzione, trovando una sponda anche in amministratori di altri partiti dell’attuale maggioranza e, come si è visto, non solo, si collocano due disegni di legge – Aprea e Goisis – che rappresentano ipotesi di formalizzazione di quelle richieste, ciascuno per un aspetto differente e con tanti punti di tangenza.

Disegno di legge Aprea

Il disegno di legge Aprea (Pdl, presidente della commissione Cultura della Camera) è fermo da un anno in Commissione Cultura. Un cammino impervio: annunciato con vigore e trionfalismo perentorio all’inizio della legislatura, questa ipotesi di provvedimento ha avuto nel corso del tempo ben 3 stesure. L’iniziale decisione di Pd e IdV sulla possibilità di lavorare a un testo unificato, sono state bloccate dall’insistenza sull’ipotesi di un reclutamento dei docenti da parte dei dirigenti scolastici. Sulla quale ipotesi è stata da sempre contraria anche la Lega, che presentò a suo tempo proposte di test sulla verifica della cultura regionale per l’assunzione degli insegnanti. L’allora presidente dei deputati della Lega, oggi governatore del Piemonte, dichiarò a suo tempo: “Le proposte di riforma della scuola le deve fare il ministro Gelmini e non devono essere affidate a estemporanee proposte, anche se proveniente da presidenti di Commissione”.

I 22 articoli del disegno di legge Aprea si riferiscono soprattutto ad autogoverno della scuola e condizione dei docenti.

Le scuole vengono trasformate in fondazioni, istituti di diritto privato. Infatti lo Stato garantisce loro una cifra fissa e identica per tutte, ma aziende o enti, associazioni o singoli utenti potranno contribuire con finanziamenti. Tale condizione - tra tutti i possibili scetticismi rispetto alle concrete velleità di entrare come finanziatori di un'istituzione scolastica - configura la possibilità non solo di privatizzare qualunque scuola, ma di creare immense disparità tra istituti, a seconda del livello ordinamentale, dell'utenza, della collocazione nel territorio.

Al consiglio di istituto - attraverso una rivisitazione dei decreti delegati - verrà sostituito un consiglio di amministrazione (dal quale sono esclusi gli Ata, il personale Tecnico-Ausiliario), di cui farebbero parte rappresentanti degli enti locali e del mondo del lavoro e delle professioni. Non è un caso che questo percorso (di cui non è difficile individuare, oltre che le criticità rilevate, i danni in termini di ingerenza sulla libertà di insegnamento) rappresenta una mano tesa verso Confindustria, che a più riprese ha avallato e richiesto una simile trasformazione. Ha sostenuto recentemente Aprea: "Il mio programma  intende introdurre prima di tutto una nuova governance basata sulla cancellazione dell'autoreferenzialità degli istituti, l'inserimento nelle scuole di soggetti esterni e la possibilità per gli istituti di partecipare a fondazioni"

La carriera dei docenti è basata su una formazione iniziale concepita sul modello 3+2, con un corso universitario caratterizzato per il 75% da crediti di tipo contenutistico-disciplinare e solo per il 25% di tipo relazionale, didattico, pedagogico, cui seguirà un anno di tirocinio validato dal giudizio del dirigente, dopo il quale il candidato potrà iscriversi ad un albo rigorosamente regionale. Essa sarà articolata in 3 livelli: iniziale, ordinario ed esperto. Gli aumenti stipendiali saranno vincolati all'anzianità e all'appartenenza al singolo livello, determinato da concorsi banditi da ciascun istituto. Si propone così, oltre che un aggravio di lavoro difficilmente gestibile dalle segreterie, un sistema di reclutamento improntato a "cordate" interne più o meno di potere, meccanismo curiosamente non dissimile da quello che il centro destra ha sbandierato di voler debellare all'università. Infine, spariranno le Rappresentanze Sindacali Unitarie e per i docenti verrà istituita una area contrattuale separata dal resto del personale.

Il fatto che le politiche sull'istruzione del centro destra non si limitino semplicemente ad un - seppur allarmante e drammatico - disinvestimento economico e culturale, che culmina negli 8 miliardi di tagli alla scuola e nell'annullamento di più di 130.000 posti di lavoro, è chiaro più che mai. Perché qui si accompagna il desolante passaggio dalla scuola della Repubblica (statale, laica, pluralista, inclusiva) alla scuola privata (aziendalista, confessionale, "omologata", discriminante). Qui si vanno a minare definitivamente le basi dello stato sociale come frutto del patto di solidarietà che ispira della Carta, e si scongiura ogni possibilità di affidare alla scuola funzioni emancipanti rispetto alle condizioni socioeconomiche di partenza di tutti e di ciascuno.

