(19.01.2009)
Le radici comuni ? Stanno nel futuro, non nel passato
Il 16 gennaio il quotidiano La Stampa di Torino ha pubblicato una interessante piccola inchiesta su un fatto purtroppo sempre più diffuso, ovvero il rifiuto da parte di genitori italiani di iscrivere i propri figli in scuola con una numero eccessivo di figli di immigrati. L’articolo è molto ben costruito: lontanissimo sia dalla retorica del multiculturalismo ad ogni costo che dai proclami della Lega. Ed è per questo che, oltre ad invitare ad una lettura dell’articolo (http://www.flcgil.it/notizie/rassegna_stampa/2009/gennaio/la_stampa_troppi_alunni_stranieri_toglieremo_i_nostri_figli ) , mi permetto alcune riflessioni che collegano, come in un mini ipertesto, notizie, annotazioni, letture che si annidano nei miei pensieri in questi giorni.
Minareti e sky line
La cosa che più mi ha colpito dell’articolo de La stampa è la chiusura, le parole dell’assessore:
“La molla che spinge i genitori di bambini italiani a spostarli dalle scuole ad alto tasso di stranieri è lontana dai proclami della Lega che per domani pomeriggio organizzerà l’ennesima ronda anti-extracomunitari che delinquono: «Non è razzismo - spiega l’assessore Saragnese - anche perché i ragazzini stranieri molto spesso sono nati in Italia e parlano bene la lingua. E’ piuttosto una questione di ambientamento, di radici, di comunanza, di memoria, di forma mentis e condivisione di ricordi».
Due giorni
dopo il Cardinale di Torino, Severino Poletto, parlando ai politici locali
ha invitato,
(riporto da
La Repubblica)
«….i sindaci a studiare bene i piani urbanistici per evitare che accanto ai campanili sorgano i minareti delle moschee». Poletto si affretta a spiegare che «nessuno può mettere in dubbio il principio fondamentale della libertà di culto, un diritto di ogni persona». E infatti il cardinale spiega che «ogni comunità ha il diritto di avere dei luoghi in cui ritrovarsi per pregare. Ma un conto è trovare dei saloni, delle sedi da adibire alla preghiera. Un altro è renderle visibili nel panorama delle nostre città, facendo sorgere i minareti di fianco ai campanili». In realtà i minareti e i campanili convivono più o meno pacificamente in molte città del mondo. Come mai in Italia questo non dovrebbe essere possibile? Poletto risponde che «a Torino l' 85 per cento della popolazione è battezzata. Il peso della comunità cattolica e della sua tradizione è tale da rendere oggi inopportuna la presenza di minareti in città. Dove invece le comunità cristiane sono in minoranza è naturale che i campanili convivano di fianco alle grandi moschee».
Insomma, i
minareti (che di per sé nessuno ha ancora chiesto di costruire, ma non si sa
mai…) mutano lo sky line delle nostre città cattoliche (l’85% degli abitanti
sono battezzati, dice il Cardinale).
Si tratta di una riflessione simile, a mio parere, a quella dell’assessore i
Torino: “una questione di ambientamento, di radici, di comunanza, di
memoria, di forma mentis e condivisione di ricordi”.
Il pane di ieri
Andrea è uno
di quegli amici che, anche se non lo dà a vedere, conosce dei miei pensieri
anche alcune tra le pieghe più recondite. L’altro giorno mi ha regalato
l’ultimo libro del Priore di Bose:
Il pane di ieri. Enzo Bianchi racconta con parole di grandissima
saggezza le storie della propria vita di bambino e ragazzo nelle Langhe e le
attualizza per l’oggi, quasi alla ricerca di un’etica per la terra. Un libro
da leggere: lieve e profondo nello stesso tempo.
E lo cito qui perché, leggendolo, ho ritrovato molto dei miei vissuti sulle
colline friulane. Ci sono 15 anni di differenza tra me e Enzo Bianchi ma il
suo racconto della vendemmia, della fatica della vita dei contadini, della
“cucina economica” e del fuoco basso con cui fare il ragù lavorando in
cucina sin dall’alba, del gusto di stare assieme a tavola, delle rogazioni
contre la tempesta e la gradine recitate dal sacerdote che usciva in
campagna recitando le sue preghiere in latino (a fulgure et tempestate
libera nos domine…) con me a fianco, piccolo chierichetto con il
secchiello dell’acqua santa e l’aspersorio… insomma le esperienze su cui
costruisce la sua narrazione sono state anche le mie esperienze, anche se
erano gli ultimi bagliori di un mondo che non c’è più.
Ecco: un mondo che non c’è più. A questo ho pensato rileggendo le parole
dell’assessore di Torino. Sarà anche vero che non ci sono storie che
ac-comunano… ma il problema è un altro: di quali storie parliamo?
Quanti dei bambini torinesi o delle Langhe possono dire di essere ac-comunati
con le storie narrate da Enzo Bianchi? Pochi, forse nessuno.
E la saggezza di Enzo Bianchi è così profonda che raccontando della cucina
povera delle Langhe negli anni 50-60 riconosce che in quelle cucine si
incontrava, già allora !!!, il mondo: il pepe asiatico, le spezie del
sud, il sale della Sardegna, il tonno del mediterraneo, il pane che viene
dal lontano Egitto. Ingredienti che nella saggezza contadina delle cucine
sulle Langhe diventano una nuova storia.
Da qui la domanda: di cosa parliamo quando facciamo cenno, come fa
l’assessore, a una questione di ambientamento, di radici, di comunanza, di
memoria, di forma mentis e condivisione di ricordi? Quali ricordi comuni
esistono a Torino? E come sono stati costruiti? Di cosa parliamo quando
parliamo di queste cose?
La stessa domanda, sono onesto, mi è venuta, da cattolico, quando ho letto
che il Cardinale sostiene che a Torino l’85% degli abitanti è battezzato e
che quindi lo sky line deve essere, in qualche modo, “cristiano”. E anche su
questo Enzo Bianchi ha pagine stupende sul significato del suono delle
campane come luogo di costruzione di comunità nelle Langhe anni ’50. Campane
che oggi sono state sostituite non dai minareti ma da mille altri suoni e
mille altri “campanili”.
Sarebbe comunque interessante approfondire il senso di quell’essere tutti
battezzati cui fa riferimento il cardinale. Potrebbe essere la base di
quella “storia comune” cui accenna l’assessore. Ma sappiamo bene che non è
così. Piaccia o non piaccia non è così.
Cristianesimo in stand by
Certo, il 31 dicembre, l’ultimo dell’anno, in genere è occupato in
festeggiamenti o in preparativi per gli stessi. Io, in attesa dei
festeggiamenti, mi sono dedicato alla lettura della presentazione di una
ricerca di Alessandro Castegnaro, presidente dell' Osservatorio
socio-religioso Triveneto, benedetta dal vescovo di Trieste mons. Eugenio
Ravignani.
La Repubblica ne ha presentato una ampia sintesi a cura di Marco Politi.
Ecco i passi salienti:
L' inchiesta (A.Castegnaro, Religione in standby, Marcianum Press, pagg. 296, euro 29) è partita da un' analisi della situazione di Trieste, ma poi si è allargata ad una comparazione con la situazione di Venezia e Pordenone. Trieste, notoriamente, è una città particolare in cui forte è l' impronta austro-ungarica, di tradizione cosmopolita, laica, secolarizzata, che la apparenta ai costumi e agli stili di pensiero del Nordeuropa. Ma l' incrocio dei dati con una realtà culturalmente metropolitana come Venezia e invece provinciale - da classico Veneto bianco - di Pordenone offre uno specchio interessante delle giovani generazioni, che può valere almeno per l' Italia centro-settentrionale. Le sorprese sono tante. Quanto conta la religione per i giovani triestini? Poco per il 45 per cento, niente per il 10, moltissimo solo per un 15 per cento. Interrogati se credono, a Trieste rispondono sì il 77 per cento, a Venezia l' 86, a Pordenone l' 89. Ma appena si domanda a cosa, le risposte sono per un paese ufficialmente cattolico sconcertanti. Al «Dio cristiano» credono a Trieste soltanto il 38 per cento dei giovani, a Venezia il 43, a Pordenone il 46. L' altra metà, più o meno, preferisce credere in una «Realtà superiore» non meglio definita. Fortemente incrinata è la convinzione che Gesù Cristo sia figlio di Dio. Ci credono poco o per nulla il 41 per cento a Trieste, il 33 a Venezia, il 24 a Pordenone. Gli incerti, nel medesimo ordine, sono al 26 per cento, al 34, al 29. I molto convinti sono un terzo a Trieste e Venezia e il 46 per cento a Pordenone.
Non occorre
vada oltre. Ma di certo le parole dell’assessore di Torino da cui sono
partito continuano a non trovare risposta ed anzi generano sempre più dubbi
e domande.
In sostanza: di che radici, di che comunanza, di che memoria, di che forma
mentis e di che condivisione di ricordi parliamo quando diciamo che i nostri
figli di 6 o 11 anni dovrebbero stare fra di loro piuttosto che assieme a
ragazzini della stessa età nati in Italia ma figli di stranieri? Basta dire
che l’85% dei cittadini è battezzato quando poi si scopre che più della metà
dei giovani battezzati non sa neppure indicare lontanamente le
caratteristiche fondamentali di quel Dio nel cui nome sono stati battezzati?
(e taccio, per carità di patria, sulla conoscenza che ne hanno i padri,
soprattutto quelli che del crocefisso han fatto spada….)
Di che ricordi comuni parliamo, dunque, quando ognuno di noi tocca con
mano ogni giorno che i propri ricordi di cinquantenne sono tutt’altra cosa
rispetto ai ricordi della propria figlia ventenne o degli studenti
quindicenni della scuola dove lavora?
Di
che ricordi comuni parliamo quando i nostri figli ci sono stranieri ed i
nostri padri alieni?
Costruire memoria comune: narrare assieme la vita
Da diverso
tempo, con la bonarietà dell’amicizia, prendo in giro Simone Giusti, Paola
Brunello e Paola Giangrande, che lavorano nelle scuole di Grosseto, perché
loro da anni sono tra i massimi esperti della dimensione narrativa
dell’orientamento. Ci scherziamo sopra e nelle nostre chiacchiere anche i
butteri della Maremma diventano narrativi…
Frequentarli è per me una grande gioia e proprio in questi ultimi mesi
stiamo lavorando assieme alla costruzione di un curricolo di “Cittadinanza e
Costituzione” in chiave interculturale e narrativa.
Perché la scommessa sta qui: la memoria comune non è detto che si debba
trovare solo nel passato. Al contrario la memoria comune si potrebbe
costruire assieme nel presente ed in vista del futuro.
E’ questa la sfida della nostra società: non tanto andare alla ricerca di
una inesistente memoria comune, di una non più vivente forma mentis comune,
quanto piuttosto lavorare per un sogno comune, per una storia comune da
costruire.
E’ qui, secondo me, la sfida.
Questa è la notte del 19 gennaio…
Ma sono
stanco questa sera. Stanco di pensare. Stanco di cercare di motivare ed
argomentare nel modo più coerente possibile il perché ed il come di una
società interculturale. Stanco. Quasi sconfitto.
Ma questa è anche la sera che prelude all’insediamento di Barack Obama quale
Presidente degli Stati Uniti d’America. Non so se sarà un bravo presidente
oppure no. Di certo, però, Barack Obama è l’esempio di come trovare “cose
comuni” nel futuro piuttosto che nel passato.
Nella scommessa del futuro piuttosto che rovistando tra i ricordi
ricostruiti ad hoc.
E forse questa notte è meno buia.
Aluisi Tosolini