Direzione didattica di Pavone Canavese

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Formazione in contesto interculturale
Le città e l’interculturalità

 

  1. Dal nuovo contesto al nuovo paradigma
  2. Le istituzioni non sono neutre
  3. Verso dove ?
  4. Formare: Chi ? A cosa ?

Dal nuovo contesto al nuovo paradigma

Il tutte le città europee è ormai da ritenersi superata la fase emergenziale dell’immigrazione. La pluralità di culture, di vissuti e di esperienze che interagiscono nel tessuto urbano è un dato di fatto da cui è impossibile prescindere. Operare per una politica di piena cittadinanza, di pieno riconoscimento e rispetto dei diritti di cittadinanza, implica prendere coscienza del nuovo contesto in cui si collocano le città e le società europee. Contesto caratterizzato da globalità, interdipendenza, compresenza di esperienze e culture diverse, pluralità di approcci, di vissuti e di percorsi esistenziali e sociali.

Ciò implica un radicale ridisegnarsi e riprogettarsi del modo stesso di essere città e soprattutto delle modalità di governo delle medesime. Tutte le istituzioni della città devono essere coinvolte in questo processo di ricollocamento e di ridefinizione. Ciò implica sostanzialmente una rimessa in discussione dei processi di autoreferenzialità che spesso costituiscono un portato significativo delle istituzioni proposte alla vivibilità democratica delle città.

Il punto su cui fare leva per portare a compimento tale processo è certamente una precisa rivisitazione della figura stessa dell’immigrato mediante l’elaborazione di una nuova cultura e di nuovi processi di formazione che debbono poter incidere a tutti i livelli : dallo sportello al livello di definizione generale delle politiche di cittadinanza attiva.

Troppo spesso l’immigrato e le immigrata risultano, agli occhi delle varie istituzioni e dei vari servizi, figure spezzate, pezzi di un puzzle che mai si ricompone. Per la scuola l’immigrato è alunno. Lo stesso immigrato è paziente per l’USL, utente con problemi per i servizi sociali e così avanti per procura, tribunale, forze di polizia, assessorati, centri culturali ecc.

In realtà l’immigrato è sempre lo stesso, vive nella stessa città ma, dalla stessa città, rischia di vedersi spezzettato e frantumato, etichettato come una serie di problemi piuttosto che come persona. Si tratta invece di ripartire dalla centralità dell’immigrato come persona e cittadino, non come passiva e spezzettata porzione di problemi quanto piuttosto come soggetto attivo che, entrando nella relazione sociale, interagisce ridefinendo esso stesso il campo delle relazioni, la propria ed altrui identità.

Le istituzioni non sono neutre

Nei confronti delle politiche tese al superamento di processi di esclusione e di xenofobia le istituzioni e le loro pratiche non sono e non possono essere lette come neutre. Le istituzioni non sono ancora state toccate a sufficienza dalla cultura della differenza e pertanto, in modo più o meno inconsapevole, tendono a riprodurre l’idea e la prassi di una città "monoculturale" anche nel momento in cui reputano di operare lungo percorsi multi ed interculturali.

Qui si colloca la necessità della formazione che non può riguardare solo "pezzi" dei servizi (quasi si potesse delegare, ad esempio, ai soli servizi sociali e/o culturali il nodo della progettazione e realizzazione di una città interculturale) ma deve riguardare necessariamente la complessità delle pratiche politiche ed amministrative di una città.

Verso dove ?

E’ del tutto evidente che agire contro una deriva xenofoba implica anche un agire per. Ovvero un agire con finalità ed obiettivi ben precisi. In Europa abbiamo sperimentato diversi modi di intendere le relazioni sociali entro città pluriculturali.
Un progetto è certamente stato quello della assimilazione.
Secondo tale prospettiva si tratta di "assimilare" (rendere simili a sé, integrare, ovvero rendere a sé omogenei) gli altri "diversi" da sè. Tale prospettiva mi pare fallimentare. Essa evoca una visione della storia ove alcuni (siano essi singoli o intere società) ritengono di avere la possibilità di definire a priori per quanti sono "altri" i percorsi di realizzazione personale e sociale. La prospettiva della assimilazione si muove lungo un discutibile universalismo unilineare che tende all’omogeneizzazione e che risulta incapace di comprendere e governare le dinamiche delle società complesse e pluriculturali pervenendo, quando va bene, alla sola creazione di "riserve indiane", ovvero di contenitori di diversità che non sono chiamate ad interagire attivamente nella ridefinizione della città che abitano ma che possono solo "usare" (più spesso solo "servire") la città pensata da altri e per altri.
Sull’altro versante si colloca la prospettiva della valorizzazione della diversità entro la logica interculturale ove le differenze sono chiamate a convivere, a confrontarsi, a creare una spazio politico che continuamente è chiamato a ridefinirsi ed a ridefinire le regole dell’agire e del comunicare. Si tratta certamente di una prospettiva che, senza cadere nel rischio dell’assoluto relativismo, prende atto che la diversità è un dato strutturale e non eliminabile della vita sociale del nostro tempo post-industriale. Apprendere a convivere con le differenze non è tuttavia percorso facile. Da un lato esso implica la presa d’atto delle molteplici differenze che attraversano le nostre città, a partire dalla differenza di genere sino a giungere alla alterità di culture. E più in profondità implica assumere la consapevolezza che la stessa identità di ogni persona nasce e si alimenta nella differenza. Ogni singola persona è attraversata dalla differenza e dalla alterità ed apprendere a convivere con l’alterità è progetto che implica lo stesso apprendere a convivere con sé.
Conseguenza prima di tale prospettiva è il necessario riconoscimento dei diritti culturali come diritti fondamentali ed irrinunciabili di ogni essere umano. Riconoscere inoltre la diversità e la pluralità come ricchezza implica dare pieno senso alla democrazia che si avvalora solo a partire dalla diversità. Senza alterità, infatti, la democrazia si riduce a vano esercizio.

Formare: Chi ? A cosa ?

La formazione si evidenzia ogni giorno di più come uno snodo cruciale nelle società complesse. Proprio perché le società nelle quali viviamo sono costituite da un complesso intersecarsi di culture, vissuti, saperi, pratiche... è sempre più urgente un processo di formazione capace di coinvolgere tutti gli attori della città multiculturale: non solo gli immigrati ma ogni cittadino, a prescindere dalla sua provenienza e dalla sua cultura.

"Cittadini interculturali" lo si diventa, imparando a

Si tratta di apprendere comportamenti e saperi quotidiani capaci di spezzare la rigida logica dell’unica appartenenza al fine di sperimentare ruoli diversi che rendono esplicita e vissuta la logica della diversità e della relazione tra alterità nelle società plurali. Si tratta di acquisire competenze nuove capaci di permettere ad ogni cittadino di agire ed abitare i nuovi scenari sociali da attivo protagonista piuttosto che da passivo fruitore.

Normalmente si ritiene che la formazione permanente debba riguardare soprattutto l’ambito occupazionale – lavorativo: il mondo del lavoro cambia ad una velocità altissima e solo che rimane "aggiornato", chi si forma continuamente può pensare di riuscire ad essere protagonista (a volte anche solo "occupato") nel mondo del lavoro. Per gli altri un gap di saperi si configura come il primo scalino della possibile marginalità sociale.

Ebbene, lo stesso ragionamento vale in realtà non solo per l’ambito occupazionale ma anche per ogni altro aspetto della vita dei singoli cittadini. Anche i saperi relazionali e sociali, i saperi attorno alla vita, alla morte, al tempo libero e/o del gioco, all’amore, alla politica, ecc. richiedono la stessa urgenza formativa. Richiedono nuovi saperi perché vivere in una città multiculturale impone nuove regole, nuove capacità di relazione, nuove capacità di gestire i conflitti, di elaborare la propria cultura e la propria identità. Impone di saper vivere su più scenari identitari.

E proprio nella capacità di passare da uno scenario all’altro sta la possibilità di relazionarsi in modo plurimo con persone dia altre culture che in questo modo sono chiamate ad uscire dalla "logica della riserva" per confrontarsi, allearsi, interagire con altri. Variando i propri ruoli, entrando in possesso dei saperi necessari al variare dei ruoli, è possibile una cooperazione su obiettivi specifici che comporta la nascita di nuove identità.

Una città interculturale è progetto che gioca la propria fattibilità nella capacità di istituzioni di mettere in atto sia percorsi di formazione in seso classico e specifico, sia eventi, situazioni, percorsi di vita reale che facilitino l’assunzione di consapevolezza e la diretta esperienza dell’alterità e delle modalità di relazione tra alterità.

Tra i momenti specifici vanno certamente considerate le proposte di formazione-aggiornamento che devono coinvolgere tutti gli operatori (dal vigile urbano all’addetto allo sportello dell’anagrafe, dal centralinista all’insegnante, dal giudice all’assistente sociale, dall’infermiere al dirigente dell’assessorato all’urbanistica) al fine di assumere in quanto istituzioni le dinamiche della relazione interculturale.

Come sopra si è detto le istituzioni e le loro azioni non sono mai neutrali: esse tendono a definire lo spazio sociale e non è pensabile che l’ottica interculturale venga assunta solo a livello di "spazio predefinito": se la logica interculturale deve attraversare l’intera città e questa logica che deve definire gli spazi sociali, ridisegnare la città, i suoi vissuti e le sue finalità. Ma per farlo non può certo farlo con logica paternalistica quanto piuttosto riconoscendo cittadinanza, ovvero voce, ad ogni suo abitante.

Aluisi Tosolini

[dalla relazione presentata all’incontro europeo tra le città che partecipano al progetto LIA (credo si chiami così).
Torino, Consiglio Comunale, settembre 1997]