Rilancio  leghista

Il ddl è fermo, come si è detto. Ma Valentina Aprea, sia in una recente intervista a “Tuttoscuola” (nella quale, con piglio proprietario, ha anche spiegato quali saranno i mercantilistici criteri di valutazione degli insegnanti, sottoposti a un team ispettori-Invalsi e al giudizio di studenti e genitori) e sia dopo un convegno di TreElle che si è volto alla Luiss, ha rilanciato il progetto, che dovrebbe – a suo dire – sbloccarsi entro maggio – forse anche sulla spinta di una novità, depositata il 30 marzo scorso: il ddl Goisis. Un'ipotesi di provvedimento che costituisce la risposta più esplicita alle incalzanti richieste della Lega che, come emerso da alcuni passaggi del programma politico 2008, attribuisce alla spinta localistica una funzione strategica. Le urgenze devolutive della Lega non sono state accolte adeguatamente nel ddl Aprea? Paola Goisis, parlamentare del Carroccio, ripercorre alcuni dei temi già considerati da Aprea, modificandoli ulteriormente nella direzione di una regionalizzazione senza se e senza ma: albi regionali di insegnanti, dirigenti e Ata (reclutati solo tra i residenti); docenti dipendenti non più dallo Stato, ma dalla Regione. Condizioni contrattuali differenziate. Quote di insegnamenti sulla conoscenza del territorio di appartenenza; 3 organi scolastici: dirigente, consiglio dell’Istituzione, collegio dei docenti. Scuole autonome, finanziate direttamente dalla regione, con contributi da famiglie, enti pubblici e privati. Non manca infine un richiamo ai programmi di studio: "Le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado - si legge nella proposta Goisis - utilizzano una parte del curricolo obbligatorio per la costruzione di percorsi interdisciplinari dedicati alla conoscenza del territorio di appartenenza, dal punto di vista storico, culturale, ambientale, urbanistico, economico, sportivo".

Sinergia distruttiva

Un affare tutto interno alla maggioranza, dunque, quello della formazione, del reclutamento, del merito, degli organi di governo della scuola, in un mix micidiale tra pressioni localistiche, destinate a difendere l'interesse delle regioni del Nord e a svincolare le scuole di quelle regioni dalla “zavorra” costituita dal Sud,  e visione  imprenditorialmente privatistica. In entrambi i casi si strumentalizzano gli esiti differenti tra scuole del Nord e del Sud: invece di attuare interventi compensativi, si opta per accentuare le diseguaglianze (Come si fa, ha detto Aprea, “a resistere alla gestione regionalista, ancorchè con abilitazioni di carattere nazionale, di fronte a certe varianze di risultato scolastico presenti a livello non di Nord e Sud ma addirittura di istituti vicini?").  

Entrambe le posizioni marcano un allontanamento drammatico dalla scuola della Repubblica, dalla scuola della Costituzione. Ma anche al recentissimo rapporto della Fondazione Agnelli sulla nostra scuola. Un allontanamento che si va a sommare a quelli che saranno gli esiti della “riforma” Gelmini che – lo ricordo – nel momento in cui scrivo non è ancora stata pubblicata in GU, non avendo ricevuto il parere obbligatorio della Corte dei Conti, e pertanto non è giuridicamente valida. Il che significa che abbiamo aperto e chiuso le iscrizioni su una scuola che non esiste; e che gli organici per il prossimo anno sono stati determinati in base ad ordinamenti privi di sostegno giuridico. Un processo di “semplificazione” e “razionalizzazione” (due termini taumaturgici nella visione del mondo marketing oriented di coloro che ci governano), che nulla ha a che fare con la scuola (che, essendo un organismo per sua stessa natura complesso, avrebbe, casomai, bisogno di essere complessificata per rispondere adeguatamente alle domande del “fuori”). E che prende le mosse da una legge (la 133/08, confluita in Finanziaria 2008) che taglia 7.5 miliardi di euro nel triennio 2009/11 con relativi 140.000 posti di lavoro tra docenti e Ata.

Rottura dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale

La cosiddetta “riforma” Gelmini istituzionalizza, rende sistema la divaricazione dei percorsi scolastici su base socio-economico-culturale, immobilizzando (contrariamente a quanto previsto dal dettato costituzionale, che individua nella scuola pubblica uno degli strumenti per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”) le condizioni di partenza di ogni studente: i licei per i “nati bene”; l'istruzione tecnico-professionale (guarda caso, la più massacrata) per gli altri. L'obbligo di istruzione conseguito a scuola per i primi, per gli altri attraverso un sistema di partecipazione scuola-agenzie formative o addirittura nell'apprendistato; a significare, peraltro, che nella coscienza degli strateghi di viale Trastevere un anno di scuola è equivalente ad un anno di avviamento al lavoro. E, destinata alle fasce deboli della popolazione, tra i migranti, tra i diversabili – che statisticamente convergono nell'istruzione professionale – la garanzia di 20 variabili (tante quante sono le regioni italiane) di uno stesso segmento dell'istruzione superiore.  L'accerchiamento è centripedo rispetto all'aggressione al principio di unitarietà del sistema scolastico nazionale, nonché  rispetto alla difesa dell'art. 3 della Costituzione. È proprio questo il punto: l'impressione è che sempre meno i grandi concetti organizzatori, i principi fondativi su cui i costituenti hanno basato la scrittura della Carta (i primi 11 articoli), da cui conseguono gli articoli seguenti e che determinano le idee guida di una nazione, i principi imprescindibili e inviolabili, non siano  di fatto stati metabolizzati  nel Dna della nazione. La loro imprescindibilità nella pratica sembra quasi solo teorica e lo iato tra principi e politiche e azioni concrete diventa tanto più avvertibile quanto più si versa in un periodo di crisi, culturale, oltre che economica. Siamo pur sempre – è bene ricordarlo – il Paese delle impronte digitali ai bambini rom, delle quote del 30% di migranti. Siamo il Paese delle continue violazioni al diritto al lavoro. Siamo il Paese di una cittadinanza differenziata a seconda dell'emergenza più o meno pressante di parole d'ordine come sicurezza, ordine, merito. Siamo il Paese che tenta di sopprimere per legge il pluralismo, lo ostacola nella pratica quotidiana. Il Paese dell'assuefazione alla evasione dalle procedure garantite dalla legge, dove le norme si inverano attraverso dichiarazioni e proclami di chi è per vocazione disposto e pronto a mettersi sull'attenti e battere i tacchi. Siamo distratti: dalla nostra storia, dal nostro futuro. Immersi in una quotidianità priva di respiro, in una logica suicida del giorno per giorno. E in questa distrazione ci stiamo lasciando sfuggire brandelli di civiltà e tranci di democrazia.

Revisioni e revisionismi

La manipolazione semantica ci lascia indifferenti. L'argomentazione più cara alla Lega che, come abbiamo visto, propone un reclutamento degli insegnanti direttamente determinato su albi regionali e una contrattualizzazione differenziata, è la disperantemente nota revisione del Titolo V della Costituzione, una delle responsabilità che il centrosinistra ha deciso di assumere in prima persona (insieme alla legge sulla parità scolastica e sull'autonomia) rispetto allo smantellamento della scuola pubblica e alla smobilitazione di una parte sostanziale di quei concetti organizzatori e principi fondanti di cui si diceva. Insieme a Cota e Zaia, governatori del Piemonte e del Veneto, si è espresso Boni, capogruppo della Lega in Lombardia,  avallando la richiesta di albi regionali appena avanzata dai leghisti friulani: “Pieni poteri alle regioni per dare la precedenza agli insegnanti lombardi. La piena attuazione del federalismo si traduce nell’autonomia concessa alle regioni nelle diverse materie previste dalla stessa riforma federale e dalle modifiche introdotte al titolo V della Costituzione”. Le trasgressioni costituzionali in un'affermazione del genere sono molteplici: l'art. 52 della Costituzione prevede  l' accesso di tutti i cittadini a tutti gli uffici pubblici senza discriminazione. Per quanto riguarda la continuamente evocata revisione del Titolo V della Costituzione, così si è pronunciato l’avv. Mauceri (Per la scuola della Repubblica, che peraltro ha elaborato il ricorso avanzato al Tar del Lazio contro la circolare sulle iscrizioni, priva – come si è detto – di riferimenti di legge; un ricorso che hanno firmato 800 persone): “La riforma del federalismo fiscale esplicitamente non prevede alcuna modifica per quanto attiene l’ordinamento scolastico; una legge ordinaria, del resto, non può incidere sull’assetto definito dalla Costituzione. La riforma del Titolo V va poi interpretata nell’ambito dei principi fondamentali della Costituzione. Le norme generali dell’istruzione sono stabilite dalla Stato, che garantisce uguaglianza ai cittadini sui diritti fondamentali, tra cui l’istruzione, e che realizza scuole statali – con personale, programmi, criteri di valutazione, obiettivi statali. Quindi la competenza che il Titolo V attribuisce alle regioni riguarda gli aspetti organizzativi della scuola e non quelli istitutivi”

Considerando che le leggi su parità e autonomia scolastica furono licenziate dal centrosinistra; che l'idea delle scuole fondazioni era contenuta nel decreto Bersani del 2007; che la riforma del Titolo V della Costituzione, federalismo, regionalizzazione e sussidiarietà sono principi condivisi anche da chi dovrebbe opporsi alla deriva mercantilistica, aziendalista e privatistica configurata dalle proposte Aprea e Goisis, aggiungiamo un'ulteriore sfiduciata notazione al quadro sinora tracciato: la mancanza - per molti di noi – di una rappresentanza parlamentare che declini intransigenti parole di opposizione allo jihadismo mercantile e al localismo discriminatorio che si stanno insinuando nella scuola.

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