Direzione didattica di Pavone Canavese

L'educazione interculturale nell'anno del POF.....

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(16.03.2002)

Vivere sulla superficie del caos
Il perché ed il come dell’educazione

"Una società autonoma, una società autenticamene democratica, è una società che contesta qualunque cosa venga prestabilita e che così facendo libera la creazione di nuovi significati. (..)La società è autenticamente autonoma allorché sa, deve sapere, che non esistono significati garantiti, che vive sulla superficie del caos, che è essa stessa un caos alla ricerca di una forma, ma una forma che non è mai fissata una volta per tutte. L’assenza di significati garantiti, di verità assolute, di norme di condotta predeterminate, di confini prestabiliti tra giusto e sbagliato, non più bisognosi di attenzione, di regole garantite di successo, è la conditio sine qua non di una società autenticamente autonoma e al contempo di individui autenticamente liberi; società autonoma e libertà dei suoi membri vanno di pari passo. Qualsiasi livello di sicurezza la democrazia e l’individualità possano acquisire dipende non dal combattere la contingenza e l’incertezza endemiche della condizione umana, bensì dal riconoscerle e dall’affrontarne le conseguenze a viso aperto."

Mi scuso per la lunga citazione, tratta dalla riflessione con cui Zygmund Barman chiude il suo saggio appena pubblicato in Italia (Modernità liquida, Laterza, 2002). Ma era perlomeno dovuta: questa rubrica porta come titolo un frammento di Nietzsche che sostiene, appunto, che occorre avere dentro di sé molto caos per generare una stella che danza.

Portare il caos dentro di sé:
che senso ha il nostro mestiere di educatori?

Il saggio di Bauman (su cui torneremo in altro momento su questa stessa rubrica) si conclude con una riflessione sul senso dello scrivere di sociologia. Più in generale sul senso del fare sociologia.

Pochissime pagine: intense, stupende, lancinanti, tragiche e forti. E non credo che questo giudizio dipenda da una mia qualche soggettiva condizione, da forme di pseudo-depressione da primavera incipiente o dal fatto che mentre scrivo il cd del computer suona a tutto volume "Radio rebelde" dei Modena city ramblers. E se anche fosse… vi prego di seguire ugualmente il ragionamento.

Nulla più che il tentativo di rileggere le note di Bauman trasponendole dall’ambito della sociologia a quello dell’educazione. Al nostro mestiere.

Occorrerà infatti, prima o poi, chiedersi che senso ha il nostro mestiere nel tempo della globalizzazione e della postmodernità, o nel tempo della modernità liquida, per dirla con il sociologo anglo-polacco. Possiamo infatti star qui a discutere per mesi e mesi su riforme della scuola, su moduli, organici, discipline, competenze, standard, contenuti, valutazioni, verifiche e compagnia bella….ma la domanda radicale è un’altra: che senso ha il nostro mestiere ? Che senso ha fare educazione oggi ?
O anche noi siamo ormai preda della grande semplificazione che sostituisce con la ricerca di un riparo il senso di ricerca ? O anche noi siamo preda del laissez-faire che contempla la miseria umana con equanimità e nel contempo cerca di salvare la propria coscienza cantando in coro il ritornello ce dice "non esiste alternativa".
Questo modo di fare, sostiene Bauman, significa essere complici nello stesso momento in cui ci si dichiara non responsabili. Ma complici di cosa ?
Semplice: dell’idea che il mondo sia già dato, che il dis-ordine sociale sia un dato di natura. Che chi muore di fame, di incultura, di mancanza di diritti, di guerra e violenza sia una parte necessaria ed immutabile del paesaggio.
Ma ecco il punto: cosa significa sfuggire alla responsabilità? Significa, sostiene Julia Kristeva (ben nota a chi si interessa di educazione interculturale) "agognare ad un riparo sicuro per sfuggire al caos personale". E il riparo sicuro spesso si concretizza nella "casa-fortino", nella costruzione di una fortezza che si ritiene inespugnabile. Una casa fortino piena di mura e torri che segnino la distanza dall’alterità, che tenga fuori dai propri confini la differenza.

Conoscere come opera il mondo

Per operare nel mondo, anziché essere da questo manipolati, occorre conoscere come il mondo opera. Ecco il senso del fare sociologia: mostrare come opera il mondo ed in particolare recuperare il legame perduto tra l’afflizione ed il dolore soggettivi e l’esperienza oggettiva.

Provo a spiegare, utilizzando un esempio che Bauman mutua da un intervento di Beck. "Quando si parla di fame le sofferenze soggettive e la causa oggettiva sono indissolubilmente legate, e il legame è assiomatico e non smentibile. I rischi invece (e per rischi si intendono qui le conseguenze sulla vita delle persone della antropologia economicista che presiede il corso della globalizzazione) non sono oggetto di esperienza soggettiva, non vengono vissuti direttamente ma sono mediati dalla conoscenza. Possono cioè non raggiungere mail il regno dell’esperienza soggettiva, possono essere banalizzati o completamente negati prima che vi giungano".

Esemplifico. I nostri alunni (e noi stessi) fanno forse esperienza dei rischi della omogeneizzazione culturale? Della riduzione della cultura a merce da vendere o consumare secondo le regole delle nuova religione dell’iperconsumo? Dell’essere ridotti a mere funzioni del mercato che traduce la logica della cittadinanza nella retorica della democrazia dei consumatori, per dirla con il padre nobile von Hayek? Fanno forse esperienza di ciò che significa davvero aderire, dal punto di vista antropologico, alla idolatria della competitività che riduce gli altri ad ostacoli da superare, a scorie da eliminare? O fanno forse esperienza del significato sociale della deregulation? Della solitudine globale? Tutte sciocchezze, si suole dire: così va il mondo baby. Non ci sono problemi.

