Direzione didattica di Pavone Canavese |
(12.10.2009)
Una riforma "epocale" ? Quella di Fanfani, democristiano d.o.c. !
La storia,
si sa, è piena di paradossi. Nei primi anni Sessanta il governo di
centrosinistra guidato dall'onorevole democristiano Amintore Fanfani vara una
riforma della scuola decisamente all'avanguardia. Superando l'ostilità dei
settori più conservatori del suo stesso partito, degli allora neofascisti, dei
monarchici e di parte delle gerarchie vaticane, crea la scuola media unica,
gratuita ed obbligatoria.
Una riforma vera, che, come tale, ha effetti dirompenti su tutto il tessuto
sociale, anzi sulla storia futura del paese.
Le classi popolari e alcune categorie fino ad allora praticamente escluse, come
le donne, hanno finalmente accesso all'istruzione.
La riforma - nello spirito di un centrosinistra non ancora annacquato né
terrorizzato dal “rumor di sciabole” che si ode allorquando il Quirinale e il
Generale De Lorenzo decidono che ci si è spinti tropo in là - viene presentato
alla pubblica opinione come una vera rivoluzione, la quale, “entro il 1975”,
dovrà:
1) elevare il numero di licenziati della scuola media inferiore all'80%;
2) aumentare del 120% i licenziati delle scuole professionali;
3) aumentare del 150% quello degli istituti tecnici;
4) aumentare del 60% i maturati dei licei;
5) aumentare del 120% i laureati.
Questo è
guardare in avanti, questa è una vera riforma!
È la scuola di massa. E sono le masse, quelle del Sessantotto, a mandare in
crisi l'università, costringendola a liberalizzare gli accessi, creando tutta
una serie di agevolazioni per gli studenti-lavoratori, per i ceti meno abbienti.
Dove sta il paradosso? Che nessuno oggi ricorda il nome del Ministro
dell'Istruzione di allora a differenza di quanto accadrà in seguito, dove
praticamente ogni riforma, reale o fittizia, verrà associata a colui o colei che
si troverà ad occupare quella poltrona.
Negli anni Settanta è dura per chiunque mettere capo ad una riforma che non
incontri il favore delle forze sociali: scuole ed università sono l'epicentro
della contestazione. E chi ci prova non ha comunque la fortuna di passare alla
storia, di associare cioè il suo nome ad una riforma quanto meno tentata, dato
che immediatamente la questione diventa un problema di ordine pubblico.
Un esempio? La tentata riforma del sistema di istruzione portata avanti dal
ministro democristiano onorevole Franco Maria Malfatti.
Di lui non si ricorda più nessuno: dell'allora ministro degli Interni,
l'onorevole Francesco Cossiga (con la “K” per gli autonomi), anche lui
democristiano, praticamente tutti.
E arrivano
gli anni Ottanta. I giovani abbandonano le piazze per le discoteche o per
l'eroina, gli impiegati sfilano per le strade protestando contro gli operai che
occupano le fabbriche, e il “Corriere della Sera” di Franco Di Bella ospita
un'intervista al capo della P2 Licio Gelli firmata da Maurizio Costanzo.
Dilagano le televisioni commerciali, spesso in odore di P2, e la Rai-tv si
adegua: un dramma famigliare come quello del piccolo Alfredo, incastrato in un
pozzo nella sperduta Vermicino, si trasforma in uno spettacolo mediatico:
quarantotto ore di diretta filata.
La spettacolarizzazione giunge presto in politica e a farne le spese è la
ministra della pubblica istruzione, l'onorevole democristiana Franca Falcucci,
che nel 1985 vara una “riforma” per mettere la scuola - come ama ripetere - “al
passo con i tempi”.
Peccato che la montagna partorisca spesso dei topolini: in poco tempo la
“riforma” si arena sulla questione dell'ora di religione (facoltativa ma
curricolare) e sulla abolizione della storia antica nei primi due anni di scuola
superiore per lasciare più spazio alla storia contemporanea.
Scoppia
una contestazione che fa temere o sperare in un nuovo Sessantotto.
Sulla ministra piovono accuse da ogni parte, soprattutto dalla sua stessa
maggioranza.
I giovani la identificano come il male assoluto.
La “riforma”, divenuta nel frattempo “riforma-Falcucci”, non passa.
La ministra abbandona mestamente il campo, lodando tuttavia coloro che,
contestandola aspramente, si sono guadagnati il titolo di “ragazzi
dell'Ottantacinque”, affermando di capire il loro disagio e ammettendo i propri
errori.
Altri tempi …
I suoi
successori, i democristiani Giovanni Galloni e Sergio Mattarella, pur varando la
“riforma” dei moduli, avranno migliore fortuna … o forse no, dato che nessuno si
ricorda di loro.
Non così il ministro dell'Università, l'onorevole socialista Antonio Ruberti,
che si va letteralmente ad impelagare in un conflitto di ampia portata con gli
studenti della “Pantera”.
Per Ruberti “il prodotto-laureato non è costruito a misura delle esigenze del
mondo del lavoro. Innanzitutto perché sforniamo un solo prodotto, il laureato
appunto”. Lapalissiano e forse un po' troppo in là con i tempi: oggi verrebbe
lodato dai mass media.
Allora però la Prima Repubblica aveva le ore contate e il suo partito era ad un
passo dal baratro.
Ma il suo nome un piccolo posto nella storia lo conserva comunque.
La Seconda Repubblica si colora di azzurro: vince Forza Italia e il nuovo
ministro dell'Istruzione, Francesco D'Onofrio, non vuole essere da meno dei suoi
predecessori: il sistema scolastico italiano deve cambiare; è caduto il muro di
Berlino, non è possibile che in Italia rimanga tutto fermo, dichiara.
E infatti molte cose si muovono: si muove la parità tra pubblico e privato, si
muovono i tagli e si aboliscono gli esami di riparazione.
Ma D'Onofrio, complice forse una personalità poco incline a lacerare il video o
forse perché oscurato da chi sul video ha costruito un impero, viene presto
dimenticato.
Il resto è
storia decente.
Con la vittoria dell'ex democristiano Romano Prodi nelle elezioni del 1996, il
ministero dell'istruzione passa all'ex comunista Luigi Berlinguer. Non può certo
mancare una “riforma” della scuola, quella dei cicli, tutta incentrata sulla
“qualità”.
Ma, pur riuscendo nell'intento di associare il suo nome alla riforma, il
ministro, complice la caduta del governo, deve lasciare il posto al tecnico
Tullio De Mauro.
Ma ormai il governo di centrosinistra a le ore contate e De Mauro si trova
sostanzialmente a difendere l'esistente e una riforma, quella di Berlinguer, che
comincia a mostrare le prime crepe.
Primavera 2001: Berlusconi torna alla vittoria e il suo ministro
dell'istruzione, ormai non più pubblica, l'onorevole Letizia Moratti, cancella
la precedente e ne vara una tutta sua, teoricamente incentrata su quello che è
stato uno degli slogan più fortunati della campagna elettorale, la “scuola delle
tre i”: internet, inglese, impresa.
In realtà la “riforma” è molto più complessa e contraddittoria, ma ha almeno il
merito di legare il suo nome a chi l'ha ideata.
Finita la legislatura, vince ancora Prodi e il suo ministro dell'istruzione,
l'onorevole Giuseppe Fioroni, un ex democristiano, cancella la “riforma” che fu
della Moratti.
Il suo nome presto conquista gli slogan di una piazza che torna a protestare
contro l'ennesima “riforma”.
Passano due anni e Berlusconi torna nuovamente al potere. La sua nuova ministra,
l'onorevole Maria Stella Gelmini, vara una nuova “riforma”.
Una
domanda sorge a questo punto spontanea: ma faceva così schifo la scuola
italiana, tanto da meritarsi tutte queste riforme? All'estero sono convinti di
no, se è vero, come è vero, che per decenni migliaia di nostri connazionali
hanno letteralmente invaso le università e i centri di ricerca di mezzo mondo,
vincendo concorsi, dottorati, premi di ogni tipo.
La nostra istruzione pubblica non era seconda a nessuno, dalle elementari
all'università.
Lo è diventa in seguito … seconda, terza, poi quarantesima, quindi centesima e
chissà cosa ci aspetta tra qualche mese.
Un conto è fare una riforma, seria, globale, che investa l'intera società, che
coinvolga le sue forze più vive, un altro conto è accanirsi cinicamente su di
essa, come è accaduto negli ultimi decenni.
Non si mette la scuola “al passo con i tempi” (come hanno sostenuto in pratica
tutti i ministri dal 1985 ad oggi) violando ciò che si considera di volta in
volta un “santuario”, colpendo questa o quella “categoria”, cancellando questo o
quell'insegnamento; non si riforma la scuola a pezzettini, creando scompensi,
disarmonie, confusione, anarchia. Tutt'altro: così la si uccide!
Chi scrive ha avuto la fortuna di frequentare una scuola ancora non violentata
dalla politica, è stato “ragazzo dell'Ottantacinque” e “pantera” nei primi anni
Novanta, e può dire che era una scuola seria, magari non sempre al passo con i
tempi, sicuramente non all'avanguardia in alcuni campi, ma comunque seria. Chi
lo ha messo al mondo, poi, pur essendosi fermata al quarto magistrale, sarebbe
ancora in grado di tradurre oggi una versione di Latino senza ricorrere al
vocabolario, come anche di individuare l'autore di un determinato dipinto, per
non parlare delle poesie e della musica.
Lei, mia madre, è figlia della riforma del 1963, fortemente voluta dal Primo
Ministro di allora, l'onorevole democristiano Fanfani, che porta la firma
dell'onorevole democristiano Luigi Gui e che venne votata non solo dal governo,
ma anche dai comunisti, con il consenso dei sindacati e di tante altre forze
sociali, per fare progredire la nazione tutta.
Senza quella legge, sarebbe stata relegata al ruolo di madre schiava ed
ignorante per tutta la vita (non è una sorta di burqa questo?) e il sottoscritto
non avrebbe potuto fare altro che andare a lavorare, magari in miniera, da buon
abruzzese, dopo le elementari se non prima.
E senza il Sessantotto, che oggi appare agli occhi di chi governa causa di tutti
i mali e che allora si rivolse proprio contro l'onorevole Gui e il suo progetto
di riforma universitaria, non avrebbe certo potuto approdare all'università né,
tanto meno, diventare docente.
Però … no, forse a pensarci bene, la causa di tutti i mali è proprio il
Sessantotto …