Appunto: non ci sono problemi….E se non ci sono problemi tutto è già dato. L’educazione e la cultura non servono. Basta un po’ di istruzione, di apprendistato.

Intimità e distanza

Le brevi pagine di Bauman rispondono ai quesiti proponendo alcuni atteggiamenti e modi di pensarsi e di agire da intellettuali (e gli educatori o sono intellettuali o non sono) ripresi da alcune figure di intellettuali contemporanei.

In sintesi:

  1. lo sguardo dall’esterno: occorre imparare a guardare a sé a partire dall’esterno. In chiave interculturale si usa il concetto di decentramento. Occorrono assieme "intimità e distanza". È necessario, come insegna Goytisolo (scrittore spagnolo che ha vissuto molti anni in Francia prima di stabilirsi definitivamente in Marocco). Solo così persino la propria lingua (la propria intimità) viene guardata all’esterno, si fa riflessiva perché si guarda da fuori. E solo così diventa lingua capace di creare nuova realtà
  2. pensarsi in viaggio: Jacques Derida invita i suoi lettori a pensare come se fossero in viaggio. E mettersi in viaggio, mettere la propria mente e la propria cultura sui sentieri del mondo significa concentrarsi sul partire, sull’allontanarsi da sé, sull’affrontare i rischi dell’ignoto.
  3. costruire case sui crocevia: occorre imparare non a non avere casa (che è la condizione dell’apolide) ma ad avere più case in più culture e per ognuna di esse nel sentirsi contemporaneamente dentro e fuori, intimi e distanti
  4. l’esilio come condizione dell’uomo: esilio significa essere in un posto senza farvi parte. La condizione dell’’esilio ci mostra come le verità locali siano fatte e disfatte continuamente dagli uomini, come nulla sia dato una volta per tutte. Essere nella condizione dell’esilio significa abitare più universi simbolici, plurimi universi linguistici. Saper padroneggiare più codici linguistici, più parole, e proprio grazie a ciò essere capaci di costruire mondi diversi. Sia chiaro: l’esilio non è di per sé una condizione geografica. Il marchio distintivo di ogni esilio è il rifiuto di integrarsi, la determinazione di astrarsi dal luogo fisico, di immaginare un proprio posto diverso da quello abitato. L’esilio è la condizione di chi sceglie l’autonomia.
  5. creare significa infrangere regole: l’esiliato è strutturalmente nella condizione di infrangere regole poiché egli non conosce a sufficienza le regole del luogo in cui è giunto. Ma così facendo l’esiliato porge il più grande dono possibile: sbanalizza la realtà, ne mette in crisi la presupposta naturalità ed immutabilità permettendo a tutti di vedere in ciò che si riteneva immutabile null’altro che una routine. E così facendo permette di dar vita alla creazione di nuove forme, nuovi modi di relazione, nuova società. E, sia detto per inciso, creare qui è anche sinonimo di scoprire: che altro è infatti l’atto della scoperta - sia esso imputabile a Galileo invece che a Cristoforo Colombo – se non la messa in crisi di paradigmi e concezioni del mondo ritenute immutabile e naturali, se non il disvelamento della possibilità non ancora esperite? Di utilizzo di un altro punto di vista che, proprio perché altro, sconvolge la realtà e la ridefinisce?
  6. essere nomadi: occorre ridiventare nomadi. La cultura è figlia del nomadismo, dell’andare, del ricercare. I popoli nomadi sono stati guardati come relitti della storia da quanti tracciavano i confini degli stati nazionali ma oggi, ironia della sorte, sono proprio quei confini ad essere saltati e noi avremmo bisogno proprio di quei nomadi che sanno attraversare il deserto leggendo le stelle incuranti dei confini con cui i colonizzatori ritenevano di poter rendere saldo, stabile e rassicurante il mondo.

E i sei tratti, le sei caratteristiche sopraccitate, non sono forse anche caratteristiche fondanti del nostro mestiere di educatori? Oltre che essere i tratti tipici dell’orizzonte interculturale?

E che significa per un educatore diventare nomade? Costruire case sui crocevia culturali? Pensarsi in viaggio? Apprendere la condizione dell’esilio?

E queste non sono forse le competenze richieste oggi a ragazzi e giovani che vogliano vivere responsabilmente il proprio mondo? Per quanti vogliano costruire il mondo piuttosto che essere manipolati da esso?

Dal come al perché…

Domande che lascio a chi legge.

Al limite si potrà dire che chi scrive è stato sopraffatto dal caos, che nessuna stella che danza è stata generata, che lui stesso si è perso dentro il labirinto del gioco che riteneva di governare e da cui invece "è stato giocato".

In fondo, e lo sappiamo bene, anche nel nostro mestiere è pur sempre possibile cercare riparo dietro le mura delle città fortezza che mentre ci rassicurano ci chiedono, in cambio, di non interrogarci sul perché facciamo educazione ma solo sul come.

Così il perché lo decide qualcun altro. O forse nessuno. Il che è anche peggio.

Il che non significa, sia chiaro, che vivere contemporaneamente intimità e distanza sia cosa facile. No davvero. Esige la capacità di danzare sulle onde del caos. Esige creatività e responsabilità. Un percorso spesso doloroso, come tutte le creazioni e le nascite. Un consapevole farsi attraversare dal rischio del nulla, dal rischio di perdersi. Ma non è questo il nostro mestiere?

E non di insegnanti: di uomini.

Aluisi Tosolini